Luci da dietro la scena (XXIX) – Prigione a cielo aperto, carcere di massima sicurezza e “genocidio incrementale”
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Luci da dietro la scena (XXIX) – Prigione a cielo aperto, carcere di massima sicurezza e “genocidio incrementale”
Le due versioni del mega-carcere
Le odierne prigioni assomigliano al Panopticon originariamente concepito da Jeremy Bentham, il primo filosofo moderno a giustificare la logica della reclusione all’interno di un nuovo sistema penale coercitivo. Il Panopticon, un carcere tristemente celebre all’inizio del XIX secolo, era progettato in modo da consentire alle guardie di osservare i prigionieri ma non viceversa. L’edificio era circolare, con le celle dei carcerati disposte lungo il perimetro esterno, mentre al centro del cerchio si trovava una grande torre di osservazione. In qualsiasi momento le guardie potevano guardare giù nella cella di ciascun detenuto – e quindi sorvegliarne il comportamento potenzialmente riottoso –, laddove delle tende accuratamente disposte impedivano ai carcerati di scorgere le guardie, così che non sapessero se e quando venivano monitorati. La convinzione di Bentham era che lo “sguardo” del Panopticon avrebbe costretto i prigionieri a comportarsi in modo virtuoso. Trovandosi come sotto l’occhio veggente di Dio, essi avrebbero dunque provato vergogna per i loro comportamenti malvagi.
Sostituiamo alla condotta morale il collaborare con l’occupante, cambiamo la struttura circolare del Panopticon con una serie di criteri geometrici di imprigionamento, ed ecco che la decisione israeliana del 1967 appare proprio quella di isolare in un moderno Panopticon i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. […]
Nel 1967 la rotta ufficiale tracciata da Israele, tra impossibili ambizioni nazionalistiche e colonialiste, trasformò un milione e mezzo di individui in detenuti di un mega-carcere. Non si trattava però di una prigione riservata a pochi detenuti incarcerati a torto o a ragione: essa fu imposta a un società nella sua interezza. Era, ed è tutt’ora, un sistema crudele creato per la più vile delle ragioni, ma non solo. Nell’edificarla, alcuni architetti cercarono davvero di ispirarsi a un modello il più umano possibile, probabilmente perché consapevoli che si trattava di una pena collettiva inflitta per un crimine mai commesso. Altri, invece, non si curarono nemmeno di concepire una versione più blanda e umana. Giacché erano presenti queste due linee di pensiero, il governo offrì alla popolazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ambedue le versioni del mega-carcere. Una era una prigione a cielo aperto stile Panopticon, l’altra un carcere di massima sicurezza. E se non avesse accettato la prima versione, le sarebbe stata riservata la seconda. […] La verità è che la prigione a cielo aperto era già abbastanza dura e disumana da scatenare la resistenza della popolazione lì rinchiusa, per cui la variante di massima sicurezza veniva inflitta come rappresaglia a tale resistenza.
[…]
I metodi e i dettagli della rappresaglia si fondavano sulle misure militari contro-insurrezionali adottate dai britannici contro i palestinesi durante la rivolta araba degli anni Trenta; a quanto pare, i nuovi governanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza erano rimasti fortemente impressionati da questa metodologia spietata. Sotto i britannici, questo modello di disumanità era rimasto in vigore per tre anni; per i palestinesi dura da oltre cinquant’anni [il testo è del 2017].
Il partito laburista e la sinistra sionista
La responsabilità di aver ingannato il mondo durante quel decennio [1967-1977] ricade unicamente sul Partito Laburista (e, al suo interno, anche sul defunto Shimon Peres che, dopo la sua morte avvenuta nel 2016, è stato acclamato come un campione di pace). […]
Nel 1969 il movimento laburista, che ancora si chiamava Mapai, attraversò una fase di ristrutturazione da cui uscì con un nuovo nome: divenne il Ma’arach (‘Alleanza’). Si trattava infatti di una coalizione formata dal Mapai, il Rafi (un gruppo parlamentare guidato da David Ben-Gurion) e l’Ahdut HaAvoda, il partito di Ygal Alon. L’ultimo gruppo a aderirvi fu quello della sinistra sionista, il Mapam. L’“Alleanza” rimase intatta fino alla sua sconfitta alle elezioni del 1977 contro il Likud, lo schieramento di Menachem Benin [poi di Sharon e di Netanyahu].
[…] già nel 1967, al fine di mantenere un controllo strategico sui Territori Occupati, il governo unificato aveva concordato di stabilire coloni e soldati in alcune aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. A complicare il piano furono però due circostanze: una delle quali [l’altra è la resistenza palestinese] fu l’emergere del movimento messianico Gush Emunim, che inviò i propri seguaci a colonizzare quelli che consideravano antichi siti biblici, molto spesso proprio in mezzo alla popolazione palestinese della Cisgiordania. Il governo voleva invece insediare gli ebrei in aree meno densamente abitate dai palestinesi.
Tra i responsabili politici era presente un numero davvero significativo di reduci del 1948, i quali credevano di aver riscattato per sempre l’antica Terra d’Israele nel 1967. In qualità di ministri del governo, essi chiusero un occhio quando, la notte del 12 aprile 1968, il primo gruppo di coloni ebrei si trasferì a Hahil, Hebron e in Cisgiordania. Il gruppo si installò al Park Hotel, proprio nel cuore della città, e poche settimane dopo il governo autorizzò la creazione della città ebraica di Qiryat Arba, che dominava su Hebron. La comunità internazionale rimase indifferente mentre, a quanto pare, in quel particolare frangente storico gli Stati Uniti decisero di inaugurare una nuova e potenziata fase del proprio rapporto con Israele: vollero infatti dotare lo Stato ebraico delle armi più avanzate e all’avanguardia in loro possesso (alla fine del 1968, furono consegnati a Israele cinquanta caccia Phantom).
Il sostegno ai primi coloni da parte del governo laburista, rimasto al potere fino al 1977, passò del tutto inosservato sotto gli occhi di un mondo che, cinquant’anni dopo, avrebbe considerato gli insediamenti ebraici il primo ostacolo alla pace.
Il sindacato
La prigione aperta sembrava funzionare. Da quel momento in poi non ci fu più bisogno del coinvolgimento diretto del Comitato dei Direttori generali o del Ministero della Difesa. L’esercito attuava il suo dominio su ogni aspetto della vita, ma fin dall’inizio fu assistito da altri enti israeliani. Uno di questi era il sindacato generale, l’Histadrut. Questa organizzazione pre-statale era già stata molto efficiente nell’estromettere i palestinesi dal mercato del lavoro mandatario, e ciò a dispetto del fatto che veniva vista dal mondo occidentale – compreso il movimento sindacale britannico – come un esempio di organizzazione socialista votata al benessere dei lavoratori. Nel 1967, a partire dalla seconda settima di giugno [cioè dopo la Guerra dei Sei giorni e l’inizio dell’occupazione del restante 22% della Palestina storica], l’Histadrut fu incorporato nel meccanismo di occupazione. Il governo gli concesse il monopolio del commercio e dell’industria: e sul campo non agì come un sindacato, ma come un mastodontico complesso industriale.
Il movimento “messianico” dei coloni
Il movimento era già attivo nel 1968, ben prima di essere formalmente istituzionalizzato nel 1974 da Kook, il quale gli diede anche il nome di Gush Emunim (‘Il blocco dei fedeli’). […]
Il primo atto ufficiale del movimento (da distinguere rispetto alle azioni intraprese dai coloni già presenti a Hebron e Gush Etzion) ebbe luogo alla fine del 1974. Fu il tentativo di insediarsi nella zona di Nablus, nella vecchia stazione ferroviaria ottomana di Sebastia, allo scopo di creare due stanziamenti ancora oggi presenti: Alon Moreh e Qadum. Anche se inizialmente essi vennero sfrattati, alla fine il governo laburista concesse loro il permesso di restare, tramite un accordo che suggellava l’integrazione degli sforzi compiuti dal governo con quelli dei coloni.
Fu così che nel 1974 il movimento dei coloni divenne una lobby ideologica che influenzava le politiche governative riguardanti la colonizzazione e che godeva di una presenza sempre maggiore nella Knesset [il parlamento israeliano] e nella sfera pubblica in generale. Ma se per un verso i coloni erano dei manipolatori, per l’altro loro stessi venivano manipolati. Erano infatti usati come arma, e molto spesso come scusa, per giustificare la confisca di terre, e lo Stato ricorreva a loro come strumento demografico per effettuare una pulizia etnica con mezzi alternativi.
Il movimento era un comodo canale per implementare quegli aspetti della politica di colonizzazione ai quali il governo laburista non voleva essere direttamente associato; specialmente le politiche che contraddicevano apertamente il diritto e le convenzioni internazionali. Anziché sullo Stato, infatti, la responsabilità veniva fatta ricadere su presunti gruppi di parte. Perciò, dopo che la mega-prigione, a prescindere dalla sua versione, fu delineata geograficamente e attivamente mediante il saccheggio delle terre, venne ulteriormente ristretta e modellata in forza della mappa delle colonie ebraiche. La vita in prossimità delle due comunità, quella dei palestinesi occupati e dei coloni, non faceva altro che accentuare l’immagine di un carcere. Ogni colonia, e ogni blocco di colonie, era circondato da una recinzione elettrica e da un muro che chiudevano i coloni al loro interno, ma che combinate tra loro rinchiudevano i palestinesi in decine di mini-prigioni dentro l’enorme complesso della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
Il Likud, o dell’indistinzione tra colono e soldato
Il maggiore cambiamento rispetto al decennio precedente [1967-1977] fu la licenza di agire liberamente che il governo del Likud concesse ai coloni religiosi più ideologizzati. Dover integrare l’attività più violenta dei coloni all’interno della struttura generale di controllo non era un aspetto che tutti, nella burocrazia dell’occupazione, accolsero con favore. Tuttavia, i facinorosi e i vigilantes presenti tra i coloni, i quali spesso eseguivano azioni punitive come sradicare alberi, bruciare campi o, in generale, molestare i palestinesi, venivano tollerate perché la loro attività accresceva ulteriormente il controllo e la presenza di Israele, specialmente lungo i confini tra le enclavi palestinesi “pure” e le nuove “aree interdette” a chiunque non fosse ebreo.
Nel 1982, Yitzhak Mordechai, il comandante della regione centrale, decise di impiegare nella zona di Hebron una compagnia di riserva composta da coloni in qualità di “unità di difesa regionale”. Anche altrove fu adottato questo sistema, in cui i coloni venivano usati come soldati nei pressi dei propri insediamenti, molto spesso con l’autorizzazione a intimidire e compiere ancora più abusi sulla popolazione locale.
Un piano per Gaza del 1967
Complessivamente, secondo fonti dell’ONU, in quei primi giorni [di giugno del 1967] Israele espulse in totale quasi 180.000 palestinesi. Nel riassumere questo periodo di pulizia etnica della Palestina, vorrei tornare ad alcuni dei piani che non furono adottati, o quantomeno a uno che, purtroppo, in futuro potrebbe ancora avere una certa rilevanza, qualora Israele avesse mai il potere, la volontà o la necessità di allontanare in massa la popolazione occupata al fine di soddisfare le sue esigenze strategiche fondamentali. Parliamo dell’idea di trasferire la gente della Striscia di Gaza, o quantomeno gli esuli che lì vivono, in Cisgiordania.
Ciò fu discusso seriamente, per la prima volta, nel luglio 1967 da uno dei più rispettati e alti ufficiali dell’esercito, Mordechai Gur, il quale fu invitato dal governo [ripetiamo: laburista] a presentare il suo piano. Egli propose di inglobare i profughi di Gaza a quelli in Cisgiordania:
Dobbiamo creare le condizioni che inducano le persone ad andare via. Dobbiamo fare pressione su di loro, ma in modo da indurle a non resistere, bensì a partire. Dovrebbe essere incoraggiati a farlo sia i profughi [del 1948] sia i residenti in pianta stabile, così che questi sentano che non ci sono speranze nella Striscia [di Gaza] dal punto di vista agricolo […]. Inoltre, quando l’UNRWA completerà un nuovo censimento, sarà chiaro che essa non disporrà di razioni di cibo sufficienti per tutti i rifugiati […] questo potrebbe avere gravi implicazioni per la sicurezza […] dovremmo bloccare ogni sviluppo laggiù [in modo da incoraggiare il trasferimento].
La prova generale
Nel 2004 l’esercito israeliano cominciò a costruire una città araba fittizia nel deserto del Negev. Questa aveva le dimensioni di una città vera e propria, con strade (tutte dotate di un nome), moschee, edifici pubblici e automobili. Costruita al costo di 45 milioni di dollari, nell’inverno del 2006 la città fantasma era diventata una replica di Gaza, così che l’esercito israeliano, vista la battuta d’arresto subita a nord nel conflitto con Hezbollah, si potesse preparare a combattare a sud una “guerra migliore” con Hamas.
Dopo aver visitato il sito all’indomani della guerra in Libano, il capo di stato maggiore israeliano, Dan Halutz, annunciò alla stampa che i soldati si stavano «preparando per lo scenario che si aprirà nel popolato quartiere di Gaza City». Una settimana prima di bombardare Gaza, Ehud Barak [l’allora presidente di Israele] assistette a una prova generale della guerra via terra. Le troupe televisive straniere lo filmarono mentre osservava le truppe di terra conquistare la città fittizia, prendendo d’assalto le case vuote e uccidendo senza indugio tutti i “terroristi” che vi si nascondevano.
[…]
Era questa la nuova versione del carcere di massima sicurezza che attendeva i palestinesi nella Striscia di Gaza, giacché il governo israeliano e i responsabili della sua politica di sicurezza si erano resi conto che il modello della prigione aperta, in cui la popolazione della Striscia avrebbe dovuta essere rinchiusa sotto un governo collaborativo dell’A[utorità]P[alestinese] [il famoso “Stato palestinese” sul cui riconoscimento i governi europei fanno finta di litigare] era stato mandato a monte dalla popolazione stessa. Tuttavia, neppure la ritorsione per mezzo dell’assedio e del blocco di Gaza riuscì a farla arrendere al modello voluto dagli israeliani.
[…]
È così che è avvenuto il fiasco generale israeliano del 2005, trasformatosi poi in quello che altrove ho definito “genocidio incrementale della Palestina”. Gli israeliani avevano chiamato la prima operazione condotta contro Gaza “Prima pioggia”; più che un rovescio di acqua benedetta, fu una pioggia di fuoco dal cielo.
(brani tratti da Ilan Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, Fazi, Roma, 2022 [ed. originale 2017] )