Palestina e carcere

Israel Prisoners Escape

A Prison guard stands at the Gilboa prison in Northern Israel, Monday, Sept. 6, 2021. Israeli forces on Monday launched a massive manhunt in northern Israel and the occupied West Bank after six Palestinian prisoners escaped overnight from a high-security facility in an extremely rare breakout. (AP Photo/Sebastian Scheiner)

Carcere e Palestina sono da sempre strettamente intrecciati. Il popolo palestinese vive rinchiuso in una “prigione a cielo aperto” in Cisgiordania e in un “carcere di massima sicurezza” a Gaza. Dal 1948 a oggi, lo Stato israeliano ha incarcerato qualcosa come 800 mila palestinesi (tra cui molti ragazzi e addirittura bambini). La liberazione dei prigionieri è un obiettivo costante della resistenza palestinese (e infatti esso è stato alla base dell’azione del 7 ottobre ed è ancora centrale per raggiungere il cessate il fuoco). Il movimento internazionale contro il genocidio, che attraversa e taglia in due la società, è entrato nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, persino negli stadi. Certo non poteva né può lasciare indifferenti i prigionieri, vista anche l’ampia presenza nelle carceri di arabi e musulmani. Chiunque abbia organizzato presìdi sotto le carceri in questi due anni sa per esperienza che “Palestina libera!” è l’urlo che più abbatte simbolicamente le mura e le sbarre.

Questo movimento “dentro-fuori” non solo si gioca sul piano internazionale (per quanto più o meno acuta ne sia la consapevolezza), ma rende potenzialmente reciproca e non univoca la direzione della solidarietà. Si può pensare in tal senso all’intreccio che si è creato tra la protesta di Teuta Hoxha nel carcere britannico di Peterborough (dove la militante di Palestine Action ha raggiunto i suoi obiettivi dopo 28 giorni di sciopero della fame) e quella che hanno fatto in suo sostegno negli Stati Uniti i prigionieri Casey Goonan (accusato di aver incendiato delle auto della polizia durante gli accampamenti per Gaza nelle università) e Malik Muhammad (un compagno palestinese incarcerato per una serie di azioni avvenute durante la Floyd Rebellion).

Anche dalle carceri italiane arriva qualche segnale.

La scelta del nostro amico e compagno Massimo, in “semi-libertà” nel carcere di Trento, di scioperare per Gaza il 30 maggio scorso (https://ilrovescio.info/2025/05/26/preferisco-di-no/), poi il 20 giugno, il 22 settembre e il 3 ottobre, non è un caso isolato. Abbiamo appreso che un gruppo – non sappiamo quanto numeroso – di detenuti in “semi-libertà” (art. 21) del carcere bolognese della Dozza ha scioperato il 3 ottobre. Questo il loro comunicato:

«Preso atto di quello che sta succedendo a Gaza, noi dipendenti della F.I.D. abbiamo deciso di scioperare il 3/10/25.

Per noi reclusi andare a lavorare è un movimento di libertà dal contesto carcerario in cui viviamo.

Nonostante ciò, rinunciamo a un giorno di libertà e di stipendio.

Questa decisione è stata presa per manifestare tutta la nostra indignazione per il genocidio tutt’ora in atto e per manifestare il nostro supporto alle persone della Flotilla arrestate con l’unica colpa di essere ambasciatori di umanità».

Ci sembra allora urgente porre e porci alcune questioni.

Come stare in carcere è un dibattito da cominciare quando si è liberi. Arresti come quelli avvenuti il 22 settembre e il 3-4 ottobre potrebbero diventare più frequenti (e duraturi) se i blocchi e gli scontri dovessero continuare. Nello specifico, più gli arrestati hanno da dire e da fare per la liberazione della Palestina, simbolo oggi di una rivolta globale, più la lotta a fianco della resistenza palestinese può coinvolgere le carceri. Più ci si mette d’accordo prima, più l’iniziativa può risultare comune, tempestiva e basata sull’adeguato sostegno esterno.

Viviamo in tempi di guerra. L’esempio degli arresti di massa in Gran Bretagna dopo la messa al bando di Palestine Action suggerisce due cose: che il carcere può tornare ad essere un’esperienza collettiva; e che lottare al suo interno è parte di una lotta di liberazione sociale.

Questo rende necessario un coordinamento nella traduzione e circolazione dei materiali e allo stesso tempo un impegno per allargare la portata del dibattito e le possibili iniziative di lotta. Nel senso che compagne e compagni sparsi nelle carceri di diversi paesi possono sostenersi a vicenda (come e più di quanto è successo finora), ma anche intraprendere delle proteste comuni maturate da un confronto comune. E questo non solo per migliorare le condizioni detentive di qualcuno o di tutte e tutti, o per sostenere questa o quella scarcerazione là dove ci sono le condizioni per una pressione efficace in tal senso; ma anche per partecipare da dentro agli scioperi, alle campagne o ai movimenti che si sviluppano all’esterno.

La battaglia per la liberazione del prigioniero palestinese Anan Yaeesh è in tal senso, oltre che doverosa, un’occasione per legare carcere e Palestina, per unire i quartieri, le strade e i porti alle celle dove sono rinchiusi i nostri compagni e le nostre compagne.

Soprattutto ora, visto che Anan, nel frattempo trasferito nel carcere di Melfi, il 4 ottobre è entrato in sciopero della fame.

Non sapremmo trovare parole migliori di quelle scritte da Casey Goonan:

«Come prigionieri incarcerati per la nostra partecipazione al movimento di liberazione palestinese in Occidente, abbiamo la responsabilità reciproca, oltre i confini, di vivere la nostra vita in prigione con la stessa fermezza del movimento dei prigionieri palestinesi tenuti prigionieri nelle prigioni “israeliane”.

Gli stati da cui siamo stati catturati sono i facilitatori del genocidio accelerato dei palestinesi da parte dell’entità sionista, così come dei genocidi in corso dei neri e degli indigeni, le cui terre continuano a occupare.

Mentre la sinistra occidentale continua a passare da una crisi all’altra, evitando le proprie responsabilità nei confronti della Palestina, noi siamo tutto ciò che abbiamo».