Stati Uniti, un bilancio
Stati Uniti: a che punto è il movimento contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico?
da pungolorosso.wordpress.com
Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo queste note sul momento attuale del grande movimento di lotta nato negli Stati Uniti dopo l’uccisione di George Floyd per mano della polizia di Minneapolis. Non sono, però, un semplice aggiornamento. Sono un primo, provvisorio bilancio di esso (provvisorio perché il movimento è tuttora vivo). E hanno il merito di cogliere la sua straordinaria importanza nella vicenda della lotta di classe statunitense e mondiale.
Gli Stati Uniti sono da quasi un secolo il paese-guida del capitalismo mondiale, la mostruosa idrovora che ha aspirato oceani di plusvalore, di rendita e di diritti dai quattro angoli della terra, e hanno potuto a lungo nutrire buona parte della loro popolazione di sfruttati con qualcosa in più di semplici ‘briciole’ materiali e ideologiche (l’ideologia della unicità e superiorità yankee). Ma questa Amerika ora finalmente traballa per effetto di continue scosse sismiche e si avvicina inesorabilmente al suo crack.
Altro che fine della storia! La storia, e cioè la storia della rivoluzione sociale anti-capitalista, si sta riaprendo alla grande, nel cuore stesso della “Bestia”. E si vedrà chiaro domani che il primo squillo di riscossa è partito dai “negri” supersfruttati dall’imperialismo europeo e italiano: i rivoltosi arabi e “islamici” del 2011-2012 e del 2018-2020, i nostri fratelli di classemedio-orientalibrown…
Nelle giornate di luglio il movimento generalizzato contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico ha perso di intensità. È trascorso più di un mese e mezzo da quando questo movimento di massa è esploso spontaneamente in seguito all’assassinio di George Floyd il 25 maggio 2020. Mentre scriviamo c’è ancora da rimarcare che in tante città prosegue la voglia di battersi, perché il movimento tutto è consapevole di non aver raggiunto i suoi obiettivi e gran parte dei giovani colorati e bianchi che lo hanno animato non vogliono continuare a vivere come prima.
Durante la giornata del 4 luglio a New York, Seattle, Baltimora, Washington, Saint Louis, Minneapolis, nella west coast e al Monte Rushmore ci sono state vive proteste contro il razzismo, e a rimarcare che gli Stati Uniti d’America si sono fondati sul colonialismo selvaggio, sullo schiavismo, sull’oppressione e lo sfruttamento, caratteristiche che hanno pervaso le fondamenta e nutrono lo sviluppo della società nord-americana di oggi. A Baltimora la statua dedicata a Cristoforo Colombo è stata buttata giù nel quartiere di “littleItaly”. Intanto, a New York ed in tante altre città e nei quartieri popolari abitati da afroamericani, ispanici, ecc. si sono diffusi picchetti di massa e cortei contro gli sfratti. Insomma, se assistiamo ad una “battuta d’arresto”, cosa cova sotto la brace della rivolta sociale? O è tutto destinato ad esaurirsi?
Un movimento inedito
La lotta del popolo afroamericano contro il razzismo e per i diritti civili è sempre stata presente nella storia degli Stati Uniti d’America, e talvolta si è intrecciata con lo stesso moto del movimento operaio internazionale (specialmente in Alabama dove i braccianti di colore aderirono ardentemente al Partito Comunista d’America negli anni ’20) o a fianco dei popoli oppressi dall’imperialismo (come durante la guerra del Vietnam). Oggi, però, assume connotati inaspettati. Ci troviamo davanti ad un moto inedito delle masse afroamericane che apre una nuova fase dello scontro sociale di classe negli USA ed a livello internazionale ben più profondo di quanto le premesse dell’oggi lasciano solo immaginare.
Questo movimento non è la riedizione in tempi moderni dei precedenti movimenti di lotta per i diritti civili, una lotta per ottenere una giusta riparazione ai torti subìti ed una più equilibrata opportunità di riscatto sociale anche per i neri, che si diedero nell’epoca in cui l’accumulazione capitalistica poteva includere, sebbene in maniera diseguale e conflittuale, anche una minoranza degli afroamericani così come settori ampi dei lavoratori e proletari bianchi. Non è nemmeno la semplice riedizione del risorgente “Black LivesMatters” di pochi anni fa esploso sempre contro la violenza della polizia durante la presidenza Obama. Il movimento attuale non si limita a denunciare il razzismo della polizia per rivendicare, come nel passato, la riforma della polizia.
Infatti il movimento esplode verificando proprio che le riforme della polizia non solo sono fallite, ma hanno di fatto peggiorato la situazione aumentando la pervasività del controllo militare nei quartieri dei colorati, dove via via i servizi sociali sono stati gradualmente e decisamente ristrutturati attraverso l’uso dei dipartimenti di polizia. In sostanza, non solo le speranze e le possibilità di inclusione che animavano le lotte per i diritti civili dei neri sono fallite, ma la violenza, lo sfruttamento e il razzismo sono aumentati. Non si rivendica più la riforma della polizia come nel 2014 e nel 2015, ma la si mette al bando riconoscendone il suo carattere classista ed oppressivo in quanto braccio armato dello Stato contro gli afroamericani e a difesa della proprietà privata. Fa sempre meno breccia la litania del rimuovere “le mele marce” dal cesto. Viceversa, il movimento rivendica lo smantellamento della polizia dai quartieri popolari e proletari e l’esclusione delle sue organizzazioni dalle file delle organizzazioni sindacali attraverso una semplice rivendicazione: zero dollari per la polizia, perché la sicurezza, la vera sicurezza sociale, ha bisogno di altro, necessità di un differente modello di società.
In sostanza il movimento ha chiarito che se la polizia è razzista ed irriformabile, questo dipende dal fatto che è l’intera società, è l’insieme delle relazioni sociali ed economiche ad essere razzista: è il “razzismo sistemico” che deve essere combattuto, e questo richiede un profondo rivolgimento sociale ed economico. Le piazze degli Stati Uniti in rivolta hanno lanciato al mondo questo messaggio attraverso comportamenti espliciti durante le giornate di lotta, ovunque, per esempio riscrivendo in maniera militante l’intera storia americana dal punto di vista degli oppressi.
Uno di questi comportamenti è dato dall’iconoclastia del movimento di massa, che abbatte le statue degli “eroi” confederali e di Cristoforo Colombo fino agli stessi padri fondatori della rivoluzione americana, mentre giovani di tutti i colori acclamano ed esultano. Può sembrare una isteria di massa inutile. Viceversa il messaggio che emerge è chiaro e potente: questa moderna società è emersa dalle ceneri della vecchia proprio attraverso la violenza, l’espropriazione, il colonialismo, la schiavitù, l’oppressione dei popoli “colorati” dell’Africa, delle Americhe e dell’Asia, e il genocidio dei nativi. La nuova società, la moderna società borghese e capitalista si è potuta dare, crescere, estendere proprio in virtù di questa schiavitù che oggi continua attraverso le moderne forme di segregazione razziale e attraverso il neocolonialismo degli Stati capitalistici più avanzati contro gli interi popoli “colorati” dell’Africa, dell’America Latina, del Medio Oriente e dell’Asia. Messaggio ben colto e raccolto oltre oceano nei paesi ex coloniali dell’Europa da quei giovani immigrati di terza, quarta generazione o discendenti di quegli stessi schiavi che oggi vivono “inclusi” nelle società occidentali ed europee, ma in gran parte come cittadini sfruttati di serie b. In Belgio le statue del Re del Belgio sono state imbrattate, in Inghilterra si è andati oltre senza risparmiare Winston Churchill. L’Economist scrive allarmato che questo movimento inchioda all’angolo del suo fallimento il liberalismo democratico illuminista.
Ma le caratteristiche inedite rispetto al passato non si fermano qui. Questa lotta contro il razzismo di sistema si lega ad un altro aspetto delle contraddizioni che la crisi generale e globale del capitalismo, e la pandemia del covid-19, hanno fatto emergere con forza alimentando la radicalità di questo movimento. La crisi economica e la pandemia colpiscono innanzitutto i proletari colorati; la necessità di non interrompere l’accumulazione di valore e del profitto, che non può consentire di “contenere” la pandemia, dunque necessariamente entra in contraddizione con la necessità di tutelare la salute della comunità sociale; gli afroamericani, i latinos e gli immigrati sono costretti a lavorare costi quel che costi e il coronavirus agisce come una mietitrice di esistenze soprattutto nei quartieri dove vivono i poveri e gli sfruttati di colore, svelando come il razzismo e l’oppressione del capitalismo sono un tutt’uno.
Tant’è che questo movimento non è altra cosa dalle iniziali e diffuse lotte dei lavoratori essenziali contro il covid-19 e gli effetti della pandemia dei mesi di marzo, aprile e maggio. Dai lavoratori delle nuove fabbriche della logistica, a quelli degli ospedali, alle masse di proletari schiavizzati nelle moderne catene della distribuzione e della circolazione di merci, a quelli della produzione agro-alimentare e della carne, è emerso forte il messaggio che o si lotta a difesa della salute contro il primato del profitto, o ci si ammala e si muore (che negli Stati Uniti significa anche morte per fame, visto che per questi lavoratori non vi è alcuna copertura in termini di assicurazioni sanitarie, e tantomeno le assenze per malattie sono pagate).
Il virus è naturale, ma la sua diffusione è un prodotto dell’uomo. E’ il risultato del modo di produzione capitalistico, il cui saccheggio del mondo macro e micro biologico, operato dalla sua forsennata produzione agricola intensiva, distrugge sempre più le barriere naturali e la biodiversità causando la conseguente diffusione di virus letali capaci di saltare dagli animali all’uomo. E come prodotto del capitalismo, la malattia – ossia il costo sociale della ricchezza accumulata nelle mani di pochi – si diffonde tra gli uomini e le donne secondo le medesime direttrici di classi sociali e di razze di appartenenza. I casi di covid-19 e di morti degli afroamericani, degli ispanici e degli immigrati delle grandi città degli Stati Uniti – soprattutto nelle grandi città della costa est – raggiungono il 64% dei casi totali. Così come a fronte di una popolazione di afroamericani pari al 13% del totale (mentre i bianchi, ispanici esclusi, sono più del 60%), dal 2017 ad oggi il numero di persone nere non armate uccise indiscriminatamente dalla polizia sono il 24% del totale, i bianchi il 45%1.
Il virus ha fatto scoppiare la bolla purulenta, allineando in maniera contrapposta parti consistenti delle diverse classi sociali e del “popolo indistinto” su a cosa dare priorità: la salvaguardia della salute pubblica o la salvaguardia della produzione e riproduzione del valore e del profitto? Gli effetti della pandemia hanno messo a nudo un sistema sociale ed economico generale basato sull’ingiustizia di classe, razziale e di genere (delle donne, dei gay, lesbiche e transgender).
In un recente studio del Financial Times2 è emerso che negli USA e in Gran Bretagna nell’ultimo triennio è diminuito del 26% il numero degli occupati nella grande industria, mentre nei settori della logistica il numero di occupati nello stesso periodo è cresciuto del 141%. In termini assoluti, il numero degli occupati nell’industria rimane dieci volte superiore a quello della logistica. Però i giovani proletari – che hanno solo un titolo di studio della scuola inferiore – è proprio in questi settori che trovano impiego, con paghe orarie decisamente più basse, senza regolamentazioni contrattuali e senza tutele in termini di assenze pagate per malattia. Se negli anni ‘50 e ‘60 i giovani proletari neodiplomati delle scuole inferiori trovavano impiego nelle fabbriche della Ford o della Caterpillar, oggi trovano una opportunità occupazionale soprattutto nelle mega warehouse e negli hub della logistica, dove la paga oraria è generalmente, in media, inferiore del 30% a quella dell’operaio tradizionale della fabbrica. Ma anche nella grande industria il divario tra la paga oraria dei giovani operai e quelli con anzianità superiore ai 12 anni è aumentato notevolmente. Le chances di un miglioramento salariale con gli anni nelle nuove fabbriche della logistica sono comunque misere, mentre gli operai giovani di FCA, Ford e GM possono sperare di migliorare con gli anni dopo 12 anni di anzianità (sempre se l’accumulazione del capitale tiene e si espande).
Sempre il Financial Times riporta come oggi negli Stati Uniti il 44% dei lavoratori (circa 53 milioni di lavoratori) percepiscono in media paghe orarie intorno ai 10,22 dollari, ossia circa 18.000 dollari l’anno. Qui durante i mesi del coronavirus in poche settimane il numero degli iscritti alle liste di disoccupazione e per i sussidi ha raggiunto i 47 milioni3. Alle liste di disoccupazione hanno ricorso anche tanti lavoratori vicini alle condizioni della tipica middle class, che si sono visti precipitare verso il baratro in quanto facenti parte dei settori sociali fortemente indebitati (debiti personali per il consumo, rate dell’auto, mutui o affitti, ecc.), e a cui la perdita del lavoro o il “furlough” (licenza forzata dal lavoro non pagata) hanno fatto improvvisamente perdere tutte le “certezze” acquisite del passato.
Però il grosso della disoccupazione è concentrato soprattutto tra i proletari con paghe orarie medio basse e tra quelli con contratti a zero ore. Il 37% dei nuovi disoccupati del periodo marzo-aprile-maggio sono proletari con paghe medie orarie intorno ai 15 dollari, mentre solo il 10% dei nuovi disoccupati è rappresentato da lavoratori con paghe orarie intorno ai 35 dollari. C’è di più. La disoccupazione ha investito principalmente i giovani. Più di 10 milioni dei nuovi disoccupati ha meno di 34 anni, mentre più di 5 milioni ha meno di 24 anni. La crisi, quindi, ha investito con particolare violenza il giovane proletariato senza riserve né diritti, quello delle generazioni dei cosiddetti millenials e della generazione Z, colpendo in proporzione di più i neri, gli ispanici, gli asiatici, e poi i bianchi.
Le quote di disoccupazione immediatamente riassorbite (in parte) con le riaperture del mese di giugno, sono principalmente avvenute nei settori produttivi che prevedono le paghe più basse, mentre molti posti di lavoro di alcuni comparti tradizionali dell’industria e dell’estrazione mineraria, la cui crisi era preesistente al coronavirus, sembrano definitivamente persi.
Quindi la pandemia ha accelerato e ha messo a nudo un processo di polarizzazione sociale già in atto da più di un decennio, che fino ad oggi l’Obamismo e il Trumpismo erano riusciti a tenere nascosto sotto il tappeto.
Pertanto non c’è da stupirci che il movimento di queste settimane contro il razzismo sistemico offre l’inedita espressione di un movimento essenzialmente animato da quel proletariato giovanile afroamericano colpito dalla crisi, mentre la crisi del capitalismo spinge quote crescenti di proletariato giovanile bianco senza riserve a scendere incondizionatamente (e senza contenderne la direzione della lotta circa obiettivi, metodi e rivendicazioni politiche) a fianco dei propri fratelli neri, i quali, proprio per questo, gli riconoscono di essere una parte del movimento tutto. Un movimento che ha anche consolidato l’unità con gli sfruttati latinos ed immigrati e tutti coloro che si battono contro un sistema fondato sul razzismo di classe, razza e di genere.
Altro aspetto inedito è che questa nuova unità nella lotta tra giovani proletari afro-americani, bianchi e latinos fa breccia nel cronico razzismo e sentimento di contrapposizione non solo dei “bianchi” contro i “neri”, ma anche di questi ultimi nei confronti degli ispanici e degli immigrati, come l’altra faccia della acuita ed agguerrita concorrenza capitalistica a tutti i livelli che coinvolge anche il proletariato.
La composizione e le prove di forza del movimento
Qual è dunque la composizione di questo movimento? La sua ossatura militante e le sue energie provengono, l’abbiamo appena detto, proprio da questo mondo proletario super sfruttato che già durante i mesi di marzo ed aprile aveva dato segnali di reattività per la difesa della salute dei lavoratori contro le necessità irrinunciabili del profitto. L’intreccio tra i due aspetti spinge a far emergere nella lotta il legame tra il razzismo (l’oppressione di razza) e l’oppressione di classe come due facce della stessa medaglia.
Anche nelle forme di lotta abbiamo assistito a pratiche inedite. La richiesta della messa al bando della polizia è viaggiata non solo attraverso la forte spinta conflittuale nel richiedere che le varie municipalità tagliassero i fondi per i bilanci dei dipartimenti di polizia. Ma anche realizzando pratiche sociali di messa al bando dal basso. I Capitol Hill autonomous Zone (CHAZ) o Capitol Hill OrganizedProtests (CHOP) – soprattutto quella di Seattle – non nascono come azioni decise dalle direzioni del movimento, ma sono stati spontaneamente prodotti dalla lotta. A Seattle dopo giornate consecutive di manifestazioni di strada di giorno e di battaglie notturne di piazza contro le forze di polizia e per rompere i vincoli del coprifuoco imposto, una volta che i cordoni della polizia hanno dovuto ritirarsi, l’occupazione dell’area è venuta da sé. E’ così il CHAZ (CHOP) di Seattle si è dato trasformando la ritirata delle truppe dello Stato in un’area autorganizzata della città ed off limits per le forze di polizia. Un’area dove anche la centrale di polizia del quartiere è stata di fatto confiscata e chiusa con il lucchetto dai manifestanti. Dopo Seattle anche a Portland, Washington, Saint Louis, New York e Louisville si è tentato la stessa impresa, ma con minor successo. Ma “l’episodio” è stato ritenuto davvero grave ed allarmante fino al punto da essere (giustamente) giudicato dal governo federale un atto di “terrorismo domestico”, da schiacciare con il massimo della determinazione e violenza.
E se questo non è abbastanza, un altro episodio segnerà per il futuro la lotta degli afroamericani. Per la prima volta nella storia americana il Juneteenth (19 giugno, data che gli afroamericani celebrano come momento della fine della schiavitù) è diventata una data memorabile al pari del primo maggio di lotta internazionale dei lavoratori. Da data celebrata solo dalle famiglie afroamericane, è diventata una giornata di lotta nazionale caratterizzata da rinnovati scioperi generali e spontanei nei luoghi della moderna GIG economy (dalle catene delle nuove fabbriche della logistica, delle warehouse di Amazon, della distribuzione e della sanità privatizzata), nei trasporti pubblici, negli impianti dell’agro industria e di macellazione industriale, fino a comprendere settori tradizionali della classe operaia. In quella giornata, come mai prima d’ora, una intera categoria operaia, le Unions degli operai portuali di tutta la west coast, hanno proclamato uno sciopero generale contro il razzismo e contro la presenza delle organizzazioni della polizia nei sindacati, che ha visto l’adesione di 30.000 lavoratori ed un cortei di migliaia di operai ad Oakland.
Il movimento effetto della polarizzazione sociale, e la reazione del capitale
Questo movimento generale contro il razzismo di sistema è il preludio della ripresa generalizzata dell’antagonismo di classe, e sta già provocando profondi smottamenti nella società americana, con sicure ripercussioni a livello globale (così come la crisi è globale, la pandemia è globale, anche l’antagonismo si farà strada internazionalmente). Capace di produrre profondi e pericolosi scricchioli nella sovrastruttura dello Stato, ben udibili e visibili sui social media: dai poliziotti che si inginocchiano di fronte ai manifestanti, al capo del Pentagono che scomunica Trump che chiede il dispiegamento dell’esercito federale nelle strade; ma il fatto più significativo di tutti è una foto di Minneapolis: il corteo enorme sfila sotto i ponti dell’high way; sopra il ponte c’è la Guardia Nazionale armi in pugno, e un soldato alza il pugno per salutare il corteo che gli scorre sotto!
In questi quindici anni le forze più potenti del capitale globale sono riuscite ad attuare manovre dilatorie della crisi sociale attraverso la recrudescenza dello scarico della crisi economica sulle spalle del resto del mondo – a partire dai paesi dominati dall’imperialismo e sulle loro masse sfruttate. Nello stesso tempo l’acuita concorrenza tra stati capitalistici ha prodotto smottamenti profondi nelle relazioni tra le diverse classi, producendo la rincorsa da parte di un numero crescente di ceti medi e piccolo borghesi e anche di proletari a cercare rifugio sotto l’ala protettrice del “proprio” capitale nazionale, e per un suo rilancio più agguerrito nella competizione globale di tutti contro tutti.
Il proletariato, in quanto classe del capitale, ritiene la difesa delle proprie condizioni dipendenti dalla capacità del proprio capitale di rafforzare la sua riproduzione di valore. Il “sovranismo” di tutti i colori, dagli Stati Uniti – il cosiddetto Trumpismo – all’Europa, che fino a ieri è stato capace di realizzare senza troppi ostacoli l’unità del “popolo lavoratore” sotto l’insegna della lotta contro la globalizzazione e per il sostegno di un progetto nazionalista, improvvisamente deve fare i conti con l’accelerazione di questa crisi economica e pandemica che rimescola tutte le carte, e rimette in discussione tutti gli equilibri tra le classi precedentemente consolidati.
Il risultato è proprio questo movimento straordinario di lotta di neri, bianchi e colorati che approfondisce le linee di faglia che la crisi stava già tracciando nei confronti di questo neopopulismo. Attenzione: questo non significa che il “sovranismo” bianco, nero o rosso-bruno è già giunto al suo capolinea negli USA (come in Europa). Ma – questo è certo – la polarizzazione sociale in atto, accelerata dalla pandemia, scompone e disarticola il “sovranismo” ad ogni latitudine. Negli USA l’indistinto popolo “trumpista” non è più rappresentabile con le politiche di ieri, e il “sovranismo” bianco e “popolare” per affermarsi richiede oggi la contrapposizione frontale di una parte di questo “popolo” ad un’altra parte “del popolo”, una maggiore aggressività e violenza contro gli sfruttati che intendono resistere e sono scesi in lotta. Prima ancora di palesarsi come una opzione politica, questa contrapposizione già emerge come effetto della crisi nelle faglie della società.
Già nelle settimane precedenti all’esplosione del movimento generalizzato contro il razzismo, mentre lo Stato viveva profondi conflitti costituzionali tra le prerogative dello Stato centrale federale e quelle dei Governatori dei singoli Stati circa le decisioni sul lockdown, abbiamo assistito a frequenti manifestazioni dei “bianchi” contro i governatori democratici, e soprattutto contro le lotte dei lavoratori degli ospedali e di tutti coloro che sostenevano la difesa della salute contro le necessità dell’economia e del profitto. Settori sociali di ceto medio, di piccola borghesia, ma anche qualche settore di lavoratori bianchi in perdita di garanzie e certezze, si sono agitati ferocemente contro chiunque osasse ledere il loro “libero arbitrio”, ossia contro chiunque metteva in rilievo, come prioritaria, la difesa della salute rispetto al profitto. Questi settori sociali in diverse occasioni e soprattutto il primo maggio sono andati a sfidare faccia a faccia i picchetti e le proteste dei lavoratori degli ospedali. La difesa del loro libero arbitrio si è espressa con tutti i caratteri di quella supremazia bianca e di classe che attraverso questa vuole esercitare e rafforzare il dominio della produzione per il valore di contro alla salute della “comunità sociale”. È una violenza ed aggressività che in questi giorni si manifesta nella vita quotidiana: sono ripetuti gli episodi di bianchi di diversa età e sesso che tossiscono in faccia a famiglie o a bambini solo perché sono dall’apparenza latino americani; episodi di aggressione ai commessi dei negozi che chiedono di indossare le mascherine; o addirittura a gesti di spavalderia, anche 1 contro 100, da parte di provocatori bianchi durante i cortei e le azioni di protesta del movimento antirazzista.
Di fronte all’incapacità dello Stato centrale di comandare e guidare la repressione violenta delle proteste e del movimento contro il razzismo, la polarizzazione sociale sta dando vita ad un nuovo spontaneo “squadrismo bianco” che segna una discontinuità con le classiche organizzazioni suprematiste e cristiane dei bianchi o del Ku Klux Klan. Oggi i nuovi suprematisti bianchi, giovani ventenni chiamati BOOGALOO BOYS, si autodefiniscono “patriots”, si richiamano solo parzialmente o limitatamente all’insieme di valori tipici delle organizzazioni cristiane, non necessariamente sono contro le razze nere e colorate, sono soprattutto contro coloro che non si sottomettono all’insieme delle relazioni sociali e di dominio del capitale e che indeboliscono la nazione. In questo senso, all’interno della società di valori e di relazioni di questo suprematismo bianco, anche i “colorati” potrebbero starci, purché al servizio della nazione, e di una nazione in concorrenza sempre più agguerrita con il resto del mondo.
Di fronte alle (parziali) defezioni della polizia e della Guardia Nazionale che hanno ostacolato la repentina e decisa repressione armata delle manifestazioni invocata dal comando centrale dello Stato Federale, un numero crescente di azioni armate di tipo squadristico si sono verificate durante i cortei e le occupazioni delle piazze. Il CHOZ di Seattle è stato ripetutamente oggetto di aggressioni armate negli ultimi giorni di giugno, dove almeno 4 giovani afroamericani sono stati uccisi e due feriti. La stessa cosa si è ripetuta nella piazza occupata di Louisville. La stampa americana ed europea ha descritto questi atti come “sparatorie”, e spiegato questi fenomeni secondo la tipica sociologia razzista da quattro soldi. Se il razzismo costringe al degrado sociale le comunità afroamericane sfruttate, questa produce una microcriminalità diffusa che si traduce spesso in una violenza dei neri contro i neri, dei poveri contro i più poveri (cosa sicuramente vera). Se la polizia non è presente, dunque, secondo una certa sociologia, nelle comunità nere prendono il sopravvento le gang. Quindi, chi ha sparato, da dove e contro chi? Chi è l’offeso e chi l’aggressore? Vedete che non si può abolire la polizia di classe altrimenti domina l’anarchismo della microcriminalità?
Altro che gang e microcriminalità! Questi avvenimenti prefigurano all’orizzonte scenari di guerra civile e di contrapposizione armata tra fronti di classe decisamente contrapposti in futuro.
Il movimento e lo stato attuale
In questo braciere, il movimento oggi sconta le sue difficoltà che sono essenzialmente riconducibili ai rapporti di forza generali tra la classe capitalistica e la classe degli sfruttati nella società americana e a livello internazionale. Le grandi manifestazioni di sostegno e solidarietà (soprattutto quelle dei paesi anglo sassoni e neocoloniali, Nuova Zelanda, Australia, Canada, Inghilterra, Francia, Germania, Sud Africa e Brasile) hanno rappresentato solo parzialmente la possibilità di una estensione internazionale della lotta. Sul piano interno le prime importantissime manifestazioni del proletariato di fabbrica, come lo sciopero generale dei portuali e della west coast di giugno o dei lavoratori dei trasporti pubblici di Los Angeles a Washington non raffigurano ancora una generale scesa in campo del proletariato di fabbrica. Negli stabilimenti della FCA di Detroit sorgono scioperi spontanei e comitati di operai (rank and files) per la difesa della salute. Ma ancora questo non coinvolge l’intero corpo delle fabbriche e dell’industria dell’auto, il vecchio movimento operaio sta ancora a guardare, spera di non dover essere costretto a scendere in campo.
In ogni caso, la determinazione del movimento e il suo intreccio con un numero crescente di scioperi spontanei contro il razzismo ed a difesa della salute, gli ha consentito finora di controbattere colpo su colpo alla repressione dello Stato rafforzando la sua unità di intenti tra neri, bianchi e marroni. Ciò ha anche consentito di mettere in evidente difficoltà l’apparato repressivo dello Stato – il coprifuoco, la violenza della polizia, l’utilizzo della Guardia Nazionale, quello della FBI e delle migliaia di arresti (i cui giovani incarcerati hanno incriminazioni per reati che prevedono pene dai 20 anni fino all’ergastolo) non sono riusciti a far retrocedere il movimento.
Ma una cosa è rispondere alla repressione legale dello Stato, un’altra è rispondere alla repressione “illegale” delle forze sociali insorgenti che richiederebbe una adeguata coerente risposta sul piano della autodifesa militante contro le violenze squadriste.
Di fianco a questo c’è un altro fattore oggettivo determinante che pesa sulla lotta: questo movimento non deve solo confrontarsi contro il razzismo di sistema e contro la repressione legale ed illegale, si confronta anche con la pandemia mondiale. Tenere la piazza e le strade consecutivamente per oltre un mese a livello nazionale, mentre si registra un aumento vertiginoso dell’epidemia, al ritmo di 60000 e più contagiati ogni giorno, non è uno scherzo. Tutto ciò materialisticamente pesa sul campo.
Il movimento ha intanto indirizzato la lotta sugli obiettivi ritenuti raggiungibili più velocemente, e considerati ora possibili proprio per l’inedita unità tra sfruttati di tutti i colori. Si è ritenuto che la forza espressa in piazza potesse agire come una onda d’urto tale da scuotere lo schieramento democratico, le maggioranze dei Capitol degli Stati e delle città ed ottenere l’avvio di una riforma sistemica in senso democratico e antirazzista da così radicale da intaccare l’esistenza della polizia. Quest’atteggiamento non è solo figlio delle illusioni democratiche – che ci sono – sulla possibilità di riforma del capitalismo, è anche percepito come una necessità di fronte ai sovrastanti rapporti di forze e di fronte allo stato della pandemia che negli USA e in tutto il continente americano è davvero critica.
I consigli comunali ed i sindaci hanno sostanzialmente confermato i bilanci di spesa a favore dei dipartimenti di polizia a Seattle, Portland, Minneapolis, Washington e a New York (qui solo con modifiche e ritocchi di dettaglio). Biden si è dichiarato da subito contrario alle parole d’ordine “defund the police” e “dismantle the police” avanzate dal movimento. Nessuna presa in carico da parte delle opposizioni del partito democratico della richiesta del taglio dei finanziamenti della polizia si è avverata. A questo punto si è posta la domanda sul come continuare la lotta. Nei Capitol Hill OrganizedProtest di Seattle, di New York ed in generale ci si è chiesti, a questo punto, che fare, come continuare la lotta. Tenere la piazza, il CHOP il più a lungo possibile preparandosi a sicuri scontri con la polizia, abbandonare le occupazioni, sfilare in corteo sotto le residenze dei sindaci (come è avvenuto a Seattle, e ritenuto dal sindaco un atto intimidatorio, terroristico), riprendere le strade e le manifestazioni? Domande legittime che evidenziano la necessità di un bilancio che non può però prescindere dalla lotta.
Dare una risposta su come continuare la battaglia al momento appare insormontabile a prescindere dai rapporti di forza generali con cui la ripresa di questo nuovo ed inedito antagonismo di classe si trova a dover fare i conti.
Trovare la via in avanti, superando definitivamente ogni illusione democratica non può avvenire sul piano della “decantazione politica” e della battaglia politica finalizzata a strappare la direzione di questo movimento alla linea cosiddetta “moderata” (moderata? Che sciocchezza!) del Black LivesMatter, per indirizzare il movimento verso una più autentica e coerente impostazione antagonista al capitalismo. Chi punta le sue chances su questo rischia di perdere la sua puntata.
E’ l’oggettività materiale su cui si dà questa ripresa dell’antagonismo generale (che è di CLASSE, di RAZZA e di GENERE e DELLA NATURA), determinata dalla crisi, dalla pandemia e dagli attuali rapporti di forza generali tra le classi, che produce le attuali illusioni democratiche facendole apparire a chi guarda il movimento dal di fuori come i “principali limiti ed ostacoli” del movimento. Il percorso della crisi e della lotta produrranno, non meccanicamente e progressivamente si intende, nuove sfide, nuove domande e più avanzate soluzioni.
Tant’è che già oggi questo movimento non caratterizza il suo momento attuale nella rassegnazione al “meno peggio”, al ripiegamento verso la strategia del “voto utile” per Biden contro Trump.
Sotto la crosta superficiale delle relazioni tra le classi e con il capitale, la brace continua ad ardere e già prepara, non un domani lontano, ma ad un prossimo vicino, ulteriori sussulti e sconquassi che stanno riannodando i termini inediti e generali della questione: lo scontro di sistema ed epocale tra capitalismo e comunismo (inteso come battaglia generale contro ogni oppressione di razza, di genere e di classe e del mondo naturale). Intanto, il 20 luglio, domani, sarà una nuova giornata di lotta nazionale e di scioperi contro il razzismo sistemico (4).
Noi Non Abbiamo Patria
Roma, 19 luglio 2020.
1
Dal Washington Post del 16 luglio 2020. https://www.washingtonpost.com/politics/2020/07/16/kayleigh-mcenany-tries-clean-up-trumps-comment-about-police-killing-more-white-people/?hpid=hp_hp-banner-low_fix-mcenany-655pm%3Ahomepage%2Fstory-ans
2
Dal Financial Times del 7 luglio 2020 – https://www.ft.com/content/6c7b59ad-be4f-46b3-8386-072f106a1960
3
C’è da chiarire che negli USA si fa largo ricorso al “furlough”, con cui il lavoratore viene messo in licenza a casa, ma non è pagato. Formalmente il posto di lavoro rimane, ma si è senza paga, né copertura sanitaria fin quando la crisi aziendale non è risolta ed il lavoratore può essere reintegrato. Questi numeri, così come quelli dei lavoratori con contratti a zero ore, non compaiono nelle statistiche ufficiali del Dipartimento del Lavoro, ma questi lavoratori possono iscriversi alle liste di disoccupazione e per i sussidi statali.
4 https://apnews.com/d33b36c415f5dde25f64e49ccc35ac43
https://j20strikeforblacklives.org/