Gaza non è un’ingiustizia a fianco di altre, bensì l’orrore che le contiene e le compendia tutte. Il genocidio in corso ricapitola la violenza fondativa di ogni Stato e ci mostra in diretta l’«accumulazione originaria» del capitale – l’esproprio coloniale della terra, la guerra alla sussistenza, la violenza sistematica contro le donne e i bambini, la streghizzazione dei refuseniks e dei non-allineati, lo sviluppo delle tecno-scienze, l’esperimento permanente sul materiale umano –, equipaggiata di tutti gli strumenti che un Progetto Manhattan fattosi mondo ha elaborato dal 1945 ad oggi. A Gaza possiamo vedere nitidamente che «il nemico è la nuova potenza che dispone degli antichi emblemi» (Karl Kraus). Se volessimo riassumere tutto ciò in una sigla: International Business Machines (IBM). Il colosso statunitense dell’informatica – il cui programma completo si chiama niente meno che Smart Planet – raccoglie e gestisce i dati biometrici del popolo palestinese per conto dello Stato israeliano, dopo aver fornito le proprie schede perforate alla macchina di sterminio nazista. L’esistenza stessa di IBM Israel tradisce ignominiosamente la memoria della Shoah nel perfezionamento high tech di una nuova Nakba.

Gaza è il simbolo concreto di tutte le oppressioni, ma anche l’equivalente generale delle resistenze. È la vita che si sostiene con il niente che trova, è lotta armata, Sumud, memoria storica e poesie di lancinante bellezza. Nelle testimonianze da Gaza incontriamo sconosciuti Ungaretti che si appoggiano a «brandelli di muri« (dei loro famigliari non è rimasto nemmeno tanto) o ad «alberi mutilati», sconosciuti Picasso che rappresentano, insieme a quello umano, lo strazio degli asini, sconosciute Rosa Luxemburg che soffrono nel vedere picchiare quegli animali mansueti quando, esausti, non riescono più ad avanzare sotto il peso di case racchiuse nei bagagli, sconosciute Ingeborg Bachmann che non rinunciano alla magia delle parole nemmeno dentro la «linea del fuoco».

Quello in solidarietà con la resistenza palestinese è, con tutte le sue insufficienze, il più vasto movimento internazionale degli ultimi decenni. Non c’è continente in cui masse di diseredati o minoranze più o meno numerose non si sentano coinvolte. Anche quando non incide direttamente sulle vite quotidiane di milioni di persone, il dolore che si leva dalla Striscia non può non penetrare nella sostanza psichica dell’umanità.

Si tratta di un terribile banco di prova della nostra reale consistenza e insieme un anticipo delle capacità disfattiste di fronte alla guerra prossima ventura.

Quando persino una relatrice dell’ONU parla di «economia del genocidio», elencando aziende le cui sedi e i cui addentellati sono ovunque, non si può certo dire che manchi il «materiale infiammabile» per agire in modo diretto e risoluto. E chi, con un minimo di buona fede, potrebbe dire «non sono questi i mezzi»? Quando tutti gli Stati – tanto in ambito NATO come in quello dei BRICS – sono complici o al meglio spettatori passivi; quando il Diritto internazionale è una barzelletta insanguinata; quando anche coloro che praticano l’azione diretta nonviolenta diventano un’«organizzazione terroristica» (come nel caso della messa al bando di Palestine Action in Gran Bretagna); quando si ammazzano i bambini in fila per un po’ d’acqua.

Quale che sia l’angolo d’attacco che consideriamo prioritario, non vedere nel genocidio dei palestinesi il cuore di un mondo senza cuore è una distrazione dello sguardo o una pigrizia dell’anima.

Vogliamo lottare contro il razzismo di Stato? Gaza.

Vogliamo contrastare l’economia di guerra e la militarizzazione sociale? Gaza.

Non vogliamo separare emancipazione femminile e resistenza anticoloniale? Gaza.

Vogliamo metterci di traverso rispetto alla furia estrattivista ed ecocida del capitalismo? Gaza.

Vogliamo combattere la tortura del carcere e il carcere come tortura, solidarizzando con le compagne e i compagni prigionieri? Gaza.

Vogliamo opporci alle smart city e alla società dei varchi? Gaza.

Ci battiamo per un’agricoltura contadina contro le nuove enclosures genetiche e digitali? Gaza.

Siamo inorriditi dal cibo in laboratorio e dalla riproduzione artificiale dell’umano? Gaza.

Cerchiamo un nesso tra la profilazione di massa e lo sterminio algoritmico? Gaza.

Odiamo gli Elon Musk, i Jeff Bezos, i Peter Thiel e il neo-feudalesimo che ci stanno apparecchiando? Gaza.

Nella solidarietà attiva e internazionalista con gli oppressi palestinesi, come anarchiche e anarchici, in particolare, abbiamo l’occasione di rievocare e attualizzare le pagine migliori della nostra storia.

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, dall’Indonesia a Cuba, quelle anarchiche sono state le idee rivoluzionarie più influenti nei movimenti anticoloniali.

Anarchiche e anarchici furono tra i primi a ribellarsi, nel 1896 in Italia, contro l’aggressione imperialista all’Abissinia al grido di «Viva Menelik!», «Abbasso Crispi!», «Via dall’Africa!», contribuendo a un moto popolare che ha bloccato i treni militari, assaltato le caserme, liberato i coscritti. E lo stesso avvenne nel 1911 con l’occupazione coloniale della Libia, quando la campagna per liberare Augusto Masetti (il soldato anarchico che sparò al colonnello Stroppa urlando «Abbasso la guerra, viva l’anarchia!») fu un fulgido esempio di agitazione antimilitarista. Per non parlare del ruolo decisivo giocato durante la «settimana rossa», che è stata anche e soprattutto un’insurrezione contro i signori dello sfruttamento e della guerra. Durante la disfatta di Caporetto del 1917, provocata dal più vasto «sciopero militare» della storia italiana, il movimento anarchico spinse – tra l’immobilismo e l’ignavia del Partito socialista (con l’eccezione della sua Federazione giovanile) – per trasformare la rivolta dei fanti contadini e operai in insurrezione contro la guerra e contro lo Stato. Persino durante l’occupazione dannunziana di Fiume, Malatesta e altri compagni tentarono – kairós impervio come pochi altri – di guadagnare al movimento proletario «quel vago sovversivismo ancora incerto tra la nostalgia della trincea e il richiamo della barricata». E anche durante la rivolta di Ancona del 1920, scoppiata per impedire le partenze coatte dei soldati verso l’Albania, anarchiche e anarchici diedero il loro generoso appoggio.

Allargando lo sguardo, non molti sanno che la rivolta libertaria e antiburocratica del Maggio francese fece esplodere quella rottura con i sindacati e il Partito comunista maturata durante la guerra d’Algeria, un’atroce campagna coloniale disertata da centinaia di migliaia di giovani e sostenuta dal PCF e dalla CGT.

E potremmo parlare dell’anima internazionalista e libertaria dei Gari, del Movimento 2 giugno, delle Rote Zora…

Quelle idee, quei sentimenti, quelle storie possono oggi darsi appuntamento pubblico e segreto con un «comunismo dello spirito» che raramente nella storia recente è stato così universale.

Gaza è il nome proprio della rabbia, del bisogno di riscatto, del desiderio di giustizia. Invoca amore e chiede vendetta.