La solidarietà e il suo fantasma

Ripubblichiamo quasi integralmente un articolo uscito sul numero tre (febbraio 2017) della rivista anarchica “i giorni e le notti”. Ci sembrano riflessioni che non hanno perso nulla, purtroppo, della loro attualità. Anzi. Questo il nocciolo attorno a cui si sviluppa il ragionamento: «Le due forme di repressione [quella «sociale» e quella «selettiva»] evidentemente si condizionano a vicenda. Attaccando certe minoranze, il dominio si spiana la strada per un attacco più generalizzato, che si chiama ristrutturazione. Allo stesso tempo, più si compie il processo di ristrutturazione, più la minoranza risulta isolata, facile da individuare e da colpire. […] Più una minoranza è circondata dalla pace sociale, più deve trovare in se stessa le proprie forze, preservandole per la ripresa del conflitto. Solo che la forza rivoluzionaria, a differenza di quella dello Stato e del capitale, non è qualcosa che si accumula e che si custodisce gelosamente in cassaforte per tempi migliori. Resta tale solo in esercizio».

Pensiamo agli ultimi due anni. Quando si realizzano schedature e discriminazioni di massa, sospendendo migliaia di lavoratori; quando si pestano e si arrestano degli studenti scesi in piazza contro l’alternanaza scuola-lavoro; quando innocui professori universitari diventano oggetto di dossieraggio perché critici sull’invio di armi in Ucraina, la repressione selettiva verso gli anarchici compie essa stessa dei salti qualitativi, aprendo le porte del 41bis per un anarchico e seppellendo sotto condanne spropositate lui e altri due compagni. Tanto per fare un esempio: il reato di «strage politica» (art. 285), che prevede la condanna all’ergastolo, non è stato contestato nemmeno per la strage di piazza Fontana, ma viene ora riconosciuto per un attacco esplosivo che non ha provocato alcun ferito. Per fare un altro esempio: anche quando cade l’accusa di «strage», il risultato sono 28 anni di carcere (come nella recente condanna di Juan per l’azione contro la sede della Lega di Treviso). La legislazione d’emergenza – quel lungo testo unico di sicurezza che è iniziato nel 1975 e che non si è mai concluso – è pronta da tempo. Un sistema in guerra la spinge fin dove può. Cioè fin dove il conflitto sociale e le minoranze ribelli glielo permettono.

La solidarietà e il suo fantasma

L’anarchia è la solidarietà cosciente e voluta.

Errico Malatesta

In una prospettiva rivoluzionaria, ma anche solo di emancipazione, chiarirsi le idee sulla solidarietà è fondamentale. Senza il sentimento della solidarietà non si dà libera organizzazione delle lotte né della vita. I due aggettivi usati da Malatesta, «cosciente» e «voluta», non sono scelti a caso. La solidarietà incosciente non porta alla libertà, ma può ingenerare lo spirito di partito o addirittura di caserma, scadendo a mero fascio di reazioni. «Voluta» sta ad indicare che il sentimento della solidarietà non è una pura necessità naturale o sociale, la risultante automatica di certe condizioni oggettive, ma un prodotto della volontà. Non c’è patto, non c’è metodo decisionale, non c’è dichiarazione d’intenti che possano fare a meno della coscienza individuale e della volontà, della decisione determinata e caparbia. Senza quel sentimento voluto e cosciente ogni accordo diventa lettera morta, vuota retorica, cuore che smette di pulsare. Nel modo in cui si concepisce e si pratica la solidarietà fin da ora, nel mentre stesso delle lotte, si disegna la vita per cui ci battiamo.

Si possono distinguere due tipi di solidarietà: quella tra sfruttati e quella tra compagni. Ogni minoranza sovversiva, esposta per sua natura ai colpi della repressione, ha bisogno di intessere relazioni solidali come ha bisogno dell’aria. Il patto, esplicito o segreto, che unisce i congiurati è l’ordito della loro avventura, il discrimine che permette di ripugnare l’abiura e il tradimento. Fin dall’alba delle rivolte, il mutuo soccorso tra i rivoltosi è una regola scolpita nei cuori.

La repressione non è un fatto che colpisce solo anarchici e rivoluzionari, ma una tendenza costante del dominio, una pratica che accompagna sempre la produzione di pace sociale. Letta in tal senso, essa non si riduce al manganello o al carcere, ma è una panoplia di strumenti il cui scopo è isolare gli sfruttati, spezzare le loro reti di solidarietà, fiaccare o distruggere la loro combattività e le sue basi materiali, colonizzare il loro immaginario, indebolire o cancellare la loro memoria, frammentare la loro esperienza. La repressione rimpiazza certe immagini con altre, svuota i concetti, rovescia il senso di episodi e parole, smantella quartieri, ristruttura la produzione, rinnova il Diritto, cambia gli interventi polizieschi, detta le narrazioni mediatiche. «Il progresso non distrugge mai così a fondo come quando costruisce», scriveva Gomez Dávila. Anche la repressione agisce così: attacca la vita riottosa per sostituirla con quella docile, di modo che della prima si perda anche solo il ricordo. Se è vero che «l’urbanistica prolunga la lotta di classe nello spazio», per capire quante batoste ha preso la nostra classe basta farsi un giro per i quartieri.

Se la repressione sociale è tutto questo (cioè poliziotti, partiti, sindacati, mass media, educatori, urbanisti, giudici, secondini, storici, preti, psichiatri, mattoni e calcestruzzi…), esiste anche una repressione selettiva, riservata cioè alle minoranze dei refrattari e dei sovversivi. Le due forme di repressione evidentemente si condizionano a vicenda. Attaccando certe minoranze, il dominio si spiana la strada per un attacco più generalizzato, che si chiama ristrutturazione. Allo stesso tempo, più si compie il processo di ristrutturazione, più la minoranza risulta isolata, facile da individuare e da colpire.

Contrastare la repressione sociale è quindi anche questione di autodifesa per la minoranza ribelle. Rintuzzare la repressione selettiva è una necessità per continuare ad attaccare. Più una minoranza è circondata dalla pace sociale, più deve trovare in se stessa le proprie forze, preservandole per la ripresa del conflitto. Solo che la forza rivoluzionaria, a differenza di quella dello Stato e del capitale, non è qualcosa che si accumula e che si custodisce gelosamente in cassaforte per tempi migliori. Resta tale solo in esercizio.

La solidarietà è il respiro di quell’esercizio. Quanto il respiro è corto o lungo dipende dall’esercizio, che a sua volta è profondamente legato alla fase storica in cui si vive. Tenersi fermi contro venti e maree è l’unica cosa che si riesca a fare in certe fasi. Ma per farlo, occorre lanciare messaggi al mondo, se non altro per accendere delle torce attorno alle quali possa raccogliersi, idealmente se non fisicamente, qualcun altro che ha abbandonato la terraferma o che è tentato di farlo. La solidarietà è la mano che accende la torcia che l’altra tiene; è la mano che raccoglie la torcia che l’altra, colpita, lascia cadere.

Solidarietà contro, solidarietà con

Contrastare la repressione – sociale quanto selettiva – non significa per forza condividere idee e pratiche di chi viene di volta in volta colpito. Fermarsi al moto spontaneo di simpatia è assai riduttivo stante la natura complessiva del fatto repressivo. Anzi, può portare ad assecondare involontariamente i progetti del potere, che si premura assai spesso di sperimentare certe pratiche repressive su categorie di persone preventivamente linciate o eticamente indifendibili. Per questo è necessario saper distinguere la solidarietà-contro dalla solidarietà-con.

Si può essere solidali contro la repressione senza essere solidali con gli individui o i movimenti che la repressione colpisce. Il che significa che le modalità di quella solidarietà saranno autonome. Non avere idee su come intervenire è spesso una mancanza di analisi (a cui non si rimedia in quattro e quattr’otto), che l’alibi politico viene a coprire.

Questo ragionamento non vale solo nei confronti di certe componenti sociali – gli ultras, poniamo, o chi viene accusato di reati di mafia –, ma anche per le componenti rivoluzionarie autoritarie. Dal momento che lo Stato non le attacca certo perché sono autoritarie, ma perché intralciano i suoi piani, quell’attacco è rivolto anche verso di noi. Solidali contro la repressione che le colpisce, dobbiamo stare attenti a non portare acqua ai loro mulini autoritari, differenziandoci sia nei metodi sia nei discorsi.

Questo ragionamento vale ugualmente sul piano internazionale, perché il piano della repressione è anche tale. Quando mancano informazioni precise su chi e come sta resistendo a determinati progetti genocidi del capitale, c’è un modo di essere solidali con cui non si sbaglia mai: attaccare gli interessi del capitale, trovando le corrispondenze tra chi massacra là e chi sfrutta qua. Allo stesso tempo, la discussione approfondita sul fatto di sostenere o meno certe resistenze (per via delle componenti più o meno autoritarie che le dirigono o sembrano dirigerle) dovrebbe avvenire prima che le dette resistenze siano già state massacrate; e soprattutto, dubbi o critiche su obiettivi e forme organizzative di certi movimenti non dovrebbero mai diventare una scusa per tacere sui loro boia.

Veniamo all’ambito della solidarietà-con. A volte, invece, si contrasta la repressione perché si è solidali con le esperienze di lotta o con gli individui che questa colpisce. L’attacco alla repressione è dunque parte del progetto di allargare ‒ sia in senso spaziale sia in senso qualitativo ‒ determinate lotte sociali, il cui carattere essenziale è l’autorganizzazione. Questo carattere raramente si presenta in modo “puro”, dal momento che spesso vi si mescolano componenti politiche. L’attacco alla repressione ha anche il senso di rafforzare la tensione autorganizzativa presente nelle lotte. La natura spuria di certe esperienze, purtroppo, diventa spesso un alibi all’inazione da parte di chi vorrebbe tutto ben apparecchiato prima di decidersi. La condivisione di aspirazioni e di metodi arriva, quando arriva, strada facendo. Il nostro intervento dovrebbe essere di stimolo.

Apparentemente più semplice è la solidarietà fra anarchici.

A parte la banale constatazione che l’etichetta non fa il vino, la solidarietà rivoluzionaria è davvero significativa quando è parte integrante dell’affinità progettuale, la quale non ha nemmeno bisogno di attestati pubblici: è continuazione del progetto comune.

Detto questo, affermare che esistano solo gli sfruttati in generale o gli affini in particolare è tagliare il problema con l’accetta.

Non porsi il problema della solidarietà nei confronti di compagni colpiti dalla repressione con cui si ha ben poca affinità ci sembra sbagliato. Non tanto sul piano etico (le ingiustizie che subiscono gli anarchici non sono certo le peggiori del mondo), quanto sul piano pratico dell’autodifesa collettiva. La repressione selettiva si approfondisce ogni volta che non incontra ostacoli.

Tenendo presente il ragionamento fatto sopra, è sempre possibile rispondere a un attacco repressivo senza sottolineare una vicinanza che non c’è. In questo caso, l’espressione secondo cui la miglior solidarietà è continuare le lotte è generica e poco operativa. Quali lotte? Quelle del compagno colpito? E se non le condivido? Le lotte in generale? Quindi continuo bellamente a fare quello che stavo già facendo?

Teniamo presente che non sempre si viene arrestati per delle lotte specifiche e che le accuse le formula comunque lo Stato. Potrei non condividere l’azione di cui questo o quel compagno viene accusato, oppure posso condividere pienamente l’azione in sé e non condividere ciò che ne dice l’accusato.

Capita che certe azioni vengano addirittura rovinate dai discorsi con cui vengono difese. Nella solidarietà ognuno inserisce il proprio progetto. Ma far coincidere solidarietà e affinità renderebbe il movimento specifico (e anche quello reale) un insieme di conventicole. A volte si tratta anche semplicemente di garantire l’incolumità fisica di un compagno.

Questa parola, «compagno», non va né sminuita né sovraccaricata.

Aver pensato troppo spesso solo ai “propri” compagni ha fatto sì che si sia perso il sentimento della solidarietà, rafforzando la repressione.

Si tratta di problemi complessi, non scollegati dall’insieme generale del conflitto. Reagire alla repressione ‒ per davvero, non a chiacchiere ‒ assorbe energie preziose, che vengono sottratte a progetti i cui tempi non sono immediati. Troppe digressioni portano fuori strada. La divisione dei compiti, senza specialismi, può aiutare a trovare il giusto equilibrio.

Le cose e le parole

La repressione di attività dalle aspirazioni sovversive e più in generale di ogni lotta, anche solo parziale o rivendicativa, non è mai un fatto puramente militare, ma ha anche un carattere ideologico e politico. Altrimenti non si spiegherebbe come mai lo Stato non mitragli sistematicamente qualsiasi manifestazione, oppure non rinchiuda chiunque manifesti delle idee di ribellione.

Se ciò raggiunge il suo massimo livello nelle democrazie, neanche le peggiori dittature, con il loro massiccio investimento nella propaganda, possono fare a meno d’una narrazione della vita e delle attività dei ribelli, ovviamente in senso denigratorio e peggiorativo.

Il gioco, in tutte le sue molteplici varianti, persegue sempre il medesimo obiettivo: trasformare i nemici della classe dominante in nemici di chiunque. Per fare un esempio: quante volte abbiamo sentito la retorica giornalistica scagliarsi contro azioni palesemente indirizzate verso uomini o strutture del potere, dicendo che anche dei semplici passanti potevano rimanere feriti?

Il fatto che questo, per delle scelte operative ben precise, non accada mai (o quasi), non intacca minimamente la sfacciataggine degli scribacchini prezzolati, i quali non hanno certo il compito di far riflettere, ma piuttosto di disinnescare preventivamente qualsiasi moto di solidarietà o di simpatia nei confronti dei ribelli.

Non c’è dunque repressione delle lotte che non si accompagni e non sia più o meno preparata da una retorica che le deformi. L’uso del linguaggio ne è parte integrante, perché la scelta delle parole e la determinazione del loro senso contengono una certa raffigurazione del mondo. Tutti appoggeranno le guerre se queste verranno chiamate missioni umanitarie e di pace. Nessuno desidererà l’anarchia se questa parola evocherà soltanto il pericolo di venire sgozzati per strada dal primo sconosciuto.

È nell’atto di nominare determinati fatti con determinate parole, stringendoli in un vincolo pressoché indissolubile, che si costruisce socialmente il senso degli avvenimenti e si determinano i moti dell’animo negli esseri umani. Più che a definire dei concetti, la lingua di legno del dominio mira a codificare delle percezioni sociali. L’applicazione sistematica ai rivoluzionari della categoria di terrorismo, per esempio, non è tanto pericolosa perché concettualmente scorretta – laddove per terrorismo si intenda una violenza indiscriminata e volta alla conquista e al mantenimento del potere – ma perché ascrive i rivoluzionari allo stesso cartello dei loro peggiori nemici (Servizi Segreti, fascisti, integralisti religiosi…) ed evoca immagini di massacri nel mucchio.

In questo modo, sul piano della percezione, il regicidio di Gaetano Bresci e la notte del Bataclan, il ferimento di Adinolfi e la strage di Piazza Fontana si confondono in un’unica cortina fumogena che impedisce di distinguere la violenza mirata dalla violenza indiscriminata, la violenza liberatrice dallo stragismo di Stato.

I ribelli, dunque, devono tenere ben presente che ci si batte anche su questo piano; il che, da un certo punto di vista, gioca anche a loro vantaggio. Se il conflitto con lo Stato vedesse contrapporsi solo noi e i nostri nemici, e se questo avvenisse su un piano esclusivamente militare, questi non impiegherebbero molto tempo ad avere ragione di noi, vista l’enorme disparità di uomini e mezzi.

Se possiamo ancora batterci e giocarcela, è perché attorno a noi c’è un mondo, ovvero miliardi di esseri umani che, nella loro stragrande maggioranza, subiscono lo sfruttamento e l’oppressione, e possono avere tutto l’interesse a rivoltarsi al nostro fianco. La percezione di noi e delle nostre lotte, da questo punto di vista, è più che importante: è sostanzialmente determinante.

Dobbiamo quindi cercare di rappresentarci come belli, puliti e buoni, quando il potere ci dipinge come brutti, sporchi e cattivi? Nient’affatto.

La nostra etica non ha niente a che fare con la morale di questa società fondata sul dominio. Ma non possiamo lasciare che siano solo i nostri nemici a parlare di noi e quindi, di fatto, a parlare per noi. Piuttosto ostacolare, incrinare, sovvertire la narrazione del potere, sforzandosi di rovesciarla in un discorso nostro, che non perda mai di vista quanto ci sta a cuore.

Quando gli sgherri del potere bussano alle nostre porte per presentarci il conto, la repressione non cerca “solo” di privarci della libertà, ma soprattutto di chiudere in un angolo le nostre prospettive.

Le relazioni degli sbirri e i dispositivi dei togati di turno, con l’indispensabile ausilio della canea mediatica, imbastiscono il consueto spettacolo. Ce n’è per tutti i gusti: case che si trasformano in “covi”, compagni convertiti in “capi” e “gregari”, azioni mirate che divengono tentativi di provocare stragi indiscriminate… Saper ristabilire alcune verità e ribadire con forza alcuni princìpi, tenendo questa urgenza ben distinta da un facile innocentismo, dovrebbe essere il minimo. Ma a volte si può fare di più e di meglio: si può uscire dall’angolo in cui la repressione cerca di relegarci, scegliendo con intelligenza il proprio angolo di contrattacco.

Può essere, ad esempio, che il nemico scelga di colpirci anche per alcune azioni legate a percorsi di lotta che riteniamo particolarmente significativi, o particolarmente “scomodi” per la controparte. Forse è proprio da lì, allora, che conviene ripartire. In questo modo, se la nostra controffensiva ingranerà nel modo giusto, non solo il nemico dovrà pagare un prezzo, ma si preciserà, volta per volta, il senso dell’adagio per il quale “combattere la repressione significa continuare la lotta”.

Una risposta mirata alla repressione non solo aiuterebbe il gruppo o il “giro” di compagni colpiti a proseguire sulla propria strada, ma darebbe anche un’indicazione intellegibile a tutti gli altri compagni su come e dove indirizzare la propria collera, dando alla solidarietà più precisione e concretezza.

Sia chiaro, qui non si intende approntare un ricettario buono per tutte le stagioni, piuttosto buttare sul tavolo alcune suggestioni per cominciare a ragionare davvero.

Anche se, come affermava un poeta anarchico, chi lotta per la libertà parla meglio di chi costruisce prigioni, contrastare la narrazione repressiva non significa battere il potere sul piano delle parole: si tratta al contrario di un’attività prevalentemente pratica, che trova però le proprie basi in un’analisi lucida.

Cercare di capire che cosa il dominio cerca di ottenere con un’operazione repressiva è la premessa necessaria a un’azione mirata, efficace, spiazzante, che intrecci pensiero e dinamite, iniziativa individuale e incontri, poesia e rabbia.

La repressione bisogna prima di tutto saperla leggere.

Chi affossa ogni dibattito nel pantano delle frasi fatte, dicendo per esempio che non c’è da stupirsi se il potere reprime chi lo combatte, non dà un buon aiuto alla lotta per la libertà.

[…]

Mutare di segno

La forza dello Stato deriva dall’unione e dal coordinamento, in senso gerarchico e autoritario, di una vasta gamma di forze diverse. Lo Stato è il manganello del gendarme e il centone del giurista, il fucile del soldato e la lezione dell’educatore, la retorica del politico e il denaro dell’impresa, il raid fascista e la penna del giornalista che lo prepara e giustifica, la ruspa che distrugge un quartiere popolare e il progetto dell’architetto che ne delinea la riqualificazione…

Se ci rifacciamo all’etimo della parola solidarietà – dal latino solidus: compatto e coeso – la classe dominante può apparirci ben “solidale” al proprio interno. Specularmente, la debolezza del nostro campo di fronte agli attacchi del potere può essere in buona parte ricondotta alla disgregazione di un sentimento di appartenenza che, per esistere, non può fare a meno di solidificarsi nella materialità dell’azione e dell’organizzazione. Ma se nel campo nemico la “solidarietà” ha il carattere freddo e impersonale di quel freddo mostro che è lo Stato, nel nostro campo la solidarietà non può che mutare di segno, facendosi cosciente e voluta. Da questo punto di vista, la rassegnazione e l’inazione con cui a volte accogliamo le carcerazioni dei nostri compagni, quasi queste fossero parte d’una normalità ineluttabile e necessaria che introiettiamo come tale, non fa molto onore alle nostre idee, né ci rende particolarmente credibili all’interno del nostro campo – quello degli sfruttati che vogliono farla finita con lo sfruttamento.

Chi può avere interesse o voglia di rivoltarsi al nostro fianco, se non ci vede muovere un dito per chi ci è più vicino quanto a affetti, idee, progetti? Chi verrebbe con noi a fare una passeggiata in un bosco pericoloso, sapendo che abbiamo lasciato dei nostri amici tra le fauci di un orso? E con quale spirito ritorneremo sui sentieri?

Movimento anarchico specifico e “leghe di resistenza” dovrebbero rafforzarsi e completarsi a vicenda. Difficile rilanciare una trasformazione rivoluzionaria e attaccare, se a battersi restano solo pochi gruppi di mohicani in una prateria dove il nemico ha già fatto terra bruciata. Impossibile che dalla semplice resistenza si arrivi alla rivoluzione, e difficile alla lunga anche resistere, senza il fiato lungo e le “fughe in avanti” dei rivoluzionari. La solidarietà cosciente e voluta dovrebbe essere la linfa di entrambi, a entrambi fornendo una solidità di diverso genere, quindi un diverso genere di forza: l’orizzontalità e la multiformità di chi si batte per una “società degli individui”, contro la società che incatena gli individui associandoli loro malgrado.

Insistere in via esclusiva sulle lotte sociali, lasciando indietro chi, colpito dalla repressione, non può essere ricondotto a quelle lotte; oppure, viceversa, intendere quella contro la repressione come lotta “più radicale delle altre” per statuto – una sorta di equivalente della lotta allo Stato – sono due approcci specularmente carenti, figli d’una stessa indifferenza in materia di movimento. L’essere movimento specifico non può non prendersi cura delle sorti dei propri compagni di idee e di lotte, cercando di strapparli al nemico. Ma questo approccio, a ben vedere, ha più spesso un carattere rivendicativo che di attacco frontale.

Riflettiamoci un momento. Perché mai lo Stato non dovrebbe reprimere? Se la repressione è connaturata all’idea stessa di Stato, che senso ha contrastare la repressione senza abbattere lo Stato? Ma con queste tautologie non si avanza d’un passo. La “cosa” Stato reprime sempre sulla base dei rapporti di forza esistenti. La lotta contra la repressione, per quanto radicali siano le sue forme, avrà sempre, indirettamente, un carattere rivendicativo: la difesa di certi spazi e di certe pratiche, la conquista di maggiore libertà e la resistenza contro i tentativi di restringerla. Il che è ciò che avviene in tutte le lotte di emancipazione, fino a che non s’innesca un processo insurrezionale, quando ciò che veniva contrastato separatamente viene attaccato in blocco. Tra il 2003 e il 2004, in Grecia, una campagna di solidarietà anarchica – che vide mettere in campo cortei, occupazioni di edifici istituzionali, bombe e attacchi notturni – riuscì a far mettere in libertà “i sette di Salonicco”, arrestati durante una violenta manifestazione contro un summit dell’Unione Europea. La Grecia, dove da anni agisce un movimento anarchico battagliero e storicamente solidale al proprio interno, fornisce molti esempi di questo tipo. In tempi più recenti, una mobilitazione di prigionieri prevalentemente rivoluzionari, sostenuti all’esterno dall’azione del movimento anarchico, è riuscito a strappare allo Stato l’abolizione del reato di travisamento – che era penalmente “pesante”, da quelle parti – oltre che una serie di conquiste all’interno delle carceri. Pensiamo invece a cosa non si è fatto qua in Italia per gli arrestati di Genova 2001, e alle lunghe carcerazioni che ne sono seguite. Pensiamo al poco che si è fatto per il 15 ottobre, o per l’operazione Ardire, o… l’elenco sarebbe lungo. Pensiamo poi alle lotte dei carcerati, laddove manca quasi sempre un sostegno esterno che possa dirsi adeguato. Uno dei rari moti che ha prodotto degli effetti significativi (per citare i più evidenti: aperta rivendicazione del sabotaggio, pene storicamente basse per il reato di porto d’armi da guerra, arretramento dello Stato sull’aggravante di terrorismo) è stata la solidarietà per i “sette del compressore”1. Sono cose che fanno riflettere, e sulle quali sarà giocoforza ritornare. Siamo in grado di produrre una solidarietà concreta, che strappi qualche risultato, fuori dai contesti più allargati e “sociali”? Che conseguenze ha questo sulla nostra percezione delle nostre potenzialità? Non rischiamo di “rifugiarci” all’interno dei contesti più “allargati” non per una valutazione e una scelta autonome, ma per semplice incapacità di avanzare in modo significativo (anche contro la repressione) da soli? E non corriamo così anche il rischio opposto, quello di sbandierare una solidarietà radicalissima a parole, ma ben poco conseguente nei fatti? Se non vogliamo “abbassarci” a delle battaglie parziali, siamo in grado di mettere in campo la sola alternativa possibile: attaccare le caserme e le carceri, liberare materialmente i compagni? Teniamo a mente che anche il tempo è tiranno: più rinviamo un dibattito serio e complessivo, più sarà difficile intervenire.

Far sì che la solidarietà non sia solo un fantasma implica prepararsi da diversi punti di vista: ricominciare a ragionare sul rapporto tra le parole e le cose; conoscere bene il nemico, avere ben presenti i suoi uomini come la sua logistica, le sue retoriche come le sue infrastrutture; imparare ad annusare l’aria prima che la repressione arrivi, e quando questa arriva avere già un’idea di dove andare a battere; armonizzare le differenze a partire dall’approfondimento di problemi che ci riguardano tutti; ritrovare una consequenzialità tra ciò che si dice e ciò che si fa; riscoprire intelligenza, fantasia e coraggio.

Attaccare per difendersi, difendersi per continuare ad attaccare.


1 Riferimento a sette compagni anarchici (prima quattro e poi altri tre) arrestati nel 2014 con l’accusa di aver partecipato a un attacco incendiario contro il cantiere del TAV a Chiomonte, in Valsusa, nel corso del quale era stato distrutto, tra le altre attrezzature, un compressore. L’accusa iniziale di «attentato con finalità di terrorismo» – reato per il quale il tribunale di Treviso ha di recente condannato l’anarchico Juan Sorroche a 28 anni di carcere – è stata derubricata in «danneggiamento a mezzo di incendio», con pene che non hanno raggiunto i 4 anni. Non c’è dubbio che la vasta solidarietà nei confronti degli accusati ha avuto il suo peso.