Interrompere la corrente
Ripubblichiamo questo testo, tratto dal bollettino “Fine corsa. Dalla lotta contro il TAV in Trentino”, n. 3, luglio 2016, perché ci sembra più che attuale. È anche il nostro modo – oltre che di esprimere solidarietà a chi viene colpito dalla repressione per la propria lotta contro le frontiere – di ricordare Salvatore Ricciardi a un anno dalla sua morte. Protagonista, tra tante altre battaglie, del movimento autonomo dei ferrovieri, di cui ci ha raccontato l’esperienza in due bellissimi incontri.
Interrompere la corrente
«Il treno. Da qualche parte, Aldous Huxley, parlando dell’anima umana nel suo periodo di immaturità, l’ha definita “naturaliter ferrovialis”: e se penso ai miei ricordi d’infanzia, devo dire che aveva ragione; il bambino è ferroviario per natura, è un adoratore dei treni. Per anni, ho sentito in me una singolare emozione nel vedere entrare in stazione questi colossi poderosi: era ogni volta uno spettacolo meraviglioso. Mi rivedo bambino, durante una vacanza a Zandvoort, in cui preferivo andare in stazione a vedere i treni piuttosto che scendere in spiaggia. Tale era l’inverosimile minuscolo individuo che io devo essere stato; ma adesso sono maturato (…), e non mi sento più ferroviario, né tale mi sentirò mai più. Infatti, in questo campo il treno per me è diventato il simbolo dell’infelicità e del dolore, della morte, dell’essenza stessa del Male. E il Male ho imparato a odiarlo.
(…) Il treno, il treno. Arriva e parte; ma più insopportabile dei suoi arrivi e delle sue partenze è la sua regolarità. Che soffi la tempesta, o nevichi, o grandini, il treno parte. Nessun allarme aereo lo ferma: il treno parte. I nostri alleati riducono in polvere interi nodi ferroviari, macinano ponti e tettoie, officine di riparazione, materiale rotabile: ma il treno parte. Ad Amsterdam hanno scioperato contro la deportazione di qualche centinaio di ebrei, ma il treno ne porta via di qui migliaia e migliaia, senza sosta, e tutti fanno il loro lavoro e nessuno dice no; non una traversina viene asportata, non una vite allentata».
Brani come questo, contenuto ne La notte dei Girondini di Jacob Presser, pubblicato in Olanda nel 1957 e tradotto in Italia da Primo Levi nel 1976, sono come sassi. E dovrebbero scalfire per sempre quell’aria di innocenza di cui ancora si ammantano treni, nodi ferroviari, ponti, tettoie, officine di riparazione, materiale rotabile, traversine, viti.
Ne La Mobilitazione Totale (1930), Ernst Jünger definiva la guerra come «un atto per mezzo del quale la corrente della vita moderna, con tutta la vasta rete delle sue ramificazioni, grazie a un’unica mossa sul quadrante dei comandi viene convogliata nella grande corrente dell’energia bellica».
Una delle principali ramificazioni di quella corrente è proprio la ferrovia. Che sui binari circolino semilavorati industriali, automobili o carri armati dipende da «un’unica mossa sul quadrante dei comandi».
Che certi esseri umani non possano più salire sui treni o che vi salgano solo per essere deportati dipende, ancora una volta, da «un’unica mossa sul quadrante dei comandi». L’apparato totalitario è già predisposto. Il quadrante dei comandi è pronto. La mossa dipende da decisioni burocratico-politiche che non vengono annunciate da grandi squilli di trombe. Ce ne accorgiamo quando l’ordine è già stato eseguito, e non è nemmeno detto che quell’ordine si distingua nettamente dalle altre anonime ingiunzioni di cui è innervata la nostra vita quotidiana.
Quando abbiamo letto, l’estate scorsa, che i vagoni su cui viaggiavano gli immigrati espulsi dall’Ungheria erano stati sigillati abbiamo sentito un sudore freddo lungo la schiena ‒ la sensazione più adeguata a ciò che si chiama memoria storica. Ma poi quella sensazione svanisce, soppiantata dall’indifferenza, dall’ilarità o dal raccapriccio con cui reagiamo al flusso continuo di notizie.
Perché certe mosse sul quadrante dei comandi non ci vengano annunciate assieme alla pubblicità dell’ultimo cellulare; perché certe sensazioni diventino parte di un cuore vigile ed entrino nella sfera del concetto, dobbiamo osservare con attenzione la vasta rete delle ramificazioni, non farci più ingannare dall’aria bonaria di treni, nodi ferroviari, ponti, tettoie, officine di riparazione, materiale rotabile, traversine, viti.
Nelle stazioni di Verona e Bolzano, da mesi, chiunque abbia la pelle scura non riesce più a prendere i treni internazionali per Monaco (gli OBB). A Verona, ad eseguire i controlli al viso, c’è spesso la polizia in tenuta antisommossa che sbarra l’accesso già nei corridoi. Molto soddisfatto il ministro degli Interni austriaco: al Brennero non arrivano immigrati. Avverte comunque che, se la situazione dovesse cambiare, ad allestire barriere di controllo ci metterebbero due giorni. Il quadrante dei comandi è pronto: basta una mossa.
A quella mossa, che ha già trasformato buona parte dell’Europa dell’Est in un gigantesco campo di concentramento, con centinaia di chilometri di filo spinato, è da tempo preparata la corrente sociale. Non c’è stato bisogno di alcun sortilegio per avvinghiare milioni di persone al canto delle sirene razziste. Da un lato una guerra quotidiana ai cervelli condotta da giornali e televisioni, dall’altro l’isolamento crescente delle vite. Il rancore verso il diverso sembra una sorta di precipitato, di contraccolpo: dal momento che l’ingiustizia sociale è troppo vasta e anonima da potere essere odiata, i diversi servono a oggettivare tutto il male.
La lotta no tav è nata e si è sviluppata perché una parte della popolazione ha smesso di essere “naturaliter ferrovialis”. Ha voluto guardare cos’è un treno ad alta velocità prima della sua fabbricazione; cosa produce, cioè, nei territori e nelle vite degli individui, la costruzione di una linea ferroviaria con simili caratteristiche. Se si è concentrata soprattutto sulla sua inutilità nel ridurre il transito di merci sulle strade e sulla devastazione ambientale che comporta ‒ e meno sul progetto di società che favorisce e accompagna ‒ è perché la sua parabola si è disegnata in un periodo storico in cui la questione sociale era quasi totalmente assente. Tanto per fare un esempio, quando è apparsa la lotta no tav il movimento autonomo dei ferrovieri era stato sconfitto ‒ di più, di quella sconfitta si era persa persino la memoria.
Nella storia delle lotte ‒ che non è fatta di quel tempo omogeneo e lineare inculcato dall’ideologia del progresso ‒ si parte sempre dalle sconfitte subite dalle generazioni precedenti. I ferrovieri, in Italia, sono stati tra i lavoratori più coscienti e combattivi, anche perché il loro “strumento di lavoro” metteva nelle loro mani, in caso di sciopero generale, la possibilità di bloccare gli spostamenti della truppa mobilitata per reprimere le agitazioni operaie e contadine, e di paralizzare la produzione capitalistica. Decisivo fu il loro ruolo nei movimenti contro la guerra. La stessa efficacia di alcuni sabotaggi partigiani era legata all’apporto dei ferrovieri.
Quando la lotta per la libertà traccia due campi ‒ quello dei partigiani e quello dei collaborazionisti ‒, essa non lascia intatti treni, nodi ferroviari, ponti, tettoie, officine di riparazione, materiale rotabile, traversine, viti.
Il movimento dei ferrovieri degli anni Sessanta e Settanta ‒ ancora in grado di paralizzare il Paese ‒ pose con largo anticipo il problema del trasporto privato come flagello collettivo e vide nella ristrutturazione delle ferrovie che si annunciava un mondo a due velocità: uno per i ricchi e uno per i poveri. Dimostrò anche, en passant, che le leggi non esistono affatto per essere applicate, ma per esercitare il potere usando di volta in volta ciò che serve; dimostrò che applicando alla lettera i regolamenti ferroviari ‒ durante i cosiddetti scioperi dello zelo ‒ nemmeno un treno poteva lasciare la stazione.
Solo repressione, licenziamenti di massa e crumiraggio (la CGIL arrivò più volte a organizzare decine di pullman di crumiri per far fallire gli scioperi) hanno permesso la ristrutturazione e poi la privatizzazione delle ferrovie. Solo la cancellazione di quella memoria permette a politici e dirigenti ferroviari (quasi sempre, non a caso, ex funzionari sindacali) di presentare il disastro di Andria come una tragica fatalità o un errore del singolo capostazione. Questi disastri hanno una storia lunga ‒ di vittorie per loro, di sconfitte per noi.
Di fronte al passaggio epocale che stiamo vivendo ‒ circolazione forsennata delle merci, da un lato, guerre e frontiere per milioni di esseri umani inutili per il capitale, dall’altro ‒ la lotta no tav non può rimanere chiusa in se stessa. Girandosi dall’altra parte di fronte ai treni dell’apartheid, rischia di diventare uno stagno. Dopo aver bloccato e sabotato le linee ad alta velocità per la propria causa, non può non collegare la devastazione ambientale qui a quella in altre parti del mondo, causa di esodi di massa. Quando le montagne sono bucate per far passare le merci, mentre in superficie ci sono poliziotti, militari e filo spinato, il treno che parte a qualsiasi condizione torna ad essere “il simbolo dell’essenza stessa del Male”.
Quando “tutti fanno il loro lavoro e nessuno dice no” la società sprofonda nella melma dell’indifferenza e della sopraffazione.
Allora treni, nodi ferroviari, ponti, tettoie, officine di riparazione, materiale rotabile, traversine, viti diventano di nuovo obiettivi della lotta partigiana.
Se non passano gli esseri umani, vadano in malora le merci.
Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno.