Università, ovvero la cruna dell’ago della produzione del Reale
Riceviamo da un collettivo universitario e diffondiamo questo testo che riflette sulle mobilitazioni universitarie in solidarietà con la Palestina e giunge alle stesse conclusioni di un contributo che arrivava dai campus americani questa primavera: non c’è modo di porre fine al mondo-guerra senza porre fine anche all’istituzione-Università.
Università, ovvero la cruna dell’ago della produzione del Reale
Il Reale non è un dato di fatto oggettivo, intoccabile e immutabile, ma è la sintesi puntuale e specifica di un insieme di forze, tensioni ed energie che tendono all’unificazione della realtà sotto un Reale dominante, visto come dato indiscutibile ed incontrovertibile. Il Reale in quanto “dato unificante” è perciò il risultato dell’unificazione della realtà sotto un unico mondo; questo mondo unito e dominante, per darsi effettivamente, ha bisogno di un meccanismo di produzione. Per nostra fortuna, questo meccanismo di produzione subisce forti scosse e fratture, che sta a noi intercettare, abitare ed allargare.
Dopo il 7 ottobre 2023, una vasta e diffusa mobilitazione per la causa palestinese ha preso forma con diverse espressioni. Pensiamo che per andare avanti sia necessario concentrarci sugli obiettivi prodotti da questa mobilitazione. Se si vuole proseguire in maniera coerente, è giusto fermarsi e guardarsi indietro, percepire cosa questo momento storico sta producendo, che fratture si stanno aprendo e quali invece si chiudono inesorabilmente, per capire dove concentrare le proprie attenzioni ed energie.
Un breve esempio: questa mobilitazione ha avuto la capacità di far emergere dei bersagli fondamentali per inceppare la macchina di guerra che permette il genocidio in corso e la diffusione della guerra, ovvero i siti di produzione bellica nei nostri territori e la logistica che permette alle armi di circolare, producendo così diverse forme di contestazione, dalle azioni dirette, ai blocchi di porti e stazioni, a cortei contro fabbriche di morte. Queste contestazioni nascono da questo momento di solidarietà al popolo palestinese, e devono essere tenute vive per alimentare una diffusa indisponibilità alla guerra. In breve, gli obiettivi nascono da dentro il momento, indicando i campi di battaglia più fertili su cui impegnarsi.
Anche sul piano della mobilitazione universitaria secondo noi il ragionamento da sperimentare è lo stesso: è il momento di contestazione che produce gli obiettivi su cui concentrarsi, e non qualcosa di esterno ad esso. Pensiamo che tutte le ricerche, le discussioni, gli approfondimenti nati all’interno di questa mobilitazione sul rapporto Università-Guerra abbiano avuto il merito di inceppare un meccanismo di produzione della realtà per quanto concerne l’Università e il suo ruolo sociale. Questo implica un lavoro di ricerca di nuovi paradigmi per capire quanto sta succedendo, scartando ed oltrepassando quei paradigmi che questa mobilitazione ha dimostrato obsoleti. Con questo non intendiamo che è stata svelata la “vera natura” dell’istituzione universitaria, che è sempre stata così e sempre lo sarà: non siamo né storici né veggenti. Intendiamo però che, per rimanere fedeli a quanto questa mobilitazione sta rendendo evidente, ovvero la totale impossibilità di salvare l’istituzione universitaria in quanto parte integrante della macchina bellica, serva riconoscere le caratteristiche centrali di questa istituzione adesso, per percepire le fratture che si aprono nella produzione del Reale per tentare un agire destituente.
Il primo paradigma che caratterizza la “critica” all’università, e che questa mobilitazione ha dimostrato essere obsoleto, è quello che dipinge l’Università come un luogo neutrale di produzione di “saperi critici”, che per errori di percorso fa accordi con il mondo militare, le aziende, i privati etc. Questo paradigma è sintomo di una visione che separa le istituzioni “buone”, la cui traiettoria deve essere corretta dalle spinte “dal basso”, come per l’appunto l’Università, caratterizzate da una possibile gestione più democratica del Potere, e le istituzioni “cattive” per le quali invece non c’è nulla da fare; viene fuori da una tradizione di pensiero strettamente liberale e riformista, volta alla democratizzazione del Potere e non alla sua eliminazione. Questa idea dipinge l’istituzione universitaria come una forza positiva dentro la società, e dipinge “noi” come i suoi protettori: l’università va protetta dai suoi possibili errori di percorso. Così facendo, questa debole critica non si sofferma mai su cos’è l’università, sul suo ruolo nella società di guerra e nella ricerca tecnologica. Piuttosto ci si concentra su come dovrebbe essere meglio gestita, senza mettere in dubbio le forme di potere ed oppressione che cristallizza al suo interno, ma semplicemente “criticando” determinati accordi o rapporti che, una volta eliminati, permettono all’università di “ritornare” al suo ruolo di produzione e riproduzione di saperi critici. Pensiamo che questo momento storico e la mobilitazione solidale alla causa palestinese abbiano dimostrato che l’università non sia da salvare o recuperare dalla guerra, ma anzi che essa è un tassello fondamentale per la guerra.
Il secondo paradigma spesso utilizzato nella critica all’università, quello dell’università- azienda, è sicuramente più preciso e puntuale rispetto al primo sul piano della gestione dell’Università basata sul profitto, ma limitante per quanto riguarda il ruolo dell’istituzione nella società ora. Questo paradigma è molto utile per capire le implicazioni che questa gestione aziendale ha sulla vita di chi studia e sulla produzione e riproduzione del sapere per gli interessi di mercato. Ma è comunque limitante perché mantiene il proprio focus di analisi su come viene gestita l’Università e non su ciò che essa è. Questo sguardo ignora il ruolo specifico e di primo piano dell’università adesso: considerandola un’azienda tra le altre, ne sminuisce la funzione nella produzione del Reale. Si tende così a deresponsabilizzare l’università, perdendo la centralità del suo ruolo sociale nella guerra di questo momento storico.
Da questa mobilitazione è emersa la necessità di distogliere l’attenzione da come l’università dovrebbe essere gestita, “dal basso” o fuori dalle logiche di profitto, cose impossibili vista la totale immanenza del Capitale in ogni ambito della vita. Questo momento ha fratturato i meccanismi che producono l’università come un’istituzione “buona” da salvare da errori di percorso o “dal capitalismo”. Aperta questa frattura, dobbiamo abitarla, concentrandoci su cosa sia l’università ora, abbandonando i vecchi paradigmi di “critica” per andare oltre.
Quello che è stato messo in luce dalle svariate ricerche ed approfondimenti sul tema Università-Guerra prodotte durante questo “momento per la Palestina” è prima di tutto il ruolo che ricopre ora l’università nella società. L’onnipresenza di aziende belliche e tecnologiche all’interno dell’università serve alle prime per ricevere legittimità sociale, culturale e ideologica, oltre che un vero e proprio supporto tecnico e materiale, che l’università dà in quanto “istituzione neutra-buona”. L’università funge da cruna dell’ago all’interno della quale tutto passa, dalla ricerca bellica a quella tecnologica, a quella scientifica per essere legittimato socialmente e quindi potersi produrre e riprodurre più agilmente. Questo è possibile precisamente grazie all’idea liberale e democratica dell’università come istituzione buona: qualunque azienda o privato che collabora con essa, che produca algoritmi di controllo o strumenti di morte, o anche parti di ricerca che poi vanno a completare la costruzione di armi, è sempre legittimato proprio grazie a questo ruolo “buono” dell’università nella società. Il paradigma dell’università come cruna dell’ago per la produzione del Reale serve per concentrare l’attenzione sul ruolo di legittimazione culturale e ideologica nella produzione di guerra, controllo e dominio, che ha l’università adesso visto che è uno degli strumenti che compongono la produzione del Reale in quanto macchina di dominio. In questo periodo storico, mettere l’accento sulla guerra è necessario: questa è la forma di governo dell’attualità, che definisce la società tutta, e a cui tutte le istituzioni devono tendere. L’università ora è parte integrante e centrale del movimento generale verso la guerra, sia da un punto di vista ideologico (si pensi al caso di Med-Or) che materiale, visto il numero di ricerche che alimentano la guerra. Proprio come nel modello israeliano, per cui le università hanno una posizione in prima fila per la produzione tecnologica della guerra, così anche l’Occidente segue sempre più quella strada: le università non sono esenti.
Questo ragionamento si basa sulle ricerche fatte tra università e varie aziende. I rapporti tra università e aziende non sono solo di tipo economico, o infrastrutturale, ma anche culturale e sociale. Questo ci porta a dire che le ricerche, le più disparate tra di loro, devono passare inequivocabilmente attraverso l’università: da qui la figura retorica della cruna dell’ago. L’università fornisce alle aziende e privati la legittimità sociale che permette loro di spendersi il meglio possibile, non solo sul mercato finanziario o bellico, ma anche su quello ideologico, inteso come insieme di paradigmi che producono il Reale. Questo ci porta a non essere d’accordo con il paradigma dell’università-azienda: metterla allo stesso piano di tutte le altre aziende farebbe perdere questa sua specificità singolare. Questa mobilitazione invece è riuscita ad inchiodare l’istituzione universitaria al suo ruolo sociale di primo piano nella produzione del Reale, perché è l’unica capace di dare un contributo tecnico, materiale, infrastrutturale, ideologico, sociale e culturale alla produzione di guerra.
Cosa ci lascia questo discorso? Nulla, come sempre. La speranza è di dotarsi di nuovi strumenti di analisi prodotti dalla mobilitazione per la Palestina, per mantenere un piano di coerenza. Ovviamente, questa analisi non è esaustiva per tutto questo anno di mobilitazione, non ci siamo concentrati sulla composizione di classe che si è mobilitata, su nuove pratiche di conflittualità, e tante altre questioni messe in moto. Siamo partiti dalla questione universitaria per la centralità che ha avuto nel permettere il superamento di vecchi paradigmi, e quindi ora è il momento di cercarne di nuovi per percepire quanto ci succede attorno. Delle strade sono state giustamente percorse, degli approcci sono stati provati, ma è il momento che decreta le fratture da abitare per allargarle. Quello che questa mobilitazione dimostra è che non c’è nulla da migliorare o da co-gestire, l’università è un tassello fondamentale per la produzione del mondo-guerra, non sta a noi salvarla da questo suo ruolo. Non pensiamo ci sia qualcosa di preciso da fare, se non provare ad ascoltare e percepire quello che un momento produce, facendoci attraversare e permeare da esso. C’è sicuramente da disertare tante strade, tanti spazi, tanti discorsi: c’è semplicemente un intero mondo da destituire, la sfida è capire come.