Le mine della Storia
Il critico anti-industriale statunitense Fredy Perlman scriveva, quarant’anni fa, che se vogliamo abbattere il Leviatano dobbiamo evadere dalla sua storia. In Against His-story, Against Leviathan, la «storia» del dominio è anche la sua «leggenda», cioè alienazione dell’agire umano e allo stesso tempo sostituzione della vita rimossa. La «cronaca» è il tempo leggendario per eccellenza, la rimozione realmente operante. La «memoria condivisa» è il punto di intersezione tra giornalismo e storiografia, cioè il modo d’uso quotidiano di una falsificazione stratificata nel tempo.
Si sono sprecati, in questi mesi (a dire il vero di più all’inizio e poi di nuovo recentemente, con una lunga pausa in mezzo), i riferimenti politici e giornalistici al «modello Alto-Adige» come soluzione per il conflitto in Donbass. Ciò che questa «citazione all’ordine del giorno» di un evento passato rimuove, tuttavia, è proprio la storia, trasformata in leggenda.
Effettivamente, quella storia ha non poche assonanze con le tragiche vicende ucraine, ma solo a patto di raccontarla tutta. Quanto alla «memoria condivisa», basta passare dalle valli del Sudtirolo non dico a Venezia o a Firenze, ma anche solo a Bolzano per rendersi conto che le ferite della Storia (delle innumerevoli storie) non sono affatto condivise. Non a caso, per capire «quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato» (richiamando le parole che Carlo Levi, nel suo Cristo si è fermato a Eboli, riferiva ad altri paesi e ad altre valli) sono forse più utili alcuni romanzi di tanti lavori storici. Penso a Resto qui di Marco Balzano e a Eva dorme di Francesca Melandri.
Per capire il «modello Alto-Adige» è necessario parlare della Prima guerra mondiale («Alto-Adige» è la denominazione adottata per il Sudtirolo nel 1918 dall’«Ufficio di preparazione per il trattamento del germanesimo cisalpino», organo voluto dal governo Orlando e diretto dall’ultranazionalista Ettore Tolomei), del fascismo, dell’occupazione nazista del 1943-45, della perdurante discriminazione etnica e linguistica degli «allogeni» negli anni Cinquanta e Sessanta, dei sentimenti di rivalsa e di secessione pantirolese, e soprattutto della vera e propria guerra non ortodossa che lo Stato italiano ha condotto in quelle valli dopo la famosa Notte dei fuochi dell’11 giugno 1961 (quando furono dinamitate decine di tralicci). In seguito agli attentati compiuti dai «terroristi separatisti» – operai e soprattutto contadini, a cui i servizi segreti austriaci garantivano rifugio di là dal Brennero e che i gruppi neonazisti cercheranno costantemente di infiltrare e manovrare –, carabinieri e Alpini hanno eseguito nelle valli sudtirolesi operazioni di rastrellamento che ricordano l’Irlanda del Nord, e pratiche di tortura che ritroveremo poi contro i militanti della lotta armata in Italia; a condurre le operazioni di controguerriglia e terrorismo di Stato furono gli stessi uomini che confluiranno qualche anno dopo nell’Ufficio Affari Riservati, vera e propria centrale delle bombe di Piazza Fontana e non solo. L’«autonomia» per quei territori, i cui abitanti volevano a larga maggioranza l’annessione con l’Austria, non fu affatto una prova di moderazione e di intelligenza politica da parte di De Gasperi: fu una concessione necessaria per non perdere del tutto un bottino di guerra.
Il motivo per cui la maggioranza della popolazione di Bolzano – non a caso per decenni roccaforte del MSI – è di lingua italiana non è tanto diverso da quello per cui la maggior parte degli abitanti del Donbass è di lingua russa. Per «italianizzare» una popolazione al 90 per cento tedesca, il fascismo – oltre a vietarne la lingua, cambiare cognomi e toponomastica, proibire le scuole e perseguitare gli insegnanti – fece trasferire nel capoluogo «altoatesino» personale amministrativo e operai provenienti da altre regione d’Italia (soprattutto del Sud); dopo le uccisioni e le deportazioni di contadini nella e dall’Ucraina degli anni Trenta, il regime staliniano vi fece trasferire popolazioni provenienti dalla Russia. Se negli anni Sessanta la ribellione sudtirolese avesse determinato – grazie a un intervento da parte dello Stato austriaco, eventualità all’epoca tutt’altro che esclusa – l’annessione del Tirolo del Sud al Tirolo del Nord, il settore più revanscista e nazionalista sarebbe stato rappresentato dai bolzanini di lingua italiana, sulle cui rivendicazioni si sarebbero propagandisticamente appoggiate le contro-manovre militari dello Stato italiano.
Ma le assonanze storiche non finiscono qui. Quando l’accordo nazi-fascista stabilì per l’«Alto-Adige» la politica dell’«Opzione», quasi il 90 per cento dei sudtirolesi decise per il trasferimento nel Reich (e chi non optò venne socialmente discriminato dal resto degli «optanti»). Le aperte simpatie naziste durante l’Alpervorland hanno origini storiche che ricordano quelle banderiste nell’Ucraina degli anni Quaranta (benché la collaborazione sudtirolese nella persecuzione degli sparuti gruppi anti-nazisti locali non sia neanche lontanamente paragonabile ai massacri antisemiti compiuti dalle SS ucraine). La feroce repressione fascista in Sudtirolo – le scuole tedesche erano chiamate assai significativamente «catacombe» – farà accogliere come liberatori i soldati del Terzo Reich; sconfitta nel sangue l’insurrezione machnovista – proletaria, antinazionalista e sovietista –, il sentimento anti-bolscevico assumerà in una parte della popolazione ucraina (e non solo) caratteri nazionalisti e anti-russi.
In un caso si può dire che la Prima guerra mondiale – disfatta storica per tutto il movimento proletario – è stata la tragedia da cui sono discese tutte le altre. Nel secondo caso, che l’ingegneria sociale con cui il sistema dell’«elettrificazione senza i Soviet» ha affrontato il crogiuolo multinazionale dell’ex impero zarista ha nascosto sotto il terreno, come una mina, i drammi e i rancori della storia.
Lo Stato – la megamacchina politico-militare da cui discende la megamacchina tecno-industriale – è un freddo re Mida che trasforma in divisione, in sottomissione e in morte tutto quello che tocca. Traccia con il sangue e poi con i Trattati delle linee sulla carta geografica, creando nazioni al posto di comunità umane, servendosi di rivalità mai sopite per alimentare la propria potenza, concedendo o vietando diritti, usi e costumi. Fino a quando affida di nuovo alla guerra ciò che alla sua pace è sopravvissuto.
Mentre poveri e proletari sono ancora costretti ad ammazzarsi tra loro, e chiunque non si arruoli è spinto verso le nuove catacombe del dissenso clandestino, la storia del Leviatano ci suggerisce un unico grido di guerra: lo Stato, ecco il nemico!