Il business del controllo sul controllo

 

Quando la lotta di classe latita (o meglio, quando a farla sono per lo più i padroni contro i loro subordinati), alla lucidità dell’odio di classe si sostituisce la melma dell’invidia e del rancore sociale. Se questi potenti strumenti di divisione e distrazione di massa, nella Storia con la “S” maiuscola, sono stati principalmente alimentati e cavalcati dalle varie destre (sempre pronte a aizzare il popolino contro il capro espiatorio di turno: gli ebrei, i gay, gli immigrati, i “fannulloni che percepiscono il reddito di cittadinanza”…), non c’è dubbio che le passioni tristi abbiano fatto ormai da anni il loro ingresso trionfale in una certa mentalità di sinistra togliattianamente rimbecillita, piena di dovere civico e senso dello Stato (per i più “libertari”: della “comunità”…), e ahinoi sempre più presente sia nei palazzi che nelle strade e nei “movimenti” (un esempio su tutti: la feroce persecuzione dei “no vax” degli anni più recenti). Quegli sfruttati e sfruttate che vi abboccano non fanno altro che impiccarsi alle retoriche dei loro sfruttatori.

Passata la campagna militar-vaccinale, il copione si ripete adesso tale e quale con la digitalizzazione del denaro, dove la ristrutturazione capitalistica trova i suoi migliori alfieri in troppi neo-togliattiani inconsapevoli di esserlo, incantati dalla favola della “lotta all’evasione fiscale”. Tratto dal blog comidad.org, questo interessante articolo aiuta a fare un po’ di chiarezza al riguardo, confermando tra l’altro ciò che abbiamo scritto più volte sulle pagine di questo sito e altrove: nell’attuale “transizione digitale”, controllo sociale e profitti finanziari procedono insieme, umiliando e schiacciando le nostre vite mentre se ne nutrono.

Il business del controllo sul controllo

Nel loro gioco di ruolo, il governo (o presunto tale) ed i suoi altrettanto presunti detrattori si ispirano agli stessi criteri polizieschi e punitivi. Il governo Meloni ha avviato l’abolizione del cosiddetto “reddito di cittadinanza” (che in effetti è solo un sussidio ai disoccupati ed agli indigenti), ciò in nome del contrasto all’abuso che di questo strumento si farebbe da parte di “furbetti” e “fannulloni”. I “critici” del governo invece attaccano una misura come l’aumento al tetto dell’uso del contante, in quanto favorirebbe l’evasione fiscale. Al di là delle pantomime polemiche e dei wrestling opinionistici, la costante, l’invarianza, il criterio-guida consistono sempre nel moralismo, nella ricerca del potenziale colpevole da colpire preventivamente, mentre manca completamente la ricerca di un riequilibrio sociale, cioè di evitare eccessive concentrazioni di ricchezza e di potere.

I sussidi di disoccupazione rendono i lavoratori un po’ meno ricattabili, perciò attenuano lo squilibrio nel rapporto di forze tra l’imprenditore e i suoi dipendenti.

Uno dei luoghi comuni più infondati è che il capitalismo sia intrinsecamente diverso dal sistema schiavistico; in realtà è diverso soltanto per un aspetto, e cioè che il capitalismo non è disposto a farsi carico del mantenimento degli schiavi, ma il fatto di non corrispondere alcun salario gli va benissimo. Il brutale “non ti pago perché ti sto insegnando un mestiere”, oggi viene reso con eufemismi come stage o formazione. Salvo le poche e lodevoli eccezioni personali, gli imprenditori come categoria non si pongono il problema del mantenimento della forza lavoro e sono pronti ad approfittare del timore dei dipendenti di rimanere tagliati fuori dal mercato del lavoro pur di corrispondere salari al di sotto della soglia di sopravvivenza. Ciò non può che portare ad una spirale di miseria la gran parte della società, con effetti distruttivi a catena sul processo economico.

Impedire il crollo dei salari invece avvantaggia l’intero sistema economico, poiché evita la caduta della domanda dei beni di consumo e, di conseguenza, anche dei beni strumentali necessari a produrli. I sussidi di disoccupazione rientrano tra quelle misure che in gergo economico si definiscono “anticicliche”, cioè di contrasto alla recessione; ed in quel senso sono tra le misure più efficaci. Al contrario, nulla assicura che i tanti sussidi elargiti agli imprenditori vengano realmente utilizzati nell’economia reale invece che nelle solite speculazioni finanziarie. Si è visto che molto spesso le imprese utilizzano i finanziamenti pubblici per attuare il riacquisto di proprie azioni, in modo da tenerne più alto il valore e poi alla fine incassarne anche il dividendo. Un altro demenziale luogo comune del politicamente corretto è che il fisco sia uno strumento di redistribuzione del reddito attraverso il welfare. Ma il fisco fiabesco è falsificabile empiricamente, in base all’esperienza immediata, e si regge solo tramite la propaganda vittimistica del padronato. Una delle fiabe che circolano è che lo Stato abbia dato soldi alla FIAT perché questa assumesse più lavoratori; la realtà è l’esatto opposto: furono i miliardi regalati alla FIAT dal governo alla fine degli anni ’70 a consentirle di finanziarizzare la propria attività e quindi di licenziare migliaia di lavoratori.

I limiti all’uso del denaro contante vanno ugualmente a scapito dell’economia reale, poiché cristallizzano il rapporto di forza a favore della finanza. Da tempo è noto l’effetto psicologico di induzione all’indebitamento nei confronti dei consumatori, dovuto al fatto che i mezzi di pagamento elettronico (dalle carte alle app) rendono il denaro invisibile e impalpabile, perciò creano un’illusione di infinità, una sorta di euforica inconsapevolezza nello spendere oltre le proprie disponibilità; ed il fenomeno è stato riconfermato da un recente studio in Finlandia.

Le commissioni bancarie sui pagamenti elettronici funzionano inoltre come una vera e propria imposta progressiva sull’economia reale. Anche la più bassa delle commissioni trasferisce, passaggio dopo passaggio, le risorse monetarie verso le banche. Il prelievo può apparire irrilevante se riferito alla singola persona, ma, se viene comparato al sistema economico nel suo complesso, diventa enorme. L’abolizione del contante, il “no-cash”, è promosso e raccomandato da benefattori del calibro di Bill Gates e del Forum di Davos, in quanto i pagamenti elettronici favoriscono l’inclusione finanziaria dei poveri. Non è un caso infatti che tra i più “banchizzati” ci siano proprio i migranti, i quali ogni anno trasferiscono in rimesse ai propri Paesi di origine qualcosa come cinquecento miliardi di dollari l’anno, con il business delle relative commissioni incassate dalle banche. I poveri sono una gallina dalle uova d’oro e si fanno i migliori business derubandoli, ovviamente per il loro bene, mica per altro.

Le banche già sfruttano la propria posizione di forza per scoraggiare l’uso del contante e infatti per i prelievi agli sportelli Bancomat si pagano commissioni elevatissime. Pochi giorni fa è arrivato il grande giustiziere da strapazzo, l’Antitrust, a bacchettare il cattivissimo monopolista; ma Bancomat ha fatto subito sapere che l’alternativa alle commissioni elevate è la chiusura degli sportelli, poiché erogare quel servizio gli costerebbe troppo.

Tra i promotori del no-cash non poteva mancare la Banca d’Italia, con i suoi studi sempre puntuali. È una vergogna che gli studenti vengano ancora costretti a leggere fossili come Dante Alighieri, rimasto all’obsoleta “contradizion che nol consente”; mentre l’illuminata Banca d’Italia ci fa sapere che il futuro ed il progresso stanno nell’ossimoro sistematico, nel dire tutto e il contrario di tutto. Da un lato infatti la Banca d’Italia promuove i mezzi di pagamento elettronici in quanto sarebbero più sicuri e trasparenti, poi ci dice che, per farli accettare, bisogna renderli sicuri e trasparenti. La digitalizzazione apre infatti tutto un nuovo territorio inesplorato a disposizione del furto e della frode; c’è già adesso, figuriamoci cosa ci sarà quando il denaro elettronico sarà sostituito dalle cripto-valute. Per contrastare questo sterminato potenziale di illegalità occorrono dei controlli, i quali ovviamente hanno un costo che andrà a scaricarsi sulle commissioni pagate dagli utenti. La digitalizzazione è già di per sé uno strumento di controllo, ma il controllo del controllo apre nuovi margini al business; tanto c’è l’utente che paga. Alla fine anche il reddito di cittadinanza si renderà digeribile per il nostro establishment se ci si metterà su un bel business del controllo digitale, preferibilmente costosissimo.

Ci si prospetta tutto un futuro distopico a base di cripto-valute virtuali, biopolitica digitalizzata e biometria. Beninteso, tutte queste visioni del futuro potrebbero rivelarsi solo promozioni pubblicitarie, con le quali le multinazionali del digitale stanno vendendo sogni di controllo assoluto ai governi. Quel che invece è certo riguarda il presente distopico, cioè il fatto che oggi i poveri siano costretti a pagare sempre di più per farsi controllare.