Affinché quel grido non rimanga isolato. Sulla rivolta del 9 aprile nel carcere di Spini di Gardolo

Riceviamo e diffondiamo:

Affinché quel grido non rimanga isolato. Sulla rivolta del 9 aprile nel carcere di Spini di Gardolo

La rivolta scatenatasi il 9 aprile in una delle sezioni del carcere di Spini di Gardolo, con diversi danni (vetri rotti, termosifoni divelti, impianto elettrico e telecamere danneggiati), rifiuto da parte dei detenuti di rientrare in cella, intervento massiccio delle guardie e mobilitazione di forze di polizia esterne al carcere, ha avuto l’effetto di rompere, per un attimo, il velo di silenzio e compiaciute menzogne che abitualmente circonda la struttura. Se da un pezzo nessuno ha più la sfacciataggine di parlare di “carcere modello”, casualmente era proprio del giorno prima la sfilata propagandistica del vescovo e dei magistrati di sorveglianza, venuti a Spini a farsi fotografare dai giornalisti, parlando di sovraffollamento come se la magistratura non ne fosse direttamente responsabile e invocando, come sempre, aumenti di organico per le guardie, e risaliva ad appena un paio di giorni prima l’ennesimo tentativo di suicidio (un altro, in isolamento, avverrà poco dopo la rivolta, e l’ultima detenuta morta, sempre in isolamento, risale a dicembre).

La causa immediata della sommossa, l’ennesimo rapporto disciplinare, non ha niente di estemporaneo o occasionale: l’uso costante (e l’ancor più frequente minaccia) di rapporti e periodi di isolamento scandisce la vita dei detenuti, comporta un aumento della durata della detenzione (con la perdita dei giorni di liberazione anticipata e il rifiuto delle misure alternative al carcere), alimenta quel sovraffollamento di cui sono interamente responsabili magistrati e giudici di sorveglianza, che con i loro reiterati rifiuti si sono resi responsabili della morte di almeno due detenuti.

I continui rapporti disciplinari, il rifiuto dei giorni di liberazione anticipata, delle misure alternative o della “svuotacarceri” anche a chi ne avrebbe i requisiti, le attese di mesi o di anni per avere una risposta a un’istanza o per farsi fissare un’udienza fanno sfumare in un futuro indefinito il momento in cui si riuscirà ad uscire da quelle maledette mura, alimentando quella disperazione, quella mancanza di prospettive che trovano sfogo nel frequente autolesionismo e nel dilagare degli psicofarmaci (contenzione chimica di massa somministrata dal carcere), oltre ad avere ricadute “pratiche” piuttosto logiche per chiunque non sia un magistrato di sorveglianza: chi, dopo aver richiesto i domiciliari o l’affidamento al lavoro, deve aspettare 6 mesi per avere un’udienza, in quei sei mesi perde sia la casa che il lavoro, e quindi la possibilità di accedere a misure alternative, i magistrati rigettano l’istanza e si rimane in carcere. La cronica mancanza di educatori contribuisce a perpetuare questa situazione: non per l’assenza della tanto decantata “rieducazione” (cioè privare il detenuto della propria identità inducendolo a rifiutare se stesso, le proprie relazioni, le proprie ragioni per assumere quelle dell’istituzione che lo rinchiude), ma perché ogni richiesta comporta un passaggio attraverso una loro valutazione, creando quel collo di bottiglia in cui rimangono incastrate le vite dei detenuti. Quando magistrati, giudici, sindacati dei secondini blaterano di sovraffollamento fanno i propri interessi sulla pelle dei detenuti: Spini, come gran parte delle carceri, è una casa circondariale, destinata a rinchiudere detenuti con condanne “brevi” (tralasciando quel 30% di detenuti che, in tutta Italia, sono in attesa di giudizio) che, quando la pena scende al di sotto dei 4 anni, potrebbero accedere a misure alternative. Queste misure vengono metodicamente negate, o concesse con una logica premiale in cui la vita del detenuto è disseminata di ostacoli mirati a non fargliela ottenere, così come vengono negate le misure cautelari non detentive. La creazione artificiosa di una situazione di sovraffollamento giustifica la costruzione di nuove carceri (una è prevista anche a Bolzano), destinata a perpetuare all’infinito la presunta emergenza (più carceri per ancora più detenuti) e cospicuamente finanziata dall’attuale governo, serve da pretesto per l’aumento di fondi e organico per la polizia penitenziaria (“referente sociale” e bacino elettorale per Fratelli d’Italia e Lega), consente di ripetere all’infinito la minaccia dell’“emergenza sicurezza” che legittima i nuovi strumenti legislativi con cui continuare a riempire le carceri (dal decreto Caivano all’ultimo pacchetto sicurezza). Tutti elementi che disegnano il carcere per ciò che è: strumento di gestione e contenimento delle fasce più povere della popolazione. Questa fetta di popolazione è destinata ad aumentare. In tempi di guerra, ai poveri non spettane neanche le briciole, e lo Stato si sta attrezzando di conseguenza: il carcere è discarica sociale in cui relegare quelle quote di proletariato che non si riescono a mettere a profitto, è già “carcere di guerra”, e la riorganizzazione disciplinare delle sezioni, con l’estensione del regime chiuso che diventa “trattamento ordinario” obbligatorio in tutto il circuito di media sicurezza (sperimentata nel 2022 ed entrata in vigore nel 2023), lo testimonia (così come il 41bis per il prigioniero anarchico Alfredo Cospito). D’altra parte, in tutta Italia, e Spini non fa eccezione, prolifera il lavoro carcerario, per conto di ditte e cooperative esterne, con cui la manodopera “in eccesso” diventa manodopera prigioniera, ipersfruttabile, sottopagata, ricattabile, priva di possibilità di scelta e di altre fonti di sostentamento, oltre che costantemente sorvegliata.

L’esplosione di rabbia del 9 aprile a Spini è stata un grido che ha cercato di spezzare il silenzio sulla normalità assassina del carcere, che giorno dopo giorno sottrae ai detenuti pezzi di vita, con le attese infinite e senza senso, con le angherie quotidiane delle guardie (sputi, minacce, botte, celle chiuse, sedazione chimica, ricatti sul lavoro interno o sui permessi per chi ha figli minori…). Ai detenuti che vi hanno preso parte è costata rapporti, isolamento, annunciati trasferimenti. Ai nemici del carcere, a chi è solidale con i detenuti perché sa che essi sono parte della stessa classe oppressa e sfruttata, spetta il compito di far sì che quel grido non rimanga isolato, di farlo risuonare oltre il muro del carcere, di individuare le responsabilità di una reclusione sempre più estesa e insostenibile.

Solidali con i detenuti e le detenute di Spini