Su mobilitazioni, classi e guerra – Un punto di vista fuori tempo massimo sul movimento contro il green pass a Trieste
Ci sono situazioni di lotta che impensieriscono, e altre che passano senza scalfire né l’ordine né la memoria. Il movimento contro il green pass a Trieste rientra senz’altro tra le prime. E infatti, oltre due anni dopo la sua conclusione, il confronto tra chi vi ha preso parte mantiene il senso e la forza di un elenco di problemi ancora sul tavolo. Ben volentieri pubblichiamo questo contributo, che interloquisce con altri già pubblicati sul “rovescio” e con un articolo uscito sull’ultimo numero della rivista anarchica “i giorni e le notti”. Robert Walser le avrebbe chiamate proprio così: storie che danno da pensare.
Su mobilitazioni, classi e guerra – Un punto di vista fuori tempo massimo sul movimento contro il green pass a Trieste
L’intento di queste righe è quello di inserirsi nel confronto iniziato dai due testi Una prospettiva sulle mobilitazioni contro il Green Pass a Trieste, parti 11 e 22 e proseguito nel numero 15 della rivista “i giorni e le notti” con l’articolo Un porto, una città, una lotta, il movimento. Al pari di questi tre, accanto a riferimenti a fatti vissuti in prima persona, il testo reca riflessioni e considerazioni personali, dunque necessariamente parziali. È giusto rilevare che chi scrive ha avuto modo di partecipare a buona parte –ma non a ogni suo momento – della mobilitazione che ha attraversato la città di Trieste dalla fine di agosto 2021 al marzo 2022, non vive quotidianamente la realtà cittadina e non è stato interno e parte attiva nel locale Coordinamento No Green Pass. Non da ultimo, le righe che seguono sono pensate anche come un’autocritica.
Intorno al porto
Come giustamente evidenziato nei tre testi sopracitati, non si possono negare le dimensioni straordinarie raggiunte dalle manifestazioni di piazza contro il lasciapassare digitale nei mesi tra settembre 2021 e marzo 2022 a Trieste, come anche il fatto che se al loro interno non si sono palesati e concretizzati evidenti derive e discorsi destrorsi e reazionari, il merito è anche e soprattutto dei compagni/e che decisero di prendervi parte.
Ciononostante, è stato un grandissimo peccato che i tre giorni del porto (15-17 ottobre 2021) siano stati “solo” quello che sono stati. Si è trattato, per certi versi, di una grande occasione persa.
Non solo, come viene giustamente notato in Un porto, una città, una lotta, il movimento, la mancata occupazione degli altri varchi oltre al varco 4, con l’opportunità di tentare un blocco totale anziché parziale del porto. Ma anche l’essersi intestarditi/e a voler restare in quel solo luogo, qualsiasi cose fosse successa (e ne sono successe, come ben descritto in Una prospettiva sulle mobilitazioni contro il Green Pass a Trieste) e il non aver voluto allungare lo sguardo fuori da esso, il non aver pensato che il conflitto poteva essere spostato e allargato, in altre forme e con ben altre conseguenze, nel resto del territorio a disposizione.
Giusto per fare qualche esempio, le colline carsiche sopra Trieste offrivano e offrono diverse possibilità in questo senso, ospitando importanti infrastrutture critiche per il capitale da un punto di vista logistico (viario e commerciale, come autostrade e ferrovie), delle telecomunicazioni, energetico, oltre ovviamente alla linea del confine di Stato, solo per citarne alcune. Questo non solo al fine di poter essere, al momento decisivo, “reattivi ed agili di fronte alla repressione” (quando arriva quel momento potrebbe già essere troppo tardi per allargare l’orizzonte dell’intervento), ma proprio per tentare di far precipitare la situazione “creando più fronti di blocco/attacco”, potenzialmente in grado di mettere in seria difficoltà non solo e non tanto gli sbirri ma soprattutto la tenuta dell’ordine imposto nella città e nel territorio dove essa estende la sua influenza, nel centro del controllo e dell’amministrazione della vita ma soprattutto nella sua periferia. Questi orizzonti dovrebbero essere sempre presenti quantomeno nell’ordine delle idee, così che nel momento in cui se ne intraveda la possibile realizzabilità pratica, possano essere prontamente percorsi. Si poteva e si doveva provare ad andare oltre? Secondo chi scrive sì.
Da un lato non sufficiente organizzazione, mancanza di esperienza di mobilitazioni di queste dimensioni e composizione, e mancate previsione e preparazione ai possibili scenari hanno avuto certamente un peso sul corso degli eventi per come si sono verificati. Ma, anche volendo, certe pratiche non si improvvisano, a maggior ragione se non si desidera improvvisarle. L’impressione infatti era che da lì non si volesse andarsene, perché quello era il posto dove stare, che coi portuali, nonostante provocazioni, ambiguità e contraddizioni, bisognasse usare i guanti di velluto, che essi non andavano troppo urtati perché “qua siamo a casa loro” (cit.). Come scritto sopra, queste righe sono intese anche e soprattutto come autocritica, da parte di uno che in quei tre giorni il porto non l’ha lasciato e che non è stato evidentemente in grado in quel frangente di proporre né attuare possibili vie di ampliamento del conflitto convincenti ed efficaci.
Qualcuno ha poi detto, nei mesi successivi, “una volta avvenuto lo sgombero del porto di Trieste, si doveva bloccare tutto altrove”, ma questo è ancora un altro discorso che si proietta ben oltre quanto avvenuto a Trieste.
Sui portuali di Trieste
Lo slogan spesso ripetuto dal leader del sindacato “CLPT” dei portuali Stefano Puzzer “i portuali hanno sempre lottato per tutti” si colloca tra la leggenda e la menzogna. Sarebbe interessante capire a che cosa si fa realmente riferimento, se si tratta di storia o di narrazione imbastita ad hoc, perché dopo decenni di memoria corta i confini fra le due risultano praticamente indistinguibili, soprattutto in assenza di testimonianze dirette sul passato di una comunità di sfruttati che non esiste più, almeno non con quella composizione, quei riferimenti, quelle prospettive, quei punti di vista sulla realtà, condivisibili o meno che fossero.
Il rischio è, ed è stato, sempre quello di idealizzare, mitizzare ingenuamente un intero insieme di lavoratori solo in base alla loro appartenenza categoriale o semplicemente al luogo in cui si trovano a dover vendersi per un salario. E questo è, in parte, proprio quello che è successo a Trieste in quelle settimane.
Una rapida carrellata attraverso i decenni della storia dei lavoratori portuali triestini, da parte di chi quegli anni li ha vissuti, restituisce la scarsa fondatezza di questa asserzione. Senza addentrarsi nei dettagli di una lunga disamina che peraltro rischierebbe moltissimo spazio e confronto di testimonianze e vissuti, sia la vicenda che ha riguardato la difesa compatta del padrone D’Agostino rievocata nell’articolo nella rivista, tanto quanto la fase di passaggio dalle Compagnie di lavoratori – che avevano, nonostante le intenzioni, solo parzialmente limitato il fenomeno del cottimo ampiamente diffuso negli anni del dopoguerra – alle cooperative di appalto della manodopera alla fine degli anni ’80, parlano abbastanza chiaro. In quest’ultimo frangente, PCI e CGIL (all’interno dei quali una consistente parte dei portuali era inquadrata) spinsero fortemente in questo senso e la maggioranza dei portuali accolse con favore l’operazione di liberalizzazione dei rapporti di lavoro, alcuni di essi in cambio di lauti pensionamenti anticipati. Operazione che servì, tra l’altro, anche alla liquidazione di quei residui di manodopera che avevano partecipato ai cicli di lotte dei decenni precedenti. Che i portuali abbiano sempre lottato per tutti/e nella città di Trieste rimarrebbe dunque tutto da valutare, ma sicuramente questa e altre formule ad effetto sono risultate assai utili a costruire e alimentare da un lato un’autoinvestitura quale forza trainante di tutta la mobilitazione da parte di questa compagine di lavoratori – una forza da cui non si credeva di poter più prescindere o fare meno da un certo momento in poi – e dall’altro un certo ordine di aspettative in chi portuale non era rispetto al posizionamento, determinazione, intenzioni dei lavoratori del porto.
A modo di vedere di chi scrive, la presenza dei portuali all’interno della mobilitazione in città prima e al blocco parziale del porto poi, si è purtroppo rivelata tanto deleteria quanto all’inizio era sembrata positiva. Si tratta, naturalmente, anche di valutazioni col senno di poi e in questo risiede il loro oggettivo limite. Non si intende negare l’impatto che, in un primo momento, la calata in massa dei portuali ha avuto nelle strade, soprattutto in termini quantitativi, di presenza scenica e tanto rumore. Ambiguità e contraddittorietà delle posizioni e dei reali intenti della componente sindacale portuale capeggiata da Stefano Puzzer (il CLPT) si sono rivelate nella sua pienezza solo nei giorni del porto, anche se non erano tuttavia mancate delle avvisaglie, tra cui quelle menzionate sopra, nel periodo precedente. Per quel che vale oggi, rimarrebbe ancora tutta da chiarire la reale intenzione dei portuali (almeno di quelli afferenti al CLPT) di fare da esempio per altri porti in Italia bloccando a oltranza il proprio, la reale volontà di andare fino in fondo, anche a costo dello scontro non preventivato.
Memorabile in questo senso, la sera prima del blocco, il discorso dello stesso Puzzer davanti a una assemblea di portuali, mentre dichiara il cambio di programma, l’indomani non si sarebbe bloccato proprio nulla, solo un presidio a sostegno di uno sciopero e poi tutti a casa. Tentativo di smobilitazione reiterato il successivo sabato pomeriggio, quando dal varco invita tutti/e ad andarsene perché la cosa doveva finire lì pena uno sgombero violento, ma chi tramite un comunicato chi in modo meno formale, gli fa capire che lì non finiva proprio niente. Indimenticabile anche, all’inizio di uno degli ultimi cortei prima del blocco parziale, il tentato assalto al furgone da dove una compagna stava facendo il suo intervento ad opera di alcuni fedelissimi del leader, alcuni dei quali membri della curva “Furlan” della squadra di calcio della Triestina, allo scopo di interrompere l’intervento perché a loro non gradito in quanto troppo “politico”; la rapida reazione di alcuni/e compagni/e li respinge, ma Puzzer riesce comunque a intrufolarsi e a strapparle il microfono per ribadire un altro dei suoi cavalli di battaglia: “qua no se fa politica, né destra né sinistra, semo tuti qua contro el green pass”.
Il dopo-porto farà gradualmente sprofondare questo personaggio, i cui orizzonti di gloria gli sono evidentemente sfuggiti di mano, nel buco dove si trova ancora oggi, scaricato com’è normale da chi (sbirri e padroni) aveva pensato di usarlo in tutti i modi per arginare una situazione inedita e di difficile prevedibilità, attraverso tutta una serie di passaggi che qui non interessano (un pezzo da novanta è però un video in cui egli intima a non partecipare a un corteo perché sarebbero stati in arrivo centinaia e centinaia di infiltrati violenti da fuori, “Fidatevi di me, fidatevi di me… vi voglio bene”, reperibile in rete per chi ha stomaco. Qui si poteva sentire puzza di questura lontano un chilometro e, coincidenza o meno, dopo questa “intuizione” verranno messi posti di blocco a tutte le entrate della città e distribuito qualche foglio di via).
Se forse non si arriverà mai a fare chiara e completa luce sui retroscena operanti dietro questa figura di improvvisato capopopolo, prima durante e dopo i tre giorni del porto, questo passaggio non è fondamentale a provare, ancora una volta e per l’ennesima volta, che figuri del genere non servono assolutamente a niente nel contesto di una lotta che aveva fatto – grazie anche al lavoro dei compagni/e – dell’informalità, dell’autorganizzazione, del rifiuto della delega e del dialogo con sbirri e qualsivoglia autorità, alcuni dei suoi capisaldi. La loro unica funzione, a parte i loro personali miserabili piani di carriera, è quella di funzionare, in modo consapevole o meno non fa differenza, da improvvisati recuperatori e gestori di una situazione scomoda e fastidiosa per la controparte.
L’auspicio è che anche chi, per una serie di ragioni anche molto diverse, non aveva prima consapevolezza dei rischi legati a simili personaggi e manovre, dopo quel periodo abbia potuto rendersene conto e la prossima volta, se e quando se ne ripresenterà l’occasione, prenda a calci in culo il Puzzer di turno e la sua ciurma non appena si presentano, invece di riporre eccessive e malriposte aspettative in autoproclamatisi leader, sindacali o meno. Se la mobilitazione cittadina è stata quel che è stata, anche dopo lo sgombero del porto quando i cortei sono usciti depurati da presenze indesiderate – alcuni portuali inclusi – è stata sia il risultato della traiettoria assunta dagli eventi, sia del fatto che individui del genere hanno capito, seppur in maniera tardiva, che non era più aria.
Considerazioni parziali fuori tempo massimo
Il metodo della sintesi porta ad appiattire al ribasso, mai verso l’alto, le varie posizioni, verso un “minimo comune denominatore”, che nel migliore dei casi “accontenta tutti/e” (sul serio?) e nel peggiore vincola e lega mani e piedi agli “inderogabili” accordi frutto della mediazione interna al gruppo stesso, che non devono essere trasgredite da nessuno/a, pena lo sfasciarsi di tutto il fronte. L’ostinazione ad amalgamare ogni punto di vista che di volta in volta si (ri)presenti, la mediazione continua fra posizioni anche assai distanti porta all’atrofizzarsi delle pratiche, oltre che dei discorsi, alla loro sempre uguale ripetizione in forme date e prestabilite, fino allo sfinimento e all’impotenza operativa, infine con lo scopo ultimo di “esistere per esistere”, di sopravvivere in modo fittizio fino all’ultimo respiro.
Il mantenere a tutti i costi il fronte compatto, con l’incremento quantitativo (illimitato) come unico orizzonte (e poi…?), si traduce quasi sempre in una scarsa incisività dell’intervento, quando non porta addirittura a tentativi di cooptazione del gruppo eterogeneo da parte di gruppi più ristretti al suo interno.
Anche lo sviluppo di eventuali affinità sul piano teorico è pratico non sboccia all’improvviso, non si tira dal nulla fuori dal cappello, ma ha bisogno di esperienze, riflessioni e confronti prima, durante e dopo, in una prospettiva proiettata nell’oltre. Il totale assorbimento nel “fronte di lotta” è antitetico a questo processo, il suo risultato è l’appiattimento e l’inibizione degli slanci al suo esterno.
In riferimento alla locale mobilitazione contro il green pass, è sembrato che fosse esclusa in partenza la possibilità di intraprendere azioni di rottura, diverse dai civilissimi cortei che si ripetevano in città, cortei come già detto straordinari da tanti punti di vista per il contesto che attraversavano, ma sicuramente buoni per tutti i palati. La paura dello spaccamento del fronte che si sarebbe potuta originare ha insomma probabilmente inibito tutto un ventaglio di possibilità. Ma questo timore non è, come tante esperienze ci hanno insegnato, campato in aria, è reale e si palesa sempre quando si voglia tenere insieme a tutti i costi situazioni così eterogenee.
Le esclamazioni citate nell’articolo della rivista da parte di partecipanti ai cortei (“Dove siete voi anarchici con le vostre azioni?”, “È questo il momento!”) potrebbero rincuorare e fare ben sperare, non si dubita della loro sincerità, ma hanno valore di aneddoto. Si ricordano infatti altrettanto bene gli inviti a mettere via i caschi o a cambiare l’abbigliamento poco sgargiante, perché “allontananti” e perché avrebbero fatto pensar male la gente, le semplici telefonate origliate da individui in pettorina gialla (forse si credevano una specie di servizio d’ordine?), seguite da “qui non vogliamo casini”, gli inviti a non esagerare perché ogni esagerazione non sarebbe stata presa bene. Ma anche questi sono aneddoti. Ad ogni modo, nulla di cui meravigliarsi né materiale per inutili polemiche a posteriori, semmai qualcosa con cui sapere in anticipo di dover fare i conti e su cui ragionare, se lo si desidera, rispetto al vecchio problema dell’autonomia dei discorsi e dell’azione in contesti assai variegati.
Di classi e d’arruolamento
Per quel che si è visto le mobilitazioni di quei mesi, non solo a Trieste, hanno avuto un carattere decisamente interclassista anche se evidentemente non trasversale a tutte le classi, come ce l’ha avuto anche il consenso – o, di contro, il determinato rifiuto – della sfilza delle costrizioni imposte una dietro l’altra durante il regime d’emergenza. Questo, certamente, a meno che non si ritengano le porzioni della borghesia spinte sulla via del rapido impoverimento e proletarizzazione già perfettamente assimilabili al proletariato e sottoproletariato sfruttato.
Piccola e media borghesia (se questa sottile distinzione ha ancora un riscontro nella realtà) coi loro evidenti portati in termine di simpatie politiche reali o dichiarate hanno costituito, assieme a certe fasce di proletari, la grande parte di coloro che si sono mobilitati in quei mesi.
Senza voler negare o trascurare le ineludibili e acute disparità di carattere materiale ed i conseguenti variabili margini di opposizione (anche semplicemente passiva), sostegno o attivo coinvolgimento nella lunga lista di imposizioni sperimentate in quei mesi, il rispetto e l’osservanza di queste sono state, per chi scrive, in larga misura più una questione di obbedienza che non di classe.
Che coloro che si collocano a diversi livelli nella gerarchia dello sfruttamento economico esprimano anche ben diversi livelli di obbedienza ai diktat del potere è ancora in parte vero, ma purtroppo sempre meno ed in maniera sempre più residuale.
È evidente da un lato che per quegli individui o gruppi sociali collocati più in alto nella gerarchia dello sfruttamento economico il problema non si è nemmeno posto, per ragioni di appartenenza, di status, di responsabilità nel funzionamento della macchina sociale, arriverei a dire culturali; come non si è posto per coloro i/le quali il mantenimento di un reddito costante, per quanto misero, o l’accesso a determinati servizi elargiti dallo Stato o l’avere i documenti in regola sono una questione di sopravvivenza e non un optional, la grande massa dei ricattati/e per i quali non c’è molta scelta qualsiasi sia il loro punto di vista sulla realtà.
Questi, assieme agli arruolati convinti e talvolta entusiasti, sono quelli/e di cui lo Stato veramente conta di poter disporre a piacimento nel momento del bisogno, del compattamento contro o a favore.
Ma è altrettanto vero, purtroppo, che moltissimi/e sfruttati/e (la maggior parte?) non hanno nemmeno intravisto o percepito le nefaste conseguenze della scelta di sostenere le imposizioni di quel periodo, né il genere di avvenire che esse hanno contribuito a preparare anche e soprattutto nell’intento di imporre condizioni di sfruttamento e oppressione sempre più coercitive e brutali. Questo è un dato evidente e non aggirabile, su cui ci sarebbe molto da ragionare. Entrare nel merito di un’analisi sulle radici di questo dilagante “interclassismo dell’obbedienza” esula dagli intenti di questo articolo, un argomento però di estrema rilevanza, mai sufficientemente approfondito.
E proprio in questo, forse, è stato il grande valore, per chi amministra l’ordine sociale ed economico, di quel in larga parte riuscito test sociale totale. Per una maggioranza significativa di persone, anche se non per tutte, si è trattato di adeguamento acritico, consapevole e incondizionato all’esperimento di irreggimentazione tecnocratica delle classi dominanti, reso esecutivo dallo Stato e dai suoi apparati repressivi, sia militari che soprattutto “civili”. Tale adeguamento è stato, purtroppo, trasversale alle classi, altrimenti, verrebbe da dire, ce ne saremmo accorti.
Da un lato la cristallizzata dipendenza dalla moltitudine dei “servizi” offerti dallo Stato e dal capitale, dall’altro la diffusa scomparsa di una anche minima capacità di comprensione, giudizio autonomo (non mediaticamente condizionato) e analisi critica dell’esistente – un lavoro di erosione delle coscienze lento e costante durato decenni – hanno reso attuabile quello che non si sarebbe immaginato potesse esserlo.
In questo senso, quello che risulta particolarmente preoccupante in prospettiva è il livello di “arruolamento” tentato ed effettivamente conseguito dallo Stato fra tutte le classi, nel contesto di una autodichiarata situazione “d’emergenza”, un’esercitazione la cui sostanziale riuscita assume tutt’altra valenza alla luce dei tempi odierni e quelli che potrebbero attenderci, con scenari di guerra guerreggiata alle nostre latitudini che incombono sempre più concreti all’orizzonte.
Se non interverranno presto grosse rotture, gli opposti posizionamenti dell’“arruolamento” o della “diserzione” dei piani del capitale e degli Stati assumeranno una valenza e un significato ben più gravidi di conseguenze di quanto non sia stato durante la guerra al virus. I meccanismi – anche inconsci e ancora in parte lungi dall’essere compresi e scardinati – che a livello di massa permettono a chi detiene il potere di ottenere una totale sospensione del ragionamento e del giudizio, persino del basilare “buonsenso”, e dunque il necessario sostegno ai salti in avanti dell’espansionismo del capitale e della conseguente sempre più brutale oppressione, si ripresenteranno amplificati nella necessità di una mobilitazione bellica contro il nemico esterno, questa volta ben più tangibile e definibile rispetto a un qualsiasi virus.
A tal proposito potrebbe risultare utile ricordare anche come Trieste, in quei mesi, funse anche da “laboratorio” per la sperimentazione di provvedimenti di repressione della protesta3, dirette e logiche emanazioni particolari della generale “gestione pandemica” a carattere militar-emergenziale, provvedimenti logicamente supportati dalle evidenze scientifiche a disposizione al momento nella guerra al virus. Un periodo che ha solo funto da test e preparazione in vista di scenari che, dopo circa tre anni, si fanno ogni giorno più concreti.
Sui “movimenti” locali
Più che concentrarsi sugli oggettivi limiti, lacune e contraddizioni di una realtà locale in uno specifico momento, in una sorta di “fotografia” della situazione per come era, nel caso dell’articolo Un porto, una città, una lotta, il movimento, ormai quasi quattro anni fa, potrebbe forse essere più utile un ragionamento sul percorso che nei decenni ha portato a questa stessa situazione (beninteso, quella triestina o di qualsiasi altro luogo). Il presente, in ogni momento, è sempre l’ultima tappa di un processo, più spesso di più processi, variabili e fattori che negli anni si sono intersecati, scontrati e aggiuntisi gli uni agli altri, e hanno contribuito a dar forma – o a non dar alcuna forma – al presente.
Una data presenza, o “gruppo” su un dato territorio, ha sempre alle sue spalle un retroterra, una sua storia e “tradizione” (brevi o lunghe che siano) costruite mattone su mattone a partire da fatti e avvenimenti lontani nel tempo – e nel tempo sedimentatisi – fino ai più recenti avvenimenti. Sebbene il costante ragionamento sul presente e sulla direzione intrapresa, sui passi che di volta in volta vengono fatti, sia sempre auspicabile (anche se non sempre possibile), è anche a partire dal passato che andrebbe fatta un’analisi retrospettiva della situazione presente, non certo nell’ottica di fare della “storiografia del movimento locale”, ma in quella di un superamento dei limiti qualitativi eventualmente individuati, della continua evoluzione e revisione teorica, dell’affinamento e valutazione delle pratiche esistenti e dell’esplorazione di nuove e non ancora tentate, dell’analisi critica e soprattutto autocritica di ciò che è stato fatto o non fatto, del come e del perché, altrimenti il rischio del cronico ripresentarsi di certe “cadute” e del portarsi appresso vecchie zavorre sarà sempre dietro l’angolo.
Infine, un pensiero di solidarietà, amore e rabbia va ai rivoltosi del carcere del Coroneo di Trieste che lo scorso 11 luglio hanno dato vita ad una rivolta di proporzioni inedite, scontrandosi per ore all’interno del carcere contro i manganelli e i lacrimogeni delle guardie in antisommossa – uno dei prigionieri morirà nel carcere il giorno dopo –, ai rivoltosi nel Cpr di Gradisca che da novembre dello scorso anno continuano a più riprese ad incendiare e sfasciare pezzo per pezzo il lager goriziano e a tutti/e coloro che continuano senza soste a ribellarsi e a scontrarsi nelle carceri e nei Cpr in tutta Italia e nel mondo, anche a costo della vita.
La salute è in voi.
Uno fra i tanti