Sul provvedimento di Sorveglianza Speciale disposto a Genova e sulla sua applicazione
Riceviamo e diffondiamo:
SUL PROVVEDIMENTO DI SORVEGLIANZA SPECIALE DISPOSTO A GENOVA E SULLA SUA APPLICAZIONE
Le osservazioni che seguono sono già state in buona parte espresse in testi precedenti; riproporle e puntualizzarle vuole essere, nelle intenzioni di chi scrive, un contributo alla riflessione e all’eventuale dibattito sull’argomento delle misure di prevenzione e limitazione della libertà che nell’ultimo periodo balzano sicuramente agli onori delle cronache di “movimento” per la frequenza con cui ne viene richiesta l’applicazione ai danni di anarchici ma non solo, anche sicuramente ai danni di tanti altri soggetti dell’antagonismo sociale in generale,
Il ricorso sempre più frequente alle misure di prevenzione nei confronti degli anarchici sta diventando una strategia repressiva ormai chiaramente consolidata, che evolve, secondo differenti modalità, dal successo o insuccesso di precedenti strategie repressive.
In questo senso nulla di nuovo o strano; la repressione è una condizione cronica per tutti coloro che non si rassegnano a conciliarsi con le prassi della dittatura democratica e capitalista. È questa un’amara considerazione ma è la rappresentazione più realistica di quello che succede ed è una consapevolezza imprescindibile; in questa che è una guerra, seppur a bassa intensità, risultare troppo ingenui e sprovveduti ha spesso l’effetto di disinnescare le potenzialità del conflitto.
Affrontare la repressione senza compromessi è l’unico modo per non tradire la tensione che l’ha provocata; non considerarne l’eventualità, non sostenere con adeguati strumenti di analisi e pratici e con determinazione le situazioni che ne derivano, ha l’effetto di compromettere il senso e l’efficacia dei percorsi passati e mettere sotto scacco la possibilità di quelli futuri, ridurre le lotte a mera rappresentazione, le idee a vaghi fantasmi.
Quando la macchina del dominio avanza con tutti i suoi apparati a fagocitare, come in questo caso, le vite dei compagni anche negli aspetti più quotidiani, può sembrare arduo opporvisi, ma nel nostro desiderio di libertà più dirompente, nell’odio verso l’autorità e nella solidarietà attiva possiamo trovare le leve adeguate ad incrinare il fronte del nemico.
Queste considerazioni non vogliono, quindi, essere recriminatorie o vittimistiche, semmai una descrizione del modo in cui, nel caso specifico genovese, questo provvedimento è maturato e viene applicato.
Il dispositivo della sorveglianza speciale ha una natura intrinsecamente priva di una forma dai contorni definiti, ambigua e discrezionale anche dal punto di vista del diritto; è una misura preventiva, quindi una sorta di processo all’idea, alle intenzioni; non è sempre e propriamente legata a reati specifici, mira a colpire una condotta di vita in conflitto con lo stato e le sue istituzioni, con la finalità di limitare la persona cui è destinata nella sua libertà di movimento, di espressione e di azione in generale; questa natura vaga ed elusiva fa sì che possa essere applicata in una ampia varietà di casi e modalità.
Nel caso dell’ambito anarchico si può pacificamente affermare che il suo uso recentemente più diffuso si collochi come perfezionamento della strategia repressive già ampiamente sperimentate dallo stato, cioè quella espressa attraverso l’ormai consueto ricorso alla serie dei reati associativi ( 270 cp & friends) e attraverso i reati di istigazione o associazione a delinquere; attraverso i vari gradi di giudizio, nei lunghi iter processuali che ne derivano, questi ignobili strumenti hanno dimostrato di perdere, in alcuni casi, parte della loro efficacia, almeno per quello che riguarda gli obiettivi forcaioli dello stato, e in più di una occasione le sbandierate inchieste per terrorismo hanno finito per sgonfiarsi almeno in parte. Non tutte purtroppo: per quanto in nessuna siano mai emerse prove oggettive ed inconfutabili a carico degli accusati, queste inchieste tracciano solchi e lasciano tangibili strascichi nelle vite dei compagni che vi rimangono coinvolti.
All’inizio del novembre 2020 viene notificata ad una compagna di Genova la richiesta di un provvedimento di sorveglianza speciale: il pubblico ministero Federico Manotti, stalker incallito che da anni molesta gli anarchici genovesi, calca la mano con una richiesta di massime restrizioni (obbligo di rientro notturno dalle 21 alle 6, obbligo di dimora nel comune, divieto di frequentare pregiudicati e persone colpite da misure cautelari, divieto di frequentare manifestazioni ed iniziative) per 5 anni. Da notare che il pm in questione è lo stesso che accusa i compagni Beppe, Natascia e Robert nell’inchiesta “Prometeo” e che ha appena ottenuto una condanna a 5 anni per Beppe sulla base di un castello accusatorio quanto mai opinabile.
Contestualmente salta fuori un’indagine, fino a quel momento sconosciuta, conclusasi con la richiesta, riferita al 2019, sempre da parte del solito Manotti, di misure cautelari a carico di alcuni anarchici con l’accusa di 270 bis per la supposta appartenenza ad una cellula di ispirazione FAI (Federazione Anarchica Informale) a Genova, e per una serie di attacchi ad antenne per telecomunicazioni avvenuti a Genova nel lasso di tempo di alcuni anni; questa istanza di misure cautelari risulta respinta e archiviata dal tribunale di Genova per mancanza di elementi indiziari concretamente attribuibili a qualcheduno degli imputati.
Abbiamo quindi il quadro della situazione: un Pm accanito che, seguendo le linee guida della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, orchestra anche a Genova un’indagine sulla falsariga di altre simili imbastite sul territorio nazionale, ormai diventate un classico della campagna anti-anarchica, non si arrende all’evidenza di non avere nulla in mano per incriminare i compagni e cerca strategie trasversali per colpirli, facendo leva sulla suggestione di un’indagine da lui stesso promossa e dal tribunale già archiviata, per sostenere la richiesta di sorveglianza speciale a carico di una di loro. E’ evidente la costruzione di un castello accusatorio che si autoalimenta, con l’intento di isolare alcuni individui, ridurli al silenzio e limitarne l’agibilità.
Nello specifico Manotti sostiene la necessità di questo provvedimento facendo leva su due differenti linee di accusa: da un lato propone alcune ipotesi non supportate da nessuna prova specifica, cioè che nell’ambito degli anarchici genovesi si sia coagulata una cellula di matrice FAI e che la compagna indagata ne faccia parte, e qui ovviamente prova a gettare le basi per successive richieste di misure da destinarsi ad altri compagni (l’intenzione di riproporre lo schema del teorema associativo adattandolo alla nuova strategia è cristallina); dall’altro elenca una serie di prerogative personali che, a suo dire, sono indice dell’estrema pericolosità della compagna accusata, scavando all’indietro nel tempo per 20 anni nel suo percorso di vita, e scopre l’acqua calda, ovvero il suo essere anarchica, il fatto che mantenga contatti con altri anarchici, la sua manifesta attività in sostegno e solidarietà ai prigionieri anarchici, e di diffusione di testi e materiale di controinformazione, il fatto che questa condotta sia mantenuta da anni senza soluzione di continuità.
Risulta quindi chiaro l’uso strumentale della suggestione prodotta da accuse strombazzate che però non trovano riscontro nemmeno nelle sentenze dello stesso tribunale; ovvero Manotti calca la mano sulle accuse e le richieste ben sapendo di chiedere il massimo per ottenere il minimo, dimostrando chiaramente come funziona il gioco delle parti in quelle tristi aule di tribunale, e palesa a quale livello di bassezza sia disposto a scendere pur di gratificare da un lato le sue esigenze di carriera e dall’altro i suoi mandanti del ministero dell’interno che devono pur giustificare in qualche modo il fatto di condurre da anni una solerte attività investigativa a carico degli anarchici a Genova senza riuscire mai a concretizzare un granché.
Dopo due udienze, alla fine di gennaio, il giudice decide di emettere ai danni della compagna la misura della sorveglianza speciale per 2 anni con tutte le restrizioni (obbligo di dimora, rientro notturno dalle 22 alle 5, divieto di frequentare pregiudicati e persone gravate da misure di limitazione preventiva della libertà, divieto di partecipare a manifestazioni non autorizzate e situazioni di movimento in generale). Da notare che la misura viene emessa anche se viene decretata non ammissibile l’ipotesi accusatoria principale, cioè quella dell’affiliazione alla FAI: nello specifico il provvedimento del tribunale di Genova dichiara che l’esprimere approvazione per le azioni rivendicate da una sigla, esprimere solidarietà, contribuire con attività di sostegno agli anarchici incriminati e prigionieri, mantenere contatti epistolari o frequentare compagni accusati a loro volta di reati di terrorismo o riconducibili ad alcune sigle specifiche non costituiscono requisiti per poter dimostrare in sede penale l’affiliazione ad un sodalizio.
Malgrado il fatto che la farsa organizzata dal lacchè Manotti, con tutte le sue fantasiose ricostruzioni e tentativi di colpetti di scena da avanspettacolo, abbia svelato la sua inconsistenza pure nelle aule stesse del tribunale (ed è tutto dire!!!), il provvedimento di sorveglianza speciale viene comunque emesso per alcuni precedenti penali di minore rilevanza che, secondo il codice penale nell’interpretazione corrente, non avrebbero comunque le caratteristiche per costituirne requisito per l’attribuzione.
Questo esito non è neanche così sorprendente dal momento che era chiaro fin dall’inizio che la pressione esercitata dagli apparati istituzionali coinvolti avrebbe condotto ad un esito penalizzante per la compagna accusata, al di là del fatto che non esistessero neppure le prerogative, in termini di diritto, per imporre la misura preventiva.
Il provvedimento è entrato, quindi, a regime all’inizio di febbraio, con tutto il corredo di controllo sbirresco allegato. La vendetta da parte dello stato si concretizza, nel quotidiano, attraverso le rappresaglie più misere: le istanze presentate dalla compagna sono state finora rigettate, in compenso sono fioccate ulteriori denunce per episodi del tutto irrilevanti e richiami più o meno formali per il fatto che lei non si sottometta di buon grado ai rituali del controllo.
Nella banalità della sua applicazione quotidiana la misura si rivela nelle sue caratteristiche peculiari. Da un lato si configura come vendetta e punizione, la colpa da scontare il fatto di sostenere le proprie idee; la pervasività del controllo mette chi vi è sottoposto ogni giorno di fronte al limite dei propri spazi di espressione e agibilità anche per le attività più comuni e scontate.
Dall’altro attua una separazione: gli individui ritenuti pericolosi per il processo di pacificazione sociale vengono isolati una sorta di confino di fascista memoria riadattato alla contemporanea società del controllo, che mira ad isolarli dai contesti dove i semi del loro pensiero critico potrebbero correre il rischio di attecchire e germogliare.
Per tutti gli altri si propone come misura deterrente.
Come d’altronde faceva presagire la tipologia di richiesta, fondamentalmente improntata sulla falsariga del reato associativo, la questione non si limita ad una vicenda esclusivamente “personale”: un’altra richiesta di sorveglianza speciale, con modalità simili, è stata avanzata ai danni di un’altra compagna a Genova.
Pare abbastanza ovvio il fatto che l’estensione di queste misure potrebbe facilmente diffondersi e ben al di là dell’ambito anarchico.
Lo stato schiera i suoi mezzi e apparati per tentare di schiacciare individui refrattari all’autorità e neutralizzarli: il modo per bilanciare la disparità delle forze in campo è non voltare lo sguardo, non attendere oltre, squarciare il velo dell’isolamento.
La pratica della solidarietà è un’arma.