Di eroi del recinto del consentito: una riflessione su repressione e solidarietà alle lotte al di là della sentenza a Mimmo Lucano
DI EROI E DEL RECINTO DEL CONSENTITO: una riflessione su repressione e solidarietà alle lotte al di là della sentenza a Mimmo Lucano.
Come è noto, pochi giorni fa il tribunale di Locri ha emesso una condanna per associazione a delinquere, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, truffa, peculato e abuso d’ufficio nei confronti di Mimmo Lucano, già sindaco di Riace. Una sentenza pesantissima che sta suscitando ampie critiche perché criminalizza la solidarietà ai migranti, mentre la politica strumentalizza l’intera vicenda per i soliti fini da populismo di bassa lega. Tanta la solidarietà che si sta sviluppando da nord a sud, tanta anche la gente in strada a sostegno di Lucano. D’altra parte, l’utilizzo di dispositivi giudiziari (penali e amministrativi) in senso repressivo e la tendenza della magistratura a punire in modo esemplare chi tenta di cambiare l’esistente, non sono certo cosa nuova. E’ raro però che venga loro data questa eco a livello mediatico, e che ci si mobiliti in modo così solerte per opporvisi (seppure ci sia da chiedersi con quale efficacia). Partendo da questa vicenda giudiziaria e dalla sua risonanza, ci sembra quindi utile interrogarsi su ciò che in pochi (per usare un eufemismo) hanno messo in evidenza, e cioè proprio questa iper-mediatizzazione e questa ondata di solidarietà che da diversi anni a questa parte accompagnano le vicissitudini dell’ex sindaco calabrese. In altre parole, ci pare necessario allargare il campo, e contestualizzare quanto ruota intorno a Riace e al suo ex sindaco all’interno non soltanto delle dinamiche repressive contro chi mette in discussione il sistema dei confini, ma anche l’apparato economico che lo sostiene e le dinamiche di potere che lo sorreggono, andando al di là del tanto decantato “modello Riace”.
Da diversi anni in Italia e più in generale lungo le rotte migratorie che arrivano in Europa esistono lotte radicali e autorganizzate contro le frontiere in tutte le loro manifestazioni (dai confini geopolitici tra stati, alle barriere burocratiche come i documenti che impediscono la libertà di movimento, passando per un sistema che mira al contenimento e al controllo delle vite altrui, come avviene dai centri di accoglienza ai campi di lavoro fino ai centri di detenzione e alle carceri). Lotte per l’accesso alla casa per tutt e contro lo sfruttamento sui luoghi di lavoro, per il libero accesso alle cure sanitarie senza ostacoli per nessun, contro la devastazione dei territori. E in moltissime di queste, protagoniste assolute sono le persone immigrate. Ma quante volte nei media mainstream si è parlato della repressione spropositata, aggravata da un retroterra razzista, paternalista e colonialista, che queste persone hanno subito per aver scelto di alzare la testa? Dei controlli continui sulla base del colore della pelle, dell’abbandono e dell’incuria, degli abusi fisici e verbali, dei fogli di via, dei processi, delle multe, delle revoche dei permessi, delle espulsioni, dei respingimenti in mare e per terra e delle deportazioni, delle carcerazioni fino ad arrivare, in diversi casi, alla morte?
Molto poco, ci sembra. Perfino quando queste lotte hanno avuto appunto esiti tragici, a partire da ciò che accade lungo la cosiddetta rotta libica, nel deserto e poi in mare. Decine di migliaia di morti, per limitarsi alle cifre di cui siamo a conoscenza, vittime del regime europeo dei confini che hanno sfidato con i loro corpi e la forza della loro determinazione. O come nel caso di Chaka, suicidato nel carcere dove stava in isolamento per aver partecipato alla rivolta nel campo per immigrati (un vero e proprio lager) dell’ex Caserma Serena, a Treviso, e delle migliaia di uomini e donne che negli anni si sono opposte alla detenzione amministrativa, ad una accoglienza che sa di carcere, alla segregazione in tutte le sue forme, ricevendo in cambio torture, espulsioni, e brutalità anche fatali (esempi recenti riguardano le lotte nel CPR di Torino, ma l’elenco è purtroppo sterminato). In tutti questi casi, non una parola è stata spesa da parte di personaggi pubblici, associazioni, ONG e testate giornalistiche, ma anche collettivi, che non si vedono spesso né a bloccare le strade, né fuori dalle prigioni in fiamme. Assistendo alle manifestazioni in solidarietà con Mimmo Lucano, allora, viene da chiedersi per quale motivo si scende in massa in strada in supporto ad una persona vittima di repressione giudiziaria, si scrivono comunicati e si creano campagne nazionali ma si sceglie di tacere e far cadere nel vuoto le gravissime forme di repressione nei confronti di chi porta avanti da anni lotte autorganizzate? Come si può essere antirazzisti e desiderare un mondo nuovo, dove ognuno abbia la possibilità di realizzare i propri desideri e dove vengano cambiate radicalmente le relazioni tra esseri umani, e non spendersi anche e soprattutto per queste lotte?
“Sei un eroe” si legge su alcuni striscioni di chi è sceso in strada in questi giorni. Ma la società in cui vogliamo vivere non ha bisogno di eroi, tutto il contrario. Avere un eroe a cui appellarsi è una forma di delega, un modo per pulirsi la coscienza in maniera poco impegnativa, senza che il proprio privilegio venga messo in discussione, senza che lo status quo venga realmente intaccato. Quella costruita dai media in questi anni e rafforzata ancor di più con l’arrivo della sentenza è una rappresentazione paternalista, tutta incentrata sulla figura individuale di un uomo bianco a cui si delega l’antirazzismo, dipingendolo come il salvatore – finendo peraltro per strumentalizzare dietro questo simbolo la persona in carne ed ossa, in maniera trasversale agli orientamenti politici. Il rischio che si corre, a nostro avviso, è che il caso Lucano e la narrazione che se ne fa distorcano la realtà, oscurando ciò per cui immigrati e solidali lottano davvero (l’abolizione del regime dei confini e non il suo maquillage) e schiacciandone le rivendicazioni per ridurle alla pretesa di realizzare un’ ”accoglienza di qualità”, “degna” e “rispettosa dei diritti”. “Il modello Riace” presentato come alternativa, l’utopia realizzata.
Ma si tratta di una visione miope e pericolosa. Miope, perché se davvero si vuole mettere in discussione il sistema dei confini, non si può prescindere dal considerare il complesso sistema di gestione della circolazione delle persone a livello transnazionale, a partire dai luoghi di origine di chi emigra, da secoli terra di conquiste e devastazione da parte del capitale globale. Un sistema che da un lato militarizza le frontiere e con leggi razziste impedisce la libertà di movimento, e dall’altro spudoratamente si avvale di forza lavoro ricattabile e a basso costo sulla quale far leva per la massimizzazione del profitto. Si tratta di un circolo vizioso al quale moltissimi cittadini extraeuropei (quelli poveri, s’intende) sono condannati una volta arrivati in Italia dopo mille peripezie e immani sofferenze: si entra e si esce dall’accoglienza spesso senza aver ricevuto la protezione internazionale, si perde il documento, si finisce a vivere in strada, ai margini delle città o in un ghetto, se non in un carcere o in un CPR. E’ quindi anche una visione pericolosa perché fissa nell’immaginario collettivo l’accoglienza “degna” (cioè un’accoglienza a cui si è comunque costretti come l’unico modo per sperare di avere un documento, e in cui si è si infantilizzati, ma almeno non si mangia cibo avariato e i bagni funzionano, e si fa qualche lavoretto per pochi spicci, forse meno devastante a livello fisico di quel che può essere il lavoro in campagna…La differenza sta tutta qui) come la frontiera massima dell’antirazzismo. Chi ha vissuto in accoglienza a Riace racconta che quel modello non si distaccava in fondo dal resto del sistema dell’accoglienza. Stesso controllo sulle vite, stesse regole che se non rispettate portavano a perdere il posto. Pensiamo a Becky Moses, morta in un incendio nell’inverno 2018 alla baraccopoli di San Ferdinando, dov’era finita dopo essere stata cacciata da Riace per aver ricevuto un diniego alla sua richiesta di asilo. Ricordiamo ancora la passerella con cui Lucano, accompagnato da altri VIP della politica antirazzista, visitava quella baraccopoli a pochi giorni dalla morte di un altro giovane uomo nell’ennesimo rogo divampato nella baraccopoli. Non una parola sulle lotte autorganizzate per case e documenti che da anni gli abitanti di quelle baraccopoli portavano avanti, ma proclami che anzi oscuravano le loro richieste promettendo un impegno duraturo ed assiduo che non si è mai concretizzato.
Si cancella così completamente dal registro del possibile una critica davvero radicale al sistema di controllo dei confini e facendo così il gioco del potere. Da un lato c’è chi si muove all’interno del sistema e delle regole consentite, che al massimo può manipolare per favorire qualche “fortunato”, in una sorta di sindrome di Schindler – e già questo basta per diventare impavidi eroi o pericolosi criminali, a seconda di quale rovescio della stessa medaglia si guardi. Dall’altro c’è chi invece è costretto a mettere davvero in discussione quel sistema, e chi sostiene questa lotta, senza peraltro affidarsi a protagonismi né deleghe. In questo caso, non solo si viene presi di mira dalle forse repressive in modo pervasivo, ma perdipiù anche ignorati. Chiunque porti avanti lotte radicali che mettono in gioco il proprio privilegio (ammesso che ce l’abbia) e la propria libertà e che provano a spingere più in là l’asticella del lecito e del consentito, non merita appoggio e solidarietà, né trova risonanza nei discorsi che occupano i social media, per quanto ci siano da anni compagn solidali che danno voce a queste lotte. Tutto va bene ed è accettato, purché stia all’interno del recinto. Ed ecco quindi l’effetto-Lucano: catalizzando l’attenzione su ciò che si dipinge come radicale lotta antirazzista, quando in realtà si tratta di tentativi di riformare un sistema concentrazionario, in cui la vita di chi emigra vale meno di zero almeno fino a quando non arriva nell’oasi del comune felice, si fa scomparire qualsiasi altra possibilità anche dall’immaginario. Nel registro del possibile, la massima aspirazione per l’antirazzismo è metterci una toppa.
Di accoglienza si muore, e per quanto possano esistere sistemi più virtuosi di altri, fin quando esiste un ente a cui lo stato delega la gestione delle vite delle persone, non ci si può liberare da contenimento, controllo e paternalismo. Non è dall’interno delle regole imposte che si può ribaltare realmente questo rapporto di forza, e questa forse è stata l’illusione di Mimmo Lucano. L’unico modo per ribaltare quel sistema è solidarizzare per distruggerlo, liberarsene, come dimostrano le decine e decine di lotte che hanno attraversato i centri di accoglienza e i CPR del paese perfino durante il periodo pandemico. In un clima in cui il discorso sulla regolarizzazione sembra sparito dall’agenda politica del paese, mentre continua lo stillicidio quotidiano dei morti sul lavoro, si aumentano i fondi all’agenzia per la sicurezza delle frontiere e crescono sempre più le disuguaglianze, più che mai serve guardarsi negli occhi, riconoscersi, non lasciare sol chi lotta. Mentre tutta l’attenzione va alla sentenza nei confronti di Mimmo Lucano, ci sono lavoratori in sciopero da giorni a Campobello di Mazara che chiedono case normali e non tende o centri di accoglienza; solidali che, nonostante la repressione che li ha colpiti, rioccupano spazi alla frontiera per sostenere chi vuole attraversarla; operai che sono stati lavoratori per mesi in presidio davanti ai cancelli delle aziende perché non accettavano di essere trattati come merce; persone che hanno occupato le strade fuori dai centri di accoglienza, protestato all’interno delle navi quarantena o dato fuoco a intere aree dei CPR e delle carceri, per far sì che non soltanto loro, ma nessun altr possa esservi rinchius. E molto altro ancora.
Ci auguriamo quindi che questa possa essere l’occasione per aprire riflessioni più ampie, non solo tra bianchi e bianche, non solo tra chi vive nelle stesse condizioni. Per quanto ci riguarda, sappiamo bene che le lotte autorganizzate contro le frontiere, per i documenti, le case, contro lo sfruttamento sul lavoro e la devastazione dei territori, sono un faro nella notte, sono ciò che ci permette di respirare. Non ci servono eroi ma la lucidità, la determinazione, la rabbia e l’amore di ciascun per spostare, ogni giorno un po’ di più, quell’asticella del consentito, liberando spazi per costruire relazioni rivoluzionarie, tra gli esseri umani e con il resto del pianeta.