Istantanee per le anime afflitte e per quelle esaltate
Pubblichiamo anche qui l’editoriale del numero 14 (Luglio 2022) della rivista anarchica “i giorni e le notti”. Il titolo è nostro.
1. Excusatio non petita. È passato un anno dall’ultimo numero della rivista. E che anno. Neanche il tempo di analizzare come l’Emergenza Covid-19 stesse affondando i propri artigli nelle relazioni sociali, nei sentimenti e nei corpi, che ci troviamo ai bordi della Terza Guerra mondiale. Mentre la spirale si fa sempre più veloce nei moti e sempre più imprevedibile negli effetti, non possiamo certo far rientrare – per forza e per pigrizia – l’inedito del presente storico dentro il già-visto. Il ritardo con cui usciamo è dovuto senz’altro a una serie di cause oggettive: il sequestro poliziesco-giudiziaro di materiali preparatòri e di articoli già pronti, gli impedimenti dovuti alle varie misure repressive, gli sforzi per mantenere comunque una presenza nelle strade. Ma le ragioni sono anche e soprattutto soggettive. L’assenza negli ultimi quattro anni di una riunione redazionale – nel senso umano e non tecnologico del termine: stare nello stesso luogo e discutere ad agio e a lungo – ha avuto un effetto sullo slancio, sulla qualità e sulla puntualità delle nostre riflessioni teoriche. Siamo di fronte a un passaggio epocale che non può essere affrontato da cervelli isolati che assemblano i rispettivi contributi. Soprattutto se non si vogliono evitare le domande scomode e difficili. Soprattutto se dalle risposte si fanno discendere i necessari orientamenti etico-pratici.
Ecco spiegati la composizione e i limiti del numero che avete tra le mani. Nonché la maggiore aperiodicità che la rivista avrà in futuro.
2. «Origine è la meta». Queste parole di Karl Kraus, che ritroviamo anche nelle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, vanno oggi applicate letteralmente alle dinamiche statali. Nelle Emergenze, il dominio ricapitola la violenza della propria origine storica, che la quotidianità capitalistica e la finzione democratica riescono in buona parte, almeno alle nostre latitudini, a nascondere. Per capire che l’origine dello Stato non è un evento lontano nel tempo, ma una sorta di vortice sempre operante, non è necessaria la radicalità del rivoluzionario; può bastare anche lo sguardo di uno storico in grado di guardare di sbieco i materiali già disponibili.
Nel 2008, Carlo Ginzburg ha scritto un breve quanto denso saggio dal titolo Rileggere Hobbes oggi (raccolto poi nel 2015 nel volume Paura reverenza terrore. Cinque saggi di iconografia politica). Analizzando il frontespizio del Leviatano e soffermandosi su alcune scelte lessicali di Hobbes traduttore di Tucidide, questo importante storico rinascentista, nonché originale indagatore degli atteggiamenti religiosi e delle credenze popolari agli esordi dell’età moderna, ha intravisto… i giorni nostri. Secondo Ginzburg l’esempio storico che Hobbes ha in mente – senza mai citarlo –, quando scrive di quel feroce «stato di natura» per sfuggire al quale gli umani avrebbero dato origine allo Stato, è la peste ateniese raccontata da Tucidide. «Nell’Atene devastata dalla peste la legge non c’è più, nello stato di natura la legge non c’è ancora», riassume lo storico. Alla «reciproca paura» gli umani preferiscono, secondo la fin troppo nota teoria hobbesiana, la comune sottomissione al Levitano. Quasi nessuno aveva notato che nella raffigurazione di quest’ultimo si possono scorgere, sotto il corpo dello Stato formato dalla moltitudine dei sudditi, i profili «alti tre millimetri» dei medici della peste. Il corpo artificiale dello Stato s’impone sullo sfondo di un’epidemia, quando ogni contatto tra i corpi umani è fonte di terrore. Un balzo fuori dai libri di filosofia politica, dentro la nostra recente esperienza.
Hobbes rende l’espressione di Tucidide «tenere a freno» (cosa che, nell’anomia provocata dalla peste, né le leggi della città né quelle degli dèi riescono a fare) con «incutere soggezione» (to awe). Una scelta lessicale gravida di futuro, ci racconta Ginzburg. Il bombardamento statunitense di Baghdad del marzo 2003 era stato battezzato Shock and Awe («colpire e incutere soggezione»). Harlan Ullman, l’analista americano inventore di questa formula, nel 1995, si riferiva esplicitamente al bombardamento di Hiroshima come modello di strategia.
Dalla «guerra al virus» alla comunicazione bellica, dal conflitto militare in Ucraina all’economia di guerra: eccoci in «un mondo in cui giganteschi Leviatani si divincolano convulsamente o stanno acquattati».
Così concludeva, quattordici anni fa, lo storico torinese: «Supponiamo che la degradazione dell’ambiente aumenti fino a raggiungere livelli oggi impensabili. L’inquinamento di aria, acqua e terra finirebbe col minacciare la sopravvivenza di molte specie animali, compresa quella denominata Homo sapiens sapiens. A questo punto un controllo globale, capillare sul mondo e sui suoi abitanti diventerebbe inevitabile. La sopravvivenza del genere umano imporrebbe un patto simile a quello postulato da Hobbes: gli individui rinuncerebbero alle proprie libertà in favore di un super-Stato oppressivo, di un Leviatano infinitamente più potente di quelli passati».
Mentre in alcuni Paesi sono già operativi gli algoritmi per calcolare l’impronta di carbonio di ciascun cittadino, e alcuni Comuni italiani hanno introdotto patenti di civismo a punti, a maggio il Parlamento tedesco ha approvato una nuova legge che consente al governo di mettere sotto amministrazione fiduciaria le aziende energetiche se «la sicurezza dell’approvvigionamento è a rischio».
Ha riassunto qualcuno: «razionamento di cibo ed energia, immiserimento di massa, credito sociale e controllo monetario attraverso le valute digitali delle banche centrali sono da tempo ingredienti fondamentali della ricetta capitalistica del futuro». Shock and Awe.
3. «Arriverà la realtà e ci troverà addormentati», scriveva Santiago Alba Rico una quindicina di anni fa. Cullati nell’illusione che i costi dello sviluppo tecnologico sarebbero sempre stati scaricati altrove, i civilizzati ritenevano ormai più probabile morire di noia che di fame. Dietro la disponibilità delle materie prime – questa base ben concreta senza la quale non si dànno né virtualità digitale né speculazione finanziaria – c’erano rapporti di forza economico-militari che i padroni dell’Occidente consideravano scontati. Poi è arrivata una potenza nucleare, semi-coloniale sul piano tecno-industriale ma semi-monopolista su quello energetico, decisa a rinegoziare – per sé e per altri Leviatani – i dividendi del saccheggio capitalistico. E allora, dopo un trentennio di chiacchiere sui valori liberali e sulla loro benefica affermazione ai quattro angoli del Pianeta, all’ombra di guerre “umanitarie” (tanto universali nelle pretese quanto asimmetriche sia nei mezzi sia nei costi umani), irrompe brutalmente la questione (“classico-novecentesca” quant’altre mai) dei rapporti di forza fra gli Stati, nel loro mutevole corso storico. Questo dice, innanzitutto, il conflitto in Ucraina.
Negli ultimi 50 anni, il debito federale degli Stati Uniti è aumentato di 75 volte (da 400 miliardi di dollari a 30 mila miliardi), mentre il loro debito totale (privato e pubblico) è cresciuto di 53 volte, superando i 90 mila miliardi di dollari. Una tale “bolla” si regge unicamente sul fatto che a pagare l’esorbitante conto sono gli altri Paesi: 800 basi militari tra Europa e Asia, la macchina bellica più imponente e più costosa della storia, sono lì a garantirlo. Tra un capitalismo (tecno-)finanziario militarizzato (blocco occidentale) e un capitalismo più tradizionalmente industriale (blocco orientale) è ormai guerra aperta: economica, mediatica, alimentare, biologica, militare. Gli stati di emergenza che si susseguono (e si susseguiranno) hanno la funzione di contenere e occultare la bancarotta finanziaria e insieme di accelerare questa resa dei conti fra i diversi centri gravitazionali dell’economia capitalistica. Una spirale che inghiotte ogni forma di vita non del tutto mercificata.
Noi, qui in basso, non siamo messi molto bene (è il minimo che si possa dire). Ma per i proprietari della società il futuro non è meno fosco. Costretti a impiegare mezzi sempre più smisurati, sembrano ormai incapaci di individuare e perseguire dei fini che non determinino a loro volta conseguenze rovinose. Puoi intascare miliardi di euro scommettendo in borsa – grazie alla potenza di calcolo delle macchine – su siccità o epidemie o sul protrarsi di un conflitto, ma per stampare quel denaro “dal nulla” lo Stato che ti garantisce gli affari deve avere il controllo reale delle risorse. Altrimenti succede quanto sta succedendo ai padroni europei di fronte al gas, ai fertilizzanti o al nichel russi: è arrivata la realtà e li ha trovati addormentati. La predazione capitalistica ha ormai davanti a sé il compito che Marx attribuiva alla classe proletaria: diventare tutto, o non essere nulla.
Per questo i padroni della tecnologia informatica sognano altri Pianeti, senza mai abbandonare la Terra. Mentre spingono oltre ogni limite la colonizzazione dello spazio e l’artificializzazione della vita, acquistano in ogni continente vasti territori a uso agricolo. L’abbondanza di paccottiglia tecnologica ha il suo rovescio nell’amministrazione della scarsità e della fame. Come milioni di poveri stanno sperimentando, le carestie sono un ottimo affare per chi controlla il grano (il cui mercato è oggi in mano quasi interamente a quattro multinazionali), nonché un’occasione per lanciare su scala di massa le nuove meraviglie della biologia sintetica (come le bistecche artificiali della Fondazione Bill & Melinda Gates).
Mentre milioni di persone in tutto il mondo cercano di sottrarre i propri corpi agli esperimenti biotecnologici, rivolte contro il caroviveri scoppiano in Iran, Cile, Kenya, Perú, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Libano, Ecuador.
Transumanesimo e miseria. La sveglia è in arrivo anche alle nostre latitudini.
4. Un «fanale oscuro» che «getta tenebra su tutti gli oggetti della conoscenza». Soltanto il genio di Baudelaire poteva immaginare una luce che proietta tenebra. Di cosa parla il poeta? Del progresso.
La macchina tecno-industriale affinatasi negli ultimi due secoli prosegue e amplifica la propria violenza originaria. Il suo tempo non è né omogeneo né lineare, bensì stratificato. Spesso i suoi mezzi più innovativi non scalzano quelli più arcaici; li inglobano.
Nulla lo dimostra meglio del conflitto in Ucraina, il quale sembra affastellare e mettere in evidenza diverse epoche della storia del dominio.
Si tratta di una “guerra di materiali”, ovverosia di trincea e logoramento, che ricorda, forse come nessun altro conflitto degli ultimi decenni, la Prima Guerra mondiale. Come mostra anche il linguaggio impiegato dagli antimilitaristi, nel quale ricorrono parole come disfattismo e diserzione; riferite ai conflitti del passato prossimo, simili parole avevano una valenza decisamente più allusiva e meno concreta. Circa 200 mila giovani hanno abbandonato in questi mesi la Russia per sottrarsi a un’eventuale mobilitazione generale. Uno scenario, anche questo, che fa ripiombare in pieno Novecento.
Tuttavia, appena ci si alza dal campo di battaglia, o si scende al di sotto, appaiono altri tempi storici.
In Ucraina, oltre a gasdotti e centrali nucleari, ci sono alcuni dei maggiori depositi di plutonio e uranio arricchito al mondo. Sono la ricerca e l’industria atomiche sviluppatesi negli ultimi settant’anni ad aver trasformato quella terra in una delle aree più pericolose del Pianeta. Le possibili catastrofi ambientali fanno impallidire le armi chimiche del ’14-18. Per non parlare dell’impiego di armi atomiche “tattiche” di cui i talk show russi parlano allegramente.
Dei circa 350 laboratori di ricerca biologica “duale” (a uso civile e militare) che gli Stati Uniti hanno costruito fuori dei propri confini, almeno una ventina sono in Ucraina. La guerra biologica – che le bio- e le nano-tecnologie stanno perfezionando sempre di più – sembra sopravanzare quella nucleare, senza tuttavia sostituirla, per un motivo ben preciso: con gli agenti patogeni si può lanciare il sasso e nascondere la mano. Non solo guerra sporca e ibrida, quindi, ma guerra camuffata da “evento naturale”, in cui virus ingegnerizzati e vaccini genetici sono prodotti negli stessi laboratori. E infatti nei laboratori ucraini troviamo Metabiota, un gigante biotecnologico che dichiara ufficialmente di voler «rendere il mondo più resiliente alle epidemie», e Myriad Genetics, colosso della ingegneria genetica, che annuncia sulla propria pagina web di «voler sbloccare il potere della genetica» (si tratta della stessa azienda che già una decina di anni fa aveva cercato di brevettare alcuni geni umani).
Se ci spostiamo nei cieli ucraini, entriamo nel futuro cibernetico. Oltre ai droni da ricognizione e ai missili ad attacco guidato russi; oltre ai droni-killer forniti all’esercito ucraino dal regime turco di Erdogan, in orbita troviamo fin dall’inizio del conflitto i satelliti Starlink di Elon Musk. Per la prima volta nella storia, una corporation mette ufficialmente a disposizione di uno Stato estero belligerante le proprie infrastrutture di comunicazione, che diventano così a tutti gli effetti armi da guerra. È grazie ai satelliti e ai terminali satellitari – dal momento che i cavi e i ripetitori delle telecomunicazioni sono stati distrutti dalle forze armate russe – che l’esercito ucraino individua gli obiettivi da colpire e trasmette i dispacci militari. È anche grazie agli informatici della SpaceX che l’esercito ucraino risponde alla cyber-war russa.
Ed è significativo che il Dipartimento USA, dopo aver affermato che quella di Musk era un’iniziativa privata, abbia dichiarato di recente che l’abbattimento dei suoi satelliti da parte dell’esercito russo equivarrebbe a un attacco militare agli Stati Uniti. Nella fusione tecno-militare tra impresa capitalistica e apparati di Stato, salta ogni distinzione tra collaboratore “umanitario”, contractor e combattente regolare.
La guerra «fino all’ultimo ucraino» era già stata anticipata, oltre che dal lavoro dei servizi segreti statunitensi e degli addestratori della NATO, dai piani incrociati del Fondo Monetario Internazionale e delle multinazionali occidentali. Metalli, terre rare, campi agricoli, cavie per l’industria farmaceutica, uteri per la maternità surrogata, cellule staminali per la biomedicina: un Paese trasformato in un grande magazzino, al confine tra il Nuovo Mondo coloniale e il Mondo Nuovo transumano.
Nel rapporto tra innovazione tecnologica e volontà di dominio, tra profitto industriale e mitologia politica, epoche diverse si stratificano dentro lo stesso presente storico. Così i missili ipersonici russi convivono senza problemi con i riferimenti putiniani a Pietro il Grande. Mentre ammalia in nome del futuro, la tenebra del fanale oscuro ha valore retroattivo.
5. «… l’alternativa non era un regime democratico; la sola alternativa era una dittatura militare di nazionalisti russi, latifondisti aristocratici e pogromisti». Questo ha scritto di recente uno storico a proposito della dittatura bolscevica. Soffocato nel sangue il tertium non datur della rivoluzione libertaria e autenticamente soviettista, l’alternativa era quella, checché ne dicano gli storici liberali.
L’epoca delle «alternative terribili» non si è affatto conclusa. Anzi. Ci stiamo entrando a folle velocità. Pensiamo agli ucraini, stretti tra il tallone di ferro russo e il “modello Israele” cui dicono di ispirarsi il comico Zelens’kyj e i suoi sceneggiatori; fra lo strapotere della polizia politica e la giornata di lavoro senz’alcun limite (come stabilito da una recente riforma di guerra del parlamento ucraino). Ma pensiamo anche ai proletari russi. Se all’ex capo del KGB subentrasse, per esempio, il blogger Naval’nyj, le enormi risorse di quel Paese sarebbero fagocitate dalla speculazione finanziaria occidentale. L’appoggio a Putin si basa in gran parte sul terrore di tornare all’epoca di Eltsin. Per un motivo simile, raccontano alcuni testimoni diretti, gli operai non sono entrati in azione durante la mobilitazione popolare e di quartiere – basata s’un deciso protagonismo femminile – degli anni scorsi in Bielorussia. Senza il finanziamento statale – in buona parte con soldi russi – molte delle industrie bielorusse verrebbero chiuse, con licenziamenti di massa. Ecco spiegato il “consenso” a quella carogna di Lukašėnka: per milioni di sfruttati l’alternativa “liberale” – con gli avvoltoi USA-NATO-UE sempre in agguato – sarebbe peggiore. Quella rivoluzionaria è una scommessa contro il Leviatano e la sua Storia che ben pochi scelgono a tavolino: «qualitativa e imprevedibile, enigmatica, plasmata da accelerazioni improvvise e periodi di apparente immobilità», essa è tuttavia l’ultima carta rimasta agli oppressi che vogliono smettere di esserlo e agli umani che vogliono restarlo. Lo scontro tra “valori” liberali e regimi autocratici va bene per i salotti televisivi. Nel mondo reale, la «democrazia del popolo dei signori», come mostrano in modo esemplare gli Stati Uniti e lo Stato di Israele, ha bisogno di un popolo dell’abisso, cioè di un’umanità di scarto.
La trasformazione autoritaria delle democrazie liberali, causa ed effetto di un flusso costante di emergenze globali, nonché espressione politica dell’hybris tecnologica, travolge ormai le alternative formali, perché in guerra non si discute: si serrano i ranghi.
6. «I nostri princìpi guidano i nostri passi quando le evidenze si eclissano». Le parole del reazionario colombiano Nicolás Gómez Dávila suonano singolarmente giuste anche per noi. I nostri princìpi umanistici e classisti, antistatali e antitecnologici, non sono elementi accessori del nostro agire. Sono come il fulminato di mercurio dentro un detonatore: senza, il materiale esplosivo non si innesca. In quei princìpi – distillato del dialogo tra lo spirito rivoluzionario e la sua storia – sta la possibile reciprocità tra compagni, conosciuti o ignoti, che si battono nelle diverse zone della Terra.
Il nostro odio assoluto nei confronti della guerra non riguarda solo la scia di distruzione, di morte e di avvelenamento nazionalista, oltreché ambientale, che questa lascia. Ancora più grave è il fatto che essa sottrae agli sfruttati in generale e ai rivoluzionari in particolare la loro arma più preziosa. Non si tratta della solidarietà – la quale presuppone un appoggio diretto e cosciente, il che è più l’eccezione che la regola sul piano internazionale delle lotte –, bensì, appunto, la reciprocità. Anche se non esiste tra noi alcun legame, agendo ognuno contro il “nostro” Stato e il “nostro” apparato tecno-industriale, andiamo verso lo stesso luogo: quello di un’emancipazione possibile. «Fai sì che la tua azione sovversiva possa valere come massima di un movimento universale»: così parla l’imperativo categorico nella sua versione internazionalista. Se un rivoluzionario di un Paese in guerra mi chiede – implicitamente con la sua pratica o esplicitamente con le sue parole – di non contrastare la “mia” borghesia che sta mandando aiuti militari; o addirittura di far pressione affinché il “mio” Stato intervenga direttamente nel conflitto, tra noi non salta solo la solidarietà possibile, ma anche la reciprocità necessaria. Lo posso aiutare malgrado e non grazie ai miei princìpi. Il che significa che se la situazione sociale nel “mio” Paese si facesse esplosiva anche a causa degli effetti di quella guerra, rischierei di trovarmi su posizioni incoerenti nell’attaccare il “mio” governo, con in mano un detonatore compromesso (cioè qualcosa di peggio del rimpianto di averlo innescato a vuoto). I princìpi che spingono all’azione fallimentare sono gli stessi che muovono quella che incontra la sua polveriera.
«È verità solo ciò che vale indistintamente per l’anima afflitta e per quella esaltata».