Impressioni di settembre

La giornata del 22 settembre è stata un’importante boccata d’aria, come se finalmente fosse saltato il tappo. Non avevamo dubbi sul fatto che a rimettere in moto la rabbia sociale sarebbe stata la Palestina e non la politica interna. Per esempio, il “blocchiamo tutto per Gaza” ha sfidato il decreto sicurezza più di quanto non abbiano fatto finora le piazze organizzate su quel terreno specifico di contestazione. Il ciclo storico di guerra in cui siamo entrati colloca le vite e quindi le iniziative di lotta su un piano necessariamente internazionale, di cui il fronte interno è il riflesso. Se le idee spesso divergono, c’è qualcosa di universale nei sentimenti. Che l’emozione contro il genocidio stesse crescendo era palpabile: lo sciopero generale le ha fornito l’occasione di esprimersi. Quel sentimento si è tradotto in partecipazione di massa anche per la parziale e opportunistica legittimazione – sul piano umanitario – da parte di mass media e mondo culturale, grazie al coinvolgimento che ha suscitato la Global Sumud Flotilla. Il ponte tra il sostegno a distanza e la partecipazione diretta ai blocchi è avvenuto grazie ai portuali di Genova. Sono state le loro dichiarazioni – e la storia da cui provengono – a incrinare il recupero politico-umanitario-spettacolare operato sulla Flotilla e a trasformare uno sciopero in un movimento reale. Ha detto bene una scrittrice palestinese, parlando di una flottiglia per i ritardatari. Se però tra questi ultimi ci sono migliaia di giovani e di giovanissimi, il ritardo può assumere la dimensione di un nuovo inizio. Si tratta dunque di spingere il più in avanti possibile la marea, cogliendo fino in fondo la frattura che si è aperta (e che non è detto che rimanga aperta a lungo).
Da questo punto di vista, la valutazione del 22 settembre cambia se lo si osserva dal punto di vista sociale oppure se ci si concentra sui gruppi che hanno mantenuto costante l’iniziativa a fianco della resistenza palestinese in questi due anni. Le iniziative a nostro avviso più significative sono state i blocchi dei porti, perché hanno unito precisione strategica e partecipazione di massa – di lì passano le forniture belliche al sistema genocida israeliano, lì si organizza la logistica di guerra –, mentre gli altri blocchi sono stati più generici. Che di fronte a un genocidio si debba fermare tutto è un’indicazione importante, sentita e facilmente riproducibile, anche nelle piccole realtà. Ma ad essa va aggiunta la capacità di colpire in modo più preciso la macchina delle collaborazioni (fabbriche, centri di ricerca, banche, assicurazioni, aziende). La mancanza di tale aggiunta denota una certa arretratezza dei gruppi più organizzati, a cui lo sciopero del 22 settembre ha fornito un’occasione in buona parte non còlta. Se lo “stato di agitazione permanente” continuerà, come sembra, a creare momenti di incontro e di rottura, è necessario saper dare nome, cognome e indirizzo a chi si arricchisce con lo sterminio del popolo palestinese. Unendo al “blocchiamo tutto” (che permette una partecipazione più ampia) il “mandiamo in pezzi la macchina globale del genocidio”. Se persino una relatrice ONU parla di “economia del genocidio”, si tratta di trarne le conclusioni pratiche. Se “il genocidio continua perché è redditizio”, la solidarietà internazionale con la resistenza palestinese lo deve trasformare in un pessimo affare.