Radici, vento e zavorre: un dibattito

All’articolo Radici al vento, scritto da SteConFra, uscito sul numero 15 (giugno 2024) della rivista anarchica “i giorni e le notti” e che riprendiamo anche qui, ha risposto Peppe Aiello con Andare, tornare: scomodo e inestirpabile è il luogo che ti conosce, un testo uscito sul numero 34 (ottobre 2024) di “Malamente. Rivista di lotta e critica del territorio” e che pubblichiamo subito dopo il primo. Con fare apparentemente giocoso, Aiello ha sferrato a SteConFra qualche discreto cazzotto etico-filosofico (“siete ancora zavorrati da certo marxismo, per questo fate fatica a volare…”). SteConFra, non ignari dell’arte del jujitsu, staranno probabilmente studiando le contromosse. Intanto, ecco qui il primo scambio.

Radici al vento

Il giorno

L’albero non ha più le foglie”

zù Jachinu Spagnuolo, contadino e uomo-albero

Con queste parole, dette nel siciliano di Polizzi a sua moglie e compagna di una vita, il nostro amico Gioacchino ha presagito e annunciato la propria morte. Le ha pronunciate il mattino del’8 gennaio e se n’è andato, con un infarto, la notte immediatamente successiva. Gioacchino non era un compagno nel senso che diamo, in ambiente anarchico, a questo termine, ma molte volte abbiamo mangiato con lui e più spesso abbiamo condiviso il pane della parola sul mondo e sulla vita. Se n’è andato a 84 anni quasi compiuti – li avrebbe compiuti il 14 febbraio e molto dice la data di nascita di quest’uomo così capace di amare, che lascia dietro di sé la scia dolce della sua presenza, di una saggezza coltivata a giardino, a orto, a noccioleto; a noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, rimarrà a lungo nella memoria il suo sguardo abitato dall’esperienza con gli altri: con le persone, in un’arcata di tempo che ha visto il suo mondo – la civiltà agricola di montagna, con ampi margini di autonomia materiale e immateriale – prima cambiare e poi scomparire; con le piante e con gli animali che tanto gli hanno dato, in quanto lui (si) era disposto a (ap)prendere.

Gioacchino era un uomo radicato e felice come pochi ne abbiamo conosciuti. Per questo non ci è sembrato abusivo tratteggiare qui alcuni lineamenti del suo essere.

La sua frase di congedo dice qualcosa sul radicamento anche agli sconosciuti, qualcosa da apprendere visto che, generalmente, ci manca. L’essere radicati è, tra le altre cose, un’esperienza del corpo, un appartenersi integrale che l’intelligenza del nostro amico riporta non a caso con l’immagine dell’albero spoglio; questo dialogo organico è così forte che non si interrompe neanche con lo spegnersi dell’armonia entropica che ci tiene in vita: esso cambia semmai di segno, dando agnizione della morte imminente.

Ci sembra che, tra le tante cose che il Sistema mette in conto di distruggere per perpetuarsi, ci sia anche questa esperienza, questo appartenersi integralmente che, finché dura, potrebbe mandare in pensione Descartes, il mondo scisso da lui architettato e tutti i suoi eredi contemporanei, i molti e variegati “gestori della vita”.

Sentirsi un albero spoglio, sentire l’inverno della vita, e non abbattersi: questa postura di dignità di fronte all’avvicinarsi della morte ci sembra inoltre una vera e propria diserzione del paradigma, dalla sopravvivenza tele-aumentata senza fine promossa dall’utopia progressista, oggi divenuta transumanista.

Di sradicamento e di estrattivismo

Nei tempi densamente grami che ci sono toccati in sorte, anche tra le nostre file di disgraziati tra i disgraziati, qualcosa di positivo si muove. Sempre più spesso, anche nei giri anti-autoritari, si parla di estrattivismo per descrivere più di qualche sintomo che la ristrutturazione tecnodigitale del sistema va spargendo qua e là in territori intoccati, fino a qualche tempo fa, da un livello così intenso di devastazione creatrice di profitti e controllo. Ci rallegriamo sinceramente dell’emergere di questa prospettiva teorico-pratica che, in minima parte, sentiamo di aver contribuito a creare. Tuttavia, partecipando a qualche iniziativa organizzata sul tema, abbiamo notato nei dibattiti una certa difficoltà a nominare (e a sentire) un altro fenomeno che a noi sembra complementare e connaturato a questo: lo sradicamento. Ci pare che questa ambivalenza abbia a che fare con la capacità della modernità – e della sua religione, il progressismo, che soggiace e prepara il lato armato delle macchine e degli eserciti – di penetrare e catturare l’immaginario di alcuni, molti, dei suoi nemici. Capita, infatti, di ascoltare apologie dello sradicamento in quanto contrassegno di una conquistata libertà individuale, in un ribaltamento dialettico e di valore che trasforma ciò che storicamente abbiamo individualmente e collettivamente subìto in una conquista, appunto. È l’esito di un processo di vera e propria stregoneria, quello grazie al quale i dominanti sono in grado non solo di imporre ai dominati un dispositivo ideologico, ma anche di fare scomparire la rintracciabilità dell’imposizione.

Lo sradicamento e l’estrattivismo non sono vicini” solo dal punto di vista semantico e di immagine – una pianta per essere sradicata deve infatti essere estratta, e viceversa – ma anche dal punto di vista storico ed etico (o meglio di cosmovisione1). È un movimento simultaneo, così evidente nella storia della conquista coloniale, di violenza alla terra, ai corpi e alla cultura delle comunità umane, quello che ha reso possibile una scissione fondamentale tra natura e cultura, tra ecologia ed economia, tra decisori ed esecutori, tra padroni e salariati, carcerati e carcerieri e così via, in una lunga lista di opposizioni binarie che strutturano la nostra organizzazione sociale. È un processo che va in profondità e che fa sì che gli abitanti di un territorio non solo accettino che sia devastato, ma talvolta perfino cooperino all’impresa. Nella Sicilia “hub energetico del mediterraneo”, una cerchia enorme di proletari spera di lavorare con l’eolico per non dover emigrare.

Vale la pena approfondire un poco l’enormità di questo cambiamento, il passaggio da una cosmovisione nativa ad una capitalista, e capire perché dovremmo prestargli la massima attenzione.

Il regime economico capitalista esiste da quattro secoli: niente, se proiettati sull’arco lunghissimo della storia dell’umanità sul pianeta. Prima dell’estrattivismo, le popolazioni umane vivevano del, e nel, rapporto ecologico con il loro ambiente: che fossero cacciatori-raccoglitori, orticultori o contadini, sapevano (e teorizzavano) che la continuità della loro esistenza dipendeva in via diretta dalla continuità dell’esistenza di piante, animali, acque; dal passaggio fra generazioni delle conoscenze indispensabili al buon funzionamento di quel mondo; dalla cura dei luoghi sacri; dalla disponibilità degli enti non umani (spiriti, ninfe, lari, penati e via dicendo) a insegnare i modi per uscire dalle crisi, curare le malattie, sanare i dissidi.

Per qualsiasi cultura nativa contadina, poi, la terra – intesa proprio come il terriccio che accoglie i semi – è sacra: è la terra degli antenati (qui hanno vissuto, qui sono stati seppelliti); qui risiedono gli spiriti (e cosa sono i santi, nell’ambito della religione pagano/cristiana mediterranea?) che presiedono al naturale scorrere dei cicli e proteggono la comunità; dalle viscere della terra arriva l’acqua che ci disseta; sulla terra crescono le piante necessarie alla cura, quelle da mangiare, quelle sacre per i riti. Su una terra così pensata e vissuta, così inestricabilmente connessa alla vita umana e a quello che ne rende possibile la continuità, è impossibile agire alcuno sfruttamento e alcuna devastazione, perché sfruttare e devastare la terra significa, immediatamente, distruggere la comunità che su di essa vive e prospera.

Non è un caso che il processo di accumulazione primitiva cominci proprio con una – reale o metaforica – recinzione delle terre: quella dei nativi americani, che non avendo padrone legale venne definite terra nullius e aperta alla competizione dei conquistadores; quella dei contadini inglesi, estromessi dai commons che rendevano possibile la vita comunitaria in vista delle monoculture da mercato; più di recente quella dei parchi naturalistici, che in nome del turismo occidentale estromettono intere popolazioni dai luoghi della loro esistenza. Ovunque sia stato possibile agli occidentali osservare in presa diretta quel che accade quando il regime economico del plusvalore si insinua e distrugge un altro modo della sussistenza, il processo descritto è, grosso modo, sempre lo stesso2. Si comincia con drastico e unanime rifiuto della sussistenza legata al denaro, percepita come innaturale e stregonesca. Poi i conquistadores del plusvalore cominciano a esercitare violenza simbolica e materiale: diffusione di sostanze intossicanti, sistematica squalificazione dei nativi e dei loro modi, acquisto legale di terre che fino a quel momento non erano di nessuno perché erano di tutti, espropri, ricatti, deportazioni. In tutti i casi – ed è, qui, elemento cruciale – viene distrutto il rapporto delle collettività con il loro ambiente, con la loro terra; gli umani che vivono alle frontiere del capitale in espansione vengono progressivamente sradicati.

Arrivando al presente, pensiamo sia un errore trascurare questo processo, crederlo irreversibile (e cioè naturalizzarlo) per concentrarci “solo” sulla violenza oggi operata dalle macchine giganti che estraggono i materiali preziosi per il sistema tecno-industriale. Non è solo questione di sensibilità verso il vissuto nostro (quello di un “noi” che precede anche le sensibilità specifiche, inclusa quella anarchica): questa cecità ha conseguenze etico-pratiche su come affrontare la lotta, sulla forza che, per esprimere, dobbiamo innanzi tutto sentire, sulle possibilità che ci diamo o che ci precludiamo.

Inoltre, significa ignorare un paio di fatti fondamentali della nostra epoca: dall’èra Covid, sempre più persone3 (per fortuna, anche tra compagni) sentono che le piste conoscitive, di cura, di pensiero, che fino a qualche tempo fa “funzionavano”, non reggono più. È in atto la ricerca di un esodo non solo dal capitalismo, ma dalla stessa modernità, che è e sarà uno dei fattori di scontro sociale del nostro tempo e ci sembra importante coglierlo nelle sue fasi aurorali (sempre che non si decida di bollare certi fenomeni come merda, efficace trucchetto per permanere nella stasi teorica e interpretativa). Un’altra ragione ce la urla in faccia l’orrore quotidiano dell’operazione Gaza di questi ultimi mesi: la guerra coloniale di conquista non ha mai perso centralità strutturale per la tenuta dell’ordine, come sanno bene i think tank degli Stati occidentali. In Palestina, tra le tecniche della guerra psicologica permanente, alcune hanno avuto un sapore spiccatamente anti-contadino: dall’usurpazione dell’acqua e delle terre migliori da coltivare, per edificare le case con piscina dei coloni, alle aggressioni e uccisioni “rituali” durante le campagne di raccolta delle olive. Uno dei pochi momenti di incontro collettivo fuori dai centri abitati, un’occasione e un tentativo – piedi sulla terra, mani a lavoro, luce negli occhi – di autorigenerazione culturale, come quella appunto della raccolta delle olive, ciclicamente repressa in quanto tale.

Anche ora che queste forme di violenza sembrano preistoria, obliterate dall’esplicito “salto genocida”, la terra è per il 40 % danneggiata, mentre le esplosioni dei famigerati tunnel di Hamas, rivendicata dall’IDF, sta compromettendo le falde di acqua dolce con un’ampia infiltrazione di acqua salmastra4. Gli allarmi degli esperti su questi e altri disastri ecologici non hanno impensierito il governo israeliano: non si può esserne certi – e di certo una simile insinuazione complottista non può circolare nel mercato delle opinioni – ma non si può escludere che pensino di sfruttarne la realizzazione per offrire al tecnocapitalismo occidentale anche la sperimentazione in morte di progetti di geoingegneria e terraformazione che eccitano da anni alcuni padroni dell’hightech. Il sistema tecno-militare si fa davvero mondo. Liquidata la variabile umana, nemica in quanto tale, e le altre forme non artificiali di vita, il teatro dello sterminio appena concluso, laboratorio per la guerra e le nuove tecnologie del controllo globale5, può diventare subito laboratorio civile. Il miglior ambito sperimentale è d’altronde la tabula rasa, dove la vita, la sua entropia e la sua complessità, non interferiscono con lo sguardo e gli scopi della ricerca. Così, annichilimento e progetto come unica ragione di “vita” coincidono6. Tanto assassini quanto ottusi, i padroni del vapore e dei lumi non possono vedere quello che non comprendono e che più gli dissomiglia, l’umanità oppressa di Gaza che promette di resistere e restare, costi quel che costi. Viene in mente l’immagine di un bosco annientato in superficie, che mantiene e intensifica la sua vita sotterranea, pronta a insorgere anche dopo l’incendio, fino a che ci sarà primavera. Perché radicata la vita vive, sradicata secca e muore.

Analoghi racconti ci vengono dalle isole hawaiane, un arcipelago che rappresenta un esempio sfacciato di uso coloniale militare da parte del Pentagono. Anche lì, Stato ed esercito vogliono spezzare una resistenza nativa minoritaria, da un punto di vista quantitativo, ma tenace, impiantando progetti militari e di smart cities nei luoghi sacri. Una compagna “nativizzata”, di origini siculo-americane, ci raccontava di come la lotta per difendere un cimitero nativo dalla volontà di costruirvi sopra un polo tecnologico coniughi azioni dirette e spazi di conflitto con momenti rituali di fronte alle forze dell’ordine – canti e danze native, di cui non si è persa memoria – in cui vengono convocati gli spiriti degli antenati e gli altri enti del pantheon nativo. Questi, quindi, non sono soltanto oggetti culturali passivi, ma soggetti attivi nella trama ordinaria del quotidiano e nello straordinario della battaglia: chiamati dai vivi, loro rispondono. La lotta, la voglia di rivoluzione nasce, cioè, dalla volontà di difendere dall’offesa del dominio non soltanto i vivi, ma anche i morti: quale migliore realizzazione del messianismo rivoluzionario di Benjamin se non questa, collettiva, in isole sperdute nel Pacifico.

Sfabbricare il mondo, sprigionare l’immaginario

«Si pone l’importanza di collocarsi anche su questo orizzonte di scontro: cioè il sapere dire-sapere difendere (e il sapere difendere per continuare a poterlo dire), dal canto nostro, qualcosa sulla vita della specie. È un compito arduo perché deve fare i conti con un lavoro etico (uno sforzo, cioè, sia di teoria che di passione) di apertura e chiusura: chiuso abbastanza da tenere fuori i varchi che i totalitarismi – in particolare la sua forma attualmente in voga, il transumanesimo tecnocratico – potrebbero sfruttare per recuperarne senso e portata; ma aperto abbastanza da potere includere tutte le forme umane dello stare al mondo che il dominio totalitario ha schiacciato e schiaccia per affermarsi e che raccontano di altre possibilità di vita» (dal resoconto della due giorni siciliana su “Sud, civiltà contadina, apocalisse culturale e cosmovisioni, rivoluzione”).

Uscire dalla modernità tecno-capitalista”. Solo la frase dà le vertigini e le vertigini danno la misura di quanto siamo dipendenti dal sistema-mondo che vorremmo distrutto. C’è un sillogismo tragico in questa situazione: distruggendo il mondo da cui siamo dipendenti, finiremmo per distruggere noi stessi nell’impresa. Il nichilismo anarchico trae forse linfa da questo sillogismo immobilizzante. Per questo, anche per questo, siamo tra quei pochi compagni che hanno scelto il tentativo di aprire altre strade: distruggere la megamacchina sì, ma in nome di una visione di destino della specie che tenga in conto la sua (la nostra) bellezza potenziale. È qualcosa che c’era già nella sensibilità di Malatesta: ricordo un passaggio in cui, in un esercizio (inconsapevole?) di sguardo antropologico, contempla le religioni e le culture umane non vedendole, per una volta, come espressione di incatenamento e alienazione nell’autorità, ma come segno dell’enorme capacità creativa dell’umano: una fonte di meraviglia. Nell’eterno presente dell’orrore, il catastrofismo vuole convincerci, colpendoci al cuore, che “in quanto umani siamo fottuti”: dai tg alle notizie notificate dall’algoritmo, il coro mediatico spinge in questa direzione.

Già solo questo dovrebbe spingerci nella direzione opposta. Si dirà: ma come? A prima vista, infatti, l’impresa sembra impossibile: uscire da cinque secoli di strutturazione dello sguardo sugli uomini e sulle donne, sulla natura, sul corpo, sul sacro? E, più nel nostro specifico, uscire dalla tendenza degli ultimi anni a vivere l’anarchismo come se si potesse fare in un modo e in uno soltanto, bandendo la parte umbratile della coscienza, brandendo scolasticamente armi dialettiche che rimuovano il dolore della fragilità – tutte tendenze che innegabilmente si vedono all’opera tante, troppe volte?

Sì, si può.

Intanto perché nel movimento c’è anche dell’altro, un patrimonio collettivo irrinunciabile che «rappresenta al contempo un distillato teorico nell’alambicco delle esperienze storiche e un pluriverso di possibilità inesplorate (o parzialmente esplorate) di nuova vita». Senza considerare l’esempio in vita, incarnato da alcuni/e compagni/e, a non porsi limiti nelle possibilità di esplorazione e di azione. Che il momento sia proprio ora ce lo testimoniano sia le condizioni collettive che il come ci si sente nell’intimo, tanto l’analisi del sociale quanto le difficoltà che troviamo a fare sbocciare nuove progettualità: c’è uno scarto tra il contesto attuale (rapidamente mutato per iniziativa del nemico e delle catastrofi create dal sistema) e le teorie e le metodologie ereditate, da colmare. La teoria (e la pratica) dei gruppi di affinità, dei nuclei autonomi di base, la teorizzazione dell’intervento nelle lotte specifiche, avevano un sostrato storico – un movimento reale colpito dalla repressione ma ancora vivace negli anni ’80-90, un movimento specifico più giovane e numeroso di quello attuale – che rappresentavano al contempo il fondamento concettuale delle prospettive teoriche e il terreno di radicamento sociale e umano e di inveramento pratico di quelle teorie. Oggi che quel terreno non esiste più, e neanche il compagno che più ha dato un contributo in quegli anni, di Bonanno non bisogna prendere la lettera ma lo spirito. Se scegliessimo la prima ci ritroveremmo con un martello in mano per affrontare una diga che crolla. Che cosa farsene del concetto di lotta specifica nel contesto di apocalisse in cui ogni violenza subita si ricollega all’insieme delle violenze subite da tutti? Come si ridisegna il confine tra gruppo anarchico specifico e classe generale degli esclusi oggi, con una crescente parte dell’umanità su cui sempre più piovono repressione e tormenti, semplicemente in quanto umani in eccedenza? E che non ha bisogno di iniezioni di coscienza, ma di esempi umani che curino la fiducia disgregata, eredità delle sconfitte passate? E quali strumenti abbiamo in mano e nel cuore per fare leva su quei piani della coscienza collettiva che non hanno a che fare con le parole d’ordine, ma con la presenza, la cura e la coerenza nella vita/lotta?

Tutte queste domande nascono a cavallo della contraddizione che ci abita – il problema, infatti, non è non avere contraddizioni, è come renderle fertili. Come coniugare radicamento specifico, in una ecologia etnospecifica come quella dell’area della Sicilia in cui viviamo e di cui sentiamo tutti i battiti, e tensione universale alla liberazione?

A ogni contesto, come abbiamo detto in apertura, il suo: così, parlare di colonizzazione è per noi importante perché sentiamo che lì qualcosa, una possibilità di vita altra, si è spezzato7.

Eppure radicamento rimanda a qualcosa di generale, “un’esigenza dell’animo umano”, su cui qualcosa sentiamo di voler dire. Niente di più di un suggerimento di sguardo, di una manovra di sblocco.

Il movimento sovversivo e trasformativo deve senz’altro tentare di disfare il mondo del tecnocapitale. Ci sono almeno due sensi del disfare. Il primo è “facile” e chiaro: distruggere le determinazioni che, costruendo il mondo dell’illibertà, fanno di noi una cosa sua – di quel sé impersonale e malintenzionato che è il Leviatano. Il secondo è meno facile, perché presuppone la padronanza degli accorgimenti che servono a fare mondo senza che questo diventi prigione; ci vuole un’attitudine pratica a maneggiare le aporie, a deporre, quando serve, la dialettica. La libertà come pratica generativa ha più a che fare con la danza e la magia che con la tecnica. Come potrebbe essere altrimenti?

Generare con la lotta e con l’amore per la vita un mondo che resista alla disumanizzazione, chiama oggi in causa la capacità di fare valere la propria intenzione e sensibilità, senza schiacciare quelle altrui: servirà a volte la cucitura di quello che il dominio ha ridotto a brandelli e a volte lo strappo. Sarà un equilibrio di pieno e di vuoto, che reggerà le prossime esperienze rivoluzionarie, di cui le riviste non ancora esistenti esprimeranno la teoria, le aspirazioni, le (…)

La notte

Ci sono molte cose che nel corso della vita lasciamo scivolare sotto perché incompatibili con l’accordo collettivo su cosa La Realtà sia, fino a dimenticarle (ma solo in parte).

Tra le prime lezioni da imparare per passare allo statuto di “adulti”, ad esempio, c’è la capacità di uccidere il buio, di svuotarlo di presenze (in una parola, di razionalizzare la paura): le mani nere che si allungano sul letto, i volti che si affacciano dalle pareti, il suono di passi che rimbomba nelle orecchie al ritmo del cuore, sono solo ombre proiettate dai fari di un’auto che passa giù in strada (fuori).

Il mondo comincia a diventare uno e si somiglia in tutte le sue parti.

La materia oscura che impasta di sogno la veglia viene relegata al sonno e per lo più ignorata, le piante, le montagne, i corsi d’acqua, il mare, le pietre sono cose, magari da proteggere o difendere, certamente prive di voce e incapaci di agire.

Se dovessimo sintetizzare la modernità in un’immagine, salterebbe fuori (tra le altre, tutte tristi) una terra piatta, sterile, uniforme, che non costa fatica attraversare e in cui è impossibile, ad occhio nudo, notare alcuna difformità o lieve solco. Ma a ben vedere, cioè non usando gli occhi soltanto, ci sono tracce da seguire che portano lontano da un mondo così angusto; ci sono luoghi che solo distrattamente somigliano alla piana da smartphone (devastata o/e scintillante) e dove sarà più semplice notare quante maglie della rete siano larghe o spezzate e quanto “altrove” ci si trovi in mezzo.

Succede nelle città e nei paesi di caderci dentro – sicuramente con differenti gradi di facilità d’inciampo – a nord come a sud (concetti i cui contorni vanno ragionati con attenzione per evitare di prendere parte, ancora una volta, al processo di annullamento delle specificità che tanto contribuisce a tenere in piedi lo stato di cose che conosciamo; basterà dire, nell’ambito di questo breve testo, che la bussola segna sempre il nord qualunque sia il punto che si occupa sulla mappa, quindi, che ci sono nord e sud al plurale e spesso l’uno dentro l’altro, come esistono Sicilie e radicamenti), e tanto dipenderà dal punto di vista che – un po’ scegliendolo, un po’ no – assumeremo.

Quello che noi, un po’ scegliendolo e un po’ no, assumiamo è il punto di vista di chi in un posto ci è nato e cresciuto; lo ha lasciato e ci è tornato. È quindi indigeno e abitante “prima” di tutto quello che viene dopo: l’anarchia, la ricerca, il rifiuto, la sovversione, la lotta che tanto quanto il “prima” è il risultato di una danza gioiosa, dolorosa, accidentata tra scelta (meno di quanto pensiamo e vogliamo, per quanto difficile da accettare non è egualmente distribuita) e quella cosa che chiamiamo caso (che per alcuni umani, noi compresi, ha un’intenzione) e si manifesta – anche – attraverso gli Incontri.

Del magico

Per trattare di una materia tanto suscettibile ricorreremo al racconto; ci sembra il modo migliore per dirne qualcosa evitando analisi che non ci competono e, forse, sottrarrebbero valore, legittimità e potenza a quello che è, a nostro modo di vedere e per l’esperienza umile che ne abbiamo, un particolare modo di relazionarsi alla vita, nel suo lato visibile e invisibile, e di interagirvi, con la consapevolezza taciuta del fatto che il suo senso ci rimane per lo più oscuro.

Meglio, perciò, avere compagnia sui sentieri impervi come in quelli apparentemente semplici e conosciuti: perché è tutto molto più affollato di quello che vediamo, ma pure più vicino di quanto siamo abituati a percepirlo.

Come un corpo che lascia un’impronta dove si posa, la magia “piccola” non rompe la trama dell’ognigiorno, ma lo segna di un momento che si allarga, si estende e scorre accanto, sotto e in mezzo all’altro tempo, agendo la sua medicina fatta di gesti, parole, oggetti, piante, di riti compiuti con una solennità nuda di paramenti. Si usa con attenzione ma non si risparmia; insegna il linguaggio del dono, del saper dare e ricevere, il rispetto per ciò che non possiamo comprendere.

Questo magico avvicina il sacro, lo incorpora nel vissuto e nel vivere quotidiani; ed è un atto di volontà umana che media con ciò che umano non è. Prende corpo: gli spiriti che, per ragioni storiche, qui abitano i Santi, sono esseri in carne e ossa con i quali parlare e contrattare, ai quali fare richieste, ma che anche ne fanno a loro volta. Questo tratto di mondo che è stato proprio della civiltà contadina e che nonostante la Storia continua a resistere, ci arriva in eredità insieme al resto, alle cose di cui liberarci dopo averne capito e “disattivato” l’origine (il servilismo, la rassegnazione, la diffidenza, tutte conseguenze della distruzione violenta e metodica di un mondo che funzionava a misura umana, rotondo, in un certo equilibrio) e sappiamo di doverlo accogliere, reintegrare nelle nostre vite di individui e collettivi umani che sanno e vogliono essere Altro; senza il sacro, senza un rapporto costruito, mediato con gli enti non umani, senza la capacità di lavorare ciò che la mente da sola non può, rimarremmo incastrati, riproducendola, nella cosmovisione moderna euroantropocentrica e zoppi nel percorrere le molte vie della liberazione.

I corpi in comune

unn’è lu chiantu ca cancia lu distinu

unn’è lu scantu ca ferma lu camminu.

Grapu li pugna, cuntu li jita

restu cu sugnu, cercu la vita.

Per raggiungere la casa si sale. La via è ripida, di pietre scure e lisce; ci sono cortiletti che danno sui campi, orti e piante che affollano i lati della strada e i balconi. È più abitato di tanti paesi dell’interno questa contrada, e non te lo aspetti. C’è rumore di vita, odore di cucina, di legna che brucia. In cima alla salita, lunghissima, la strada finisce, la campagna continua.

La signora Nina sta seduta vicino alla finestra, è vecchia d’età, salda nella Presenza che conserva intatte le tracce di una vita odorosa di terra e lavoro.

Tutt’intorno (e l’intorno pare una sua diretta emanazione) altari: alle cose di una vita, ai morti, ai santi che fanno loro compagnia. Ogni foto sul comò ha un lumicino acceso – non si lasciano da soli i morti, lei vigila su tutto. Prega, fa lavori a maglia, bada ancora alla casa, alle piante, alla tartaruga, sopportando il dolore alle gambe, “cerma”8: ragazze le portano i piccoli che non riescono a dormire, o che piangono senza motivo apparente, uomini e donne – conosciuti e sconosciuti – le fanno visita per liberarsi di un peso sullo stomaco, di un mal di testa insistente; vanno da lei come si va dal dottore con la differenza che lei ti accoglie in casa propria, ti cura, ti offre i biscotti e un bicchierino di qualcosa e non prende denaro.

Con la differenza che lei non ha studiato, ha ricevuto “i poteri” da una vicina, e la cosa non ha alterato niente della sua vita di contadina: contadina era e rimase anche dopo.

Dalla terra e sulla terra le hanno passato il dono e quella continua a nutrirlo; ma la terra diverrebbe deserto senza la pioggia, perciò anche al cielo va data la sua parte.

Appesa alla parete, vicino alle foto del marito morto, un’immagine di lei da giovane: è bella, è identica e altrettanto potente, sguardo di spada e di canto, piantata, in fiore.

Entrare in questa casa è andare altrove. A piedi.

Lì dentro con la Signora Nina, ci sono i vivi, i morti, i Santi, gli animali che ha curato, tutti gli orti e i giardini che ha coltivato, le olive che ha raccolto, i mali che ha alleviato, i chilometri percorsi per raggiungere i campi, il figlio e le figlie, i loro figli, tu che le siedi davanti – lei ha memoria di tutto, sorride con la freschezza di un’adolescente, senti che avete qualcosa in comune, qualcosa che già ti è capitato; lo hai incontrato negli occhi d’a Zì Pippina che ti recitava l’orazione per fermare la pioggia, dello zio Franco che combatteva le tempeste armato di pugnale, della signora Pepe che “cermava” al tramonto, solo di venerdì, di Zia Lilla e zia Maria che mangiavano rose a maggio, d’o Zì Jachinu, che ti regala fiori e ti abbraccia in pieno Covid (perché tanto, prima o poi, bisognerà morire e meglio arrivarci abbracciandosi). I giardini-orto sono la traduzione in fiori, ortaggi, geometrie di alberi e cielo e solchi in cui scorre acqua, di questi umani; sono l’immagine di un mondo che accompagnava la fatica con i canti e la interrompeva con le feste.

Ma sarebbe un errore credere che sia nostalgia il sentimento che ci muove e che arma le nostre parole; ci interroghiamo e interroghiamo questo passato che ci sopravvive, per capire. Chi siamo, dove siamo, cosa manca. Per rimettere insieme i pezzi, quali.

E somigliarci di più.

Alla memoria e alla memoria dei corpi che raccontano a nostra insaputa le loro storie (in comune).

SteConFra

1Per approfondire questi temi, v. Stefania Consigliere, Antropo-logiche, Colibrì, Padeno Dignano (MI), 2014.

2 V. ad esempio Karl Polanyi (1944), La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974 e Michael Taussig (1980), Il diavolo e il feticismo della merce, DeriveApprodi, Roma, 2016.

3 Questo fenomeno emerge chiaramente nella ricerca etnografica che Stefano Boni ha fatto su diverse reti di attivisti no-green pass, che ha portato alla pubblicazione del libro Tornare in sé. Per una ripresa della coscienza sociale e della resistenza attiva, Nautilus, Torino, 2023.

4 «Anche se ai sopravvissuti sarà concesso di tornare alle loro case, l’esercito israeliano sembra intenzionato ad assicurarsi che quello che rimane della Striscia di Gaza sarà insufficiente a sostenerli. Parte di questa guerra, inoltre, è un progetto di annientamento agricolo. Non è né nuovo né senza precedenti. Il colonialismo di insediamento d’Israele ha a lungo distrutto mezzi di sussistenza, terre, e ecologie, creando relazioni di dipendenza che facilitano conseguenti e ulteriori processi di spossessamento» (tratto da peasantjournal.org/new/agraraian-annihilation).

5 terraeliberta.noblogs.org/post/2024/01/08/dal-fronte-umano-iii-un-test-chiamato-gaza/

6 «Il ruolo che le guerre hanno giocato nel corso della storia moderna, nell’accelerare la fusione dell’economia e dello Stato, è ben conosciuto. Ed è giustamente una guerra che si deve dichiarare, per vincere la natura compromessa delle operazioni della ragione economica e sostituirla con un mondo integralmente prodotto, meglio adattato alla vita nell’alienazione», in R. Riesel, J. Semprun, Catastrofismo. Amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile, Ortica.

7 Per i curiosi, gli scritti nostri raccolti nel blog sciroccomadonie.noblogs.org, sono tappe del viaggio ancora in corso, carte provvisorie della nostra ricerca di orizzonti di liberazione né più né meno importanti di quello che altri stanno facendo.

8 «In Sicilia sono essenzialmente due i tipi di guaritori tradizionali: i cermavermi e i maari o magari. Una cermavermi (sono le donne a svolgere prevalentemente questa attività) si autorappresenta e viene comunemente rappresentata come un medico empirico, escludendo sia nella formazione che nel suo esercizio ogni rapporto con gli esseri, anime irrequiete che vagano per l’aere, in genere appartenute a persone morte anzitempo. Tali entità hanno invece un ruolo fondamentale nella formazione e nell’operato dei maari. Se mai un tale rapporto si configura anche per una cermavermi, assume la forma debole di protezione, guida, ispirazione, da parte di un santo o di altra entità spirituale connotata in maniera benefica, con raggio di interventi molto circoscritto» (E. Guggino, Il corpo è fatto di sillabe, Sellerio, Palermo).

Andare, tornare: scomodo e inestirpabile è il luogo che ti conosce

Ma tu furastiero, tu forse nun saje

comm’ è attaccata ‘sta gente a’ campagna

e si tenesse ‘nu piezzo e turreno,

e cu’ chistu turreno putesse campa’,

statte tranquillo, restasse là,

restasse ‘n campagna, felice ‘e campa’.

Franco Del Prete – Napoli Centrale,

Viecchie, mugliere, muorte e criaturi, 1975

I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori.

Karl Marx – Friedrich Engels

Manifesto del partito comunista, 1848.

Qualche mese fa ho avuto il piacere di ricevere Radici al vento, un articolo poi pubblicato sul n. 15 della rivista I giorni e le notti, che affronta con una prospettiva originale e concreta – di quella concretezza che risulta dalle scelte di vita – argomenti essenziali e scomodi, che provano a uscire dalla ritualità dei finti confronti in ambito libertario e a mettere al centro della propria attenzione il dove stiamo andando e dove vorremmo andare. Uno scritto immerso nella consapevolezza che questi non sono i tempi della fretta, perché essenziale non significa urgente, e abbiamo bisogno di muoverci con passo cauto – non incerto – su tracce conosciute eppure cambiate nel tempo.

Chissà, magari a essere cambiate [1] siamo noi.

Andare, tornare: scomodo e inestirpabile è il luogo che ti conosce. Penso di poter dire che gli estensori dello scritto fanno parte di chi ritiene che, in un mondo dove non vi è centro, ogni luogo sia adatto a metter mano all’esistente, e al futuro.

Negli stessi giorni stavo rileggendo Di sconfitta in sconfitta, scritto in carcere da Vincenzo Guagliardo, ex-brigatista passato attraverso un meditato itinerario che l’ha portato dagli schemi lottarmatisti (era nel gruppo responsabile della più impopolare uccisione della storia della lotta armata, quella del sindacalista comunista Rossa) a un’intransigente nonviolenza anticarceraria laica. A parte il lato sottilmente comico che avevo dimenticato – come il 98% degli ex comunisti anche Guagliardo conserva una malcelata idiosincrasia verso gli anarchici, colpevoli di aver capito nell’ottocento che determinate metodologie portano necessariamente al dispotismo – mi stavo concentrando sulle intricate riflessioni riguardo il rito sociale basato sul capro espiatorio, e sulle posizioni eterodosse di alcuni esponenti del cristianesimo medioevale. In questo contesto l’autore cita la famosa frase di Ugo di San Vittore – perfetto è quello per cui l’intero mondo è un paese straniero [2] – che mi ha sempre lasciato perplesso. Probabilmente perché devo il mio corredo genetico (e culturale) a persone che hanno adottato in merito scelte diametralmente opposte – uno che poteva e voleva partire, ma poi restò, e una che ha optato per una vita da straniera assoluta – quel concetto di perfezione non mi ha mai convinto del tutto. Si può mettere assieme nostra patria è il mondo intero con l’amore per la propria terra? E Radici al vento è arrivato in contemporanea con l’ennesima riproposizione di questo interrogativo.

Le terrone emigravano, le terrone emigrano. Per motivi diversi, per sperare di migliorare la propria vita, per sfuggire alla miseria, per scappare da luoghi che si percepiscono privi di risorse. Nel momento in cui scrivo le strade di Bologna sono piene di ventenni dall’accento calabrese, siciliano, campano, pugliese, lucano, ragazzi che non sono scappati dalla miseria né dalla fame. Qualcuna vuole un posto dove può lavorare e studiare al tempo stesso, altri cercano il paese dei balocchi (alcol e sostanze, casualmente sesso, ormai pressoché in disuso), altre credono che, rispetto al paese, lì ci sia di più, occasioni, magari una carriera.

Giovani con due genitori nati a Bologna sono in via di estinzione, come un tempo a Torino e Milano. Le settentrionali sono trent’anni che hanno smesso di fare figli. Dopo le meridionali si passa agli stranieri. I terroni fanno l’università e poi riempiono le scuole dove insegnano a leggere, scrivere e a far di conto ai figli delle terrone (sempre meno), ai rumeni, cinesi, albanesi, nigeriani, bengalesi (sempre più).

Tutte vanno, vengono, scappano, si innamorano, si sposano, si lasciano, pensano di ritornare – la mamma si sta facendo vecchiarella – o sostengono fermamente che non torneranno mai più. A volte fanno figlie che sono straniere ai loro stessi genitori, forestieri a se stessi. Sradicate che non sanno quale è la loro casa, che albero sono, e non sapendolo si andranno a trapiantare in grigie e tristi città europee, lì dove non si capisce perché la gente ride.

Puoi provare a escogitare qualche modo di difendere l’identità di un luogo se nessun luogo è casa tua?

La risposta che sembrano dare le autrici è – soggettivamente – plausibile. Recarsi da zù Jachinu e dalla signora Nina che non aderiranno né all’anarchismo classico né a quello contemporaneo, ma capaci per disposizione umana di entrare in un gioco relazionale aperto e poco definito con le idee di libertà. Un azzardo ostico, ma, per SteConFra, quello sul quale investire, in una civiltà che va verso forme di autofagocitazione sempre nuove e sempre vecchie, ma di potenza inusitata. Le giacche blu massacravano gli indiani e li riempivano di alcol. Nel giugno del 2024 è arrivata una notizia da una tribù amazzonica: l’agente del complesso militare-industriale-politico americano Musk gli ha fatto arrivare internet e dopo nove mesi stanno tutti davanti allo smartphone, non fanno altro. Aspettano l’estinzione guardando siti porno.

Il solo fatto di rivendicare, come fanno le autrici di Radici al vento, un mondo che tutti stigmatizzano in quanto obsoleto, e rimarcare le fratture che invoca, crepe inarrestabili che partono dentro di noi e si moltiplicano e si espandono nel corpo sociale, mi incoraggia. Mi piace che gente più giovane di me provi in questo senso, che tenti di uscire dagli schemi rivendicativi, antagonisti, ideologici. Un modo saporito di riconquistarsi la vita e il mondo, di tentare. Ma se fosse tutto qui vi inviterei solo caldamente a leggere il testo.

E invece, qualcosa è in agguato.

Nouvelle cuisine à la sicilienne – ‘o purp’ cu’ ‘a nutella

Sulla banchisa, in riva al mare,

c’era una volta un’orsa bipolare;

sapendo che il polpo è cibo prelibato

volle migliorarlo: con il cioccolato.

Quando, alla fine degli anni ’90, mi trovavo per lavoro nella Polonia post-comunista che si dedicava alacremente, con una spiccata verve antisovietica, alla trasformazione delle proprie forme di governo, produttive e militari, contattai sporadicamente alcuni anarchici della capitale che mi raccontavano dei loro episodici incontri con il movimento italiano e a un certo punto mi nominarono Ya Basta. Chiesi loro come facevano a conciliare il loro evidentissimo anticomunismo con le nipotine del marxismo-leninismo in salsa negriana, e la risposta mi lasciò stupito: «Loro si definiscono anarchici». Io sapevo benissimo che tutto quel contesto in realtà odiava le anarchiche quasi al di sopra di qualunque altra cosa, ma la loro affermazione rispondeva alla perfezione alle tattiche proprie della politica mimetica della quale Ul’janov fu massimo rappresentante. È una storia che non avrà mai fine: libertarie in fase movimentista, disciplinari quando si conquista l’apparato intero, o un suo pezzo, o anche un pezzettino microscopico di quello.

Tutto si può dire del socialismo autoritario di variante marxista (ce ne sono altri, già la rivoluzione di Blanqui era segnatamente avanguardista e tutta rivolta alla conquista del potere) ma non che non sia stato un prodotto ideologico-pratico di enorme successo. Appagando le aspettative umane di grandi organizzazioni ben strutturate alle quali aderire e di previsioni deterministe che garantivano “rigore scientifico” e indicavano la strada della dittatura del proletariato come ineluttabile, le militanti marxiste riuscirono a convincere centinaia di milioni di persone che il destino dell’umanità si indirizzasse proprio lì, senza dubbi né incertezze di sorta. Uno degli effetti collaterali, di irrilevanza pressoché totale per la storia della nostra civiltà ma di un certo interesse per chi si occupa di movimenti libertari, è il fatto che ben presto quelli che erano stati i più feroci critici della teoria e delle pratiche marx-engelsiane, sedicenti eredi di Bakunin, cominciarono a parlare e scrivere seguendo gli schemi del materialismo storico. E man mano che folte popolazioni s’andavano a trovare sotto il governo di regimi socialisti, diretti di solito da partiti comunisti, si invidiavano quei trionfi e si pensava fosse necessario prendere ciò che c’era di buono in quell’apparato ideologico-organizzativo che si stava dimostrando così adatto alle esigenze delle masse in rivolta. «Non puoi prescindere dall’analisi marxista» – era la formula di rito, non solo per gli m-l, ma per quasi tutto il movimento che si pensava rivoluzionario. E qui la struttura economica, e lì la storia come storia del conflitto tra le classi, e la falsa coscienza, e la caduta prepuziale del saggio di profitto, e la sussunzione nell’alto dei cieli del sacro capitale. Ne nacque uno sgorbio, ovvero la convinzione che l’anarchismo fosse una specie di marxismo senza la dittatura del proletariato. Un marxismo un po’ più simpatico e riguardoso delle libertà dei popoli. Tanto passò questa bizzarra idea che a un certo punto una serie di marxisti ortodossi, capitanati da un docente padovano, si infilarono in quella soffice nicchietta di marxismo libertario per adeguarsi ai tempi che incalzavano, beninteso senza uscire dalla chiesa del profeta di Treviri. Quel raccapricciante ircocervo mai più defunse e ancora oggi, certo sovraffaticato dagli eventi, costretto a continui equilibrismi e salti mortali dall’utilizzo di un armamentario limpidamente autoritario come strumento per la liberazione umana, si aggira lugubre con l’acrimonia tipica del figlio di un dio minore, che non si rassegna al fatto che quell’oracolo visionario sia decaduto al rango di un qualsiasi filosofetto ottocentesco.

Si sentì uno sparo. Johnny fece una piroletta e stramortì per terra.

Inedito romanzo western di un anonimo del XX secolo

Qui siamo di fronte a un caso molto più complicato. Lo scritto di SteConFra non è il proposito di consegnare al signor Procuste il proprio anelito libertario, quanto un tentativo che mette assieme la poesia dell’esperienza del complesso incontro (re-incontro) con le proprie radici e le geometrie para-accademiche del materialismo storico. Certo le più raffinate pietanze vengono dall’unione di componenti che mai si sarebbero incontrati senza la smania onnivora delle sapiens: tutte sappiamo che un mondo senza sposalizio tra melanzane asiatiche e pomodori nuovomondisti sarebbe assai più triste di quanto già non sia, e mai si può escludere che il mescolare ingredienti disparati origini uno squisito piatto di Nouvelle cuisine à la sicilienne. Oppure, è come tentare di produrre una nuova leccornia mettendo insieme il polpo con la nutella, entrando così nel campo dell’altamente improbabile.

Si è capito, ci troviamo in questo secondo caso, e da uomo di mare nonché conclamato saccarofobo, assocerò ‘o purp’ con il rustico canto del radicamento libertario e la nutella con le pirolette del cowboy marxista che stramortisce al suolo.

O purpo è il radicamento e il ritorno. Le autrici hanno vissuto l’emigrazione non per necessità ma per scelta, per la forza e l’emozione dell’affinità con preziose compagne di strada, eppure a un certo punto si sono trovati a fare i conti con la poca aderenza che una sincera intenzione e accordi più o meno chiari avevano con il progetto e con le pulsioni vitali. Insomma, i patti e le idee discusse a tavolino non hanno mai fatto e non fanno né la libertà né tantomeno la felicità. C’è altro, e va scoperto, cercato, un percorso che dura una vita – se ci interessa – magari partendo da un posto, ritrovandolo, se è il caso.

È un buon materiale con il quale possiamo operare, e in fondo non è che ci sia molto altro. Poi, certo, se ci si vuole affidare alle grandi organizzazioni sognando la Cnt del ’36 oppure alla propaganda del fatto, chi sarei mai io per dire che una si sbaglia: a me paiono scelte inattuali ma ognuno resti della sua opinione. Per nulla inattuali sono invece le acrobazie alle quali ci si costringe per giustificare l’indifendibile fiducia, o fede, nei dogmi marxisti e nella possibilità di aggiornarli e attualizzarli – una muffa di basso profilo, ma onnipresente. Un tic insopprimibile che esalta con procedura automatica il bisogno di legittimazione da parte dell’accademia e degli intellettuali organici o inorganici che siano: se parlo marxistese, se omaggio gli opportuni assiomi, l’accademia e i suoi figli spuri mi terranno in considerazione, altrimenti i miei interventi saranno ritenuti favole naïf e nessuno mi riterrà un titolato analista sociale. Una tragedia.

Quindi posso sì introdurre alla lettrice zù Jachinu e la morte, la signora Nina e la magia, ma se non ci metto sopra la glassa germanica mi sentirò marginalizzato nel folklore. E quindi, a un certo punto arrivano le prime schermaglie, così tenui da parere inoffensive: arrivano “i proletari”. Quando dico che preferisco evitare questo termine, che tutti usammo, invero con grande moderazione, in decenni passati, so di suscitare il sordo risentimento dei militanti; soprattutto perché che la loro solita arma, cioè inveire – «È perché sei un piccolobborghese!» – con me non attacca, provenendo da una famiglia rigorosamente proletaria, di lavoratori e non di possidenti, dove il bene voluttuario era un concetto assai articolato a desiderarsi.

Quindi ve lo dico con cognizione di causa: ai proletari, come continuate a chiamarli, la parola non dice nulla. In genere non la conoscono, e se la conoscono gli fa schifo.

Signor Courbet, qual è l’origine del mondo?

Ognuno ha la sua idea, Gustave Courbet aveva la sua, forse un po’ perentoria, ma apprezzabile. Ai taoisti piace l’Uovo cosmico, ai mediorientali lo sapete già. A me piace Mbombo, il gigante bianco che vomitò il sole e tutto il resto, quindi aderirei al partito dei Kuba, se aderissi a partiti. Per i marxisti, incluse le nostre amiche anarco-marxiste, l’origine sta nel fascinoso e tremendissimo motore universale: il Capitale. Questa scelta, se di scelta si tratta quando parliamo di fede, pone un problema spinoso. Che non è affatto la constatazione di come si tratti di un’entità con lati spietati e quasi malvagi. Con questo aspetto la religiosità monoteista ha esperienza millenaria e il todopoderoso veterotestamentario, contrariamente a quel mollaccione papà del capellone, appena facevi una mossa sbagliata ti inceneriva; oppure, se sbagliavi devozione, mandava qualcuno a colarti oro fuso in gola. Roba così. Il Capitale è praticamente uguale, forza creatrice e distruttrice, spietata e ineffabile. Ma non è agevole porre al vertice della cosmogonia un’entità così recente, praticamente neonata.

Ricordo l’esperienza straniante di quando, in gioventù, cercavo di discutere con i marxisti del concetto di Stato. Provavo ad articolare (con la modesta documentazione di cui disponevo al tempo, una specie di ricostruzione a tentoni) osservazioni su natura umana e strutture gerarchiche e dall’altra parte mi rimbalzava invariabilmente una pappagallata che cominciava con: «Perché la nascita dello Stato-nazione…». E io a dire ogni volta che volevo parlare di transizione dalle società egualitarie a forme statali, passaggio che veniva assai prima del cosiddetto Stato-nazione, e che quello di cui avrei voluto disputare era la possibilità che le sapiens facessero a meno di comando e istituzioni, non di Stato-nazione. Mi ci volle del tempo per capire che tutte loro non stavano argomentando, bensì ripetendo una formula liturgica senza la quale si sarebbero ritrovati senza punti di riferimento.

Può sembrare bislacco, ma gli anarchici non ne erano affatto esenti, ritengo a causa dello storico complesso del perdente, che i marxisti non avevano, viste le tante rivoluzioni “vinte”. Gli anarchici invece quella volta che la facevano subito la “perdevano”. Invece di indurre una meditazione sui concetti di vittoria e sconfitta, ciò inoltrava verso il solito dilemma arcinovista, che alla fine ti convince che il comunismo funziona meglio (che poi ad Aršinov non portò tanto bene: se fosse rimasto anarchico e, soprattutto, fuori portata della Čeka, certo campava qualche altro anno). Quindi, per tornare alle nostre scrittrici, mentre stanno parlando di ritorno e sradicamento, prima buttano lì, con discrezione, un “proletari”, innocuo. Certo, io le vorrei vedere le nostre amiche mentre si rivolgono così ai lavoratori autoctoni o migranti approdati sulle coste sicule («Proletario! – Su, scendi dal barcone e dai inizio alla lotta di classe, tuo compito storico!») – spero che facciano un filmato quando si decideranno, perché voglio tanto vederlo.

Ancora due righe e l’attacco si fa esplicito, il primo colpo di mortaio: improvvisamente al centro della scena spunta il passaggio da una cosmovisione nativa a una capitalista. Quindi non ci interessa la visione degli erectus (giusto, altra gente, chissà cosa mai pensavano), né dei neanderthaliani, con i quali le cose già si fanno più ramificate, ma neppure dei Cro-Magnon, che erano praticamente uguali a noi. Soprattutto non consideriamo il passaggio che molte antropologhe ritengono cruciale tra sistema di vita paleolitico e quello neolitico. Quando parlano di cosmovisione nativa, di cosa parlano i nostri autori? Di quella dei !Kung, di quella degli aztechi, dei greci o dei tizi di Ust’-Ishim che 45000 anni fa avevano il fegato di vivere senza riscaldamento in Siberia? Questa gente aveva la stessa cosmovisione degli africani? Uguale a quella delle mie bisnonne contadine? O forse stiamo appiattendo cose diversissime tra loro? Pare di sì, ma è chiaro che se non lo facciamo quella presunta entità suprema perde tutta la sua rilevanza. Potrebbe darsi che dall’arrivo delle sapiens siano comparse e scomparse migliaia di cosmovisioni diverse, tutte a modo loro “native” e tutte a loro modo sterminatrici di quelle delle popolazioni che le avevano precedute.

Sono già in seria difficoltà, ma inaspettato, altre due righe sotto, arriva l’uppercut finale, quello che mi mette al tappeto.

Il regime economico capitalista esiste da cinque secoli: niente, se proiettati sull’arco lunghissimo della storia dell’umanità sul pianeta. Prima dell’estrattivismo, le popolazioni umane vivevano del, e nel, rapporto ecologico con il loro ambiente…

Nel leggere, prima di svenire, resto a bocca aperta. Il regime economico capitalista? Ora sì che si potrà parlare con competenza della signora Nina e dei suoi santi e delle foto sul comodino, senza che a nessuno venga il dubbio che gli autori ignorino il Sacro verbo. Il piccolo difetto della liturgia è che induce a un’affermazione che non è solo ideologia pura, è proprio un falso storico. L’idea che la rapina sistematizzata ai danni di altre popolazioni da parte di società ben strutturate secondo un’aggressiva organizzazione politico-militare gerarchica sia venuta fuori con il capitalismo è come asserire che la razza dei topi è nata con Mickey Mouse. Eppure siamo a un passo da Siracusa che contò, dicono, fino a un milione di abitanti. E come avrebbe potuto vivere, cosa mai avrebbe potuto mangiare, di cosa vestirsi, per tacere di ozî e lussi, tutta questa gente senza depredare altra gente? E il capitalismo – ammesso che questo golem davvero esista – cosa avrebbe a che fare con tutto ciò? Ur, Anurādhapura o l’efferata Caput mundi, le metropoli dell’antichità, millenni prima dell’industrializzazione (quella sì che esiste) si muovevano, presumiamo, secondo lo stesso principio: ammassarsi per razziare, razziare per poter vivere ammassati. La parola estrattivismo d’incanto si svuota e il capitalismo estrattivista diviene sinonimo delle convergenze parallele o del ciuccio che vola, se preferite.

Uno che qualcosa ne sapeva, visto che nei mondi non-industrializzati ci passò tutta la vita, raccontava qualcosa che invece di quelle fatuità tipo accumulazione originaria, spiega in quale modo la struttura avesse intrinsecamente necessità di prendere (rubare? prelevare?), conservare, distribuire:

Or sappiate ancora per verità che ’l Grande Sire manda messaggi per tutte sue province per sapere di suoi uomini, s’egli ànno danno di loro biade, o per difalta di tempo o di grilli, o per altra pistolenza. E s’egli truova che alcuna sua gente abbia questo danaggio, egli no gli fa tòrre trebuto ch’egli debbono dare, ma falli donare di sua biada, acciò ch’abbiano che seminare e che mangiare. E questo è grande fatto d’un signore a farlo. [3]

e oltre

Or vi conterò come ’l Grande Signore fa carità a li poveri che stanno in Canbalu. A tutte le famiglie povere de la città, che sono in famiglia 6 o 8, o piú o meno, che no ànno che mangiare, egli li fa dare grano e altra biada; e questo fa fare a grandissima quantità di famiglie. Ancor non è vietato lo pane del Signore a niuno che voglia andare per esso; e sappiate che ve ne va ogne die piú di 30.000; e questo fa fare tutto l’anno. E questo è grande bontà di signori, e per questo è adorato come idio dal popolo.

Accumulare per mantenere e consolidare la struttura sociale, alti tassi di densità demografica resi possibili dalla gestione militare delle risorse. Ma, visto che siamo in epoca pre-capitalista secondo le autrici ci doveva essere, sotto il governo del Kublai Khan, un rapporto ecologico con l’ambiente, ed evidentemente nessuno sradicamento. Certo sarebbe stato interessante conoscere il parere delle 20.000 femmine che fallano per danari che popolavano i quartieri periferici di Khanbaliq (approssimativamente: Pechino). Magari erano adolescenti di famiglia contadina costrette/indotte a prostituirsi nella metropoli? Questo il nostro veneziano – narratore sintetico – non lo racconta così esplicitamente, ma se si ha voglia di leggere come veniva formato il suo harem (questo lo scrive) forse qualche idea ce la si può fare.

Esodo dalla modernità?

La proposta dei nostri autori è esplicita, cominciare a edificare, senza disgiungere teoria e pratica, dei tentativi di tirarsi fuori dalla rassegnazione, dal mito dell’inevitabilità della tecnologia a sviluppo infinito destinata a regolare automaticamente, al di sopra e indipendentemente dalle forme sociali, le necessità, i limiti e i conflitti umani. Lo chiamano esodo dalla modernità, che non è evidentemente primitivismo, né intende il patetico progetto di riavvolgere il filo dipanato della storia. Peccato si siano messi come zavorra i triti concetti (che non sono solo vocabolario) dell’ideologia più aggressivamente progressista che il XIX secolo abbia partorito e debbano infarcire la perspicace poesia del mondo in cui hanno deciso di immergersi e al tempo stesso di creare, di detriti quali il regime economico del plusvalore o le frontiere del capitale in espansione che le rivela ancora in seria difficoltà a liberarsi della quarta religione monoteista di cui il Medio oriente graziosamente ci fece omaggio dopo ebraismo, cristianesimo e islamismo. Certo, a chi ritiene che le parole possano essere usate in maniera elastica (che è vero, sempre, ma non sempre è un bene) e che non ci si dovrebbe troppo accanire sulle forme di un discorso, bensì sugli intenti, sulle radici e sulle foglie, questo sproloquio sarà parso inutile e noioso. Ma l’argomentare, l’immaginarsi il mondo, o prevederlo, o paventarlo, o auspicarlo attraverso l’accostarsi di vocaboli, non può essere qualcosa di separato, di estraneo al nostro quotidiano. E anche se non credo che sia necessario prima fare chiarezza e poi cambiare il mondo, penso anche che, visto che il cammino da fare è assai lungo, sarà meglio farlo con le zampette libere e senza le pastoie di un passato che ha già sufficientemente dimostrato dove portassero le sue strade.

Giuseppe Aiello, agosto 2024

[1] Femminile e maschile vengono qui usati seguendo un rigoroso protocollo AMC (ad mentula canis).

[2] Delicatus ille est adhuc cui patria dulcis est; fortis autem iam, cui omne solum patria est; perfectus vero, cui mundus totus exsilium est; ovvero: L’uomo che considera dolce la propria patria [ma Guagliardo qui traduce invece: luogo natale] è ancora un tenero principiante; colui per il quale ogni territorio è come il proprio suolo natio è già più forte; ma perfetto è colui per il quale l’intero mondo è come una terra straniera. Ugo di San Vittore, 1128 ca., Didascalicon, III, 19.

[3] Marco Polo e Rustichello da Pisa, Il Milione, 1298 ca.