Valle dell’Ouvèze (Ardèche): Smettere di vivere? Piuttosto morire!
Valle dell’Ouvèze (Ardèche), Francia: Smettere di vivere? Piuttosto morire! (03/05/2020)
Attacco a un ripetitore
Sono già diverse settimane che all’insieme della popolazione viene imposto lo stato d’eccezione, sotto forma di confinamento sanitario, con la sua dose di divieti inediti, d’ipocrisia quotidiana e di promesse di salvezza.
Io non volevo morire di paura e di noia, attaccato a una flebo davanti a Netflix. Nel mese appena passato, la rabbia e la costernazione di vivere in diretta un cattivo romanzo di fantascienza sono diventate per me più che un veleno: un antidoto. Ho quindi deciso di attaccare. Estendendo le frontiere dell’illegalità, imponendosi ovunque nelle strade, sbirri e cittadini vigilanti hanno trasformato il territorio in uno spazio nel quale abbiamo dovuto riapprendere a spostarci e a trovare il sentiero verso altri/e complici. Dato che le croci in cima alle montagne sono state rimpiazzate dai piloni della rete GSM e della 5G, questo dice qualcosa della forma che prendono attualmente il potere e le nostre credenze di salvezza. Era quindi l’ora di riaccendere i fuochi sulle colline, per diffondere dei messaggi più essenziali e diretti, a quelli/e che vorranno ascoltari, l’ora di bruciare queste croci fatte di nodi di fibra ottica e di reti elettriche.
Sono solo/a, da qualche parte sopra la valle dell’Ouvèze, fra Le Pouzin e Privas, domenica 3 maggio [2020], verso le 2.00 del mattino. Nelle ultime ore è piovuto molto e le ultime nuvolette di nebbia che si evapora dal suolo si alzano davanti all’alone di una mezzaluna. La notte è dolce e talmente calma.
In questi ultimi anni sembrava crescere, nei discorsi, l’impressione che lo Stato lasciasse progressivamente il posto a forme di gouvernance più liberali ed economiche, che ad un potere verticale si sostituissero già delle forme più diffuse, invisibili.
Ma lo Stato non è sparito. E’ al centro della realtà, in guerre lontane contro il terrorismo, in Mali, nella promozione di una quotidianità connessa, nella repressione generalizzata dei movimenti sociali, nella produzione di condizioni di vita sempre più normative e tecnologizzate.
All’aurora della nuova primavera, viene dichiarata di nuovo la guerra, come ultima ragione di unione, come causa comune, come dovere di fedeltà. In nome della salute e della sicurezza di tutti e tutte, eravamo destinati/e ad essere riuniti/e, contati/e, suddivisi/e, ordinati/e, assegnati/e, sorvegliati/e e studiati/e. Chiunque deroghi alla regola imposta da ministri, esperti in salute di ogni tipo, dai prefetti e dalla loro polizia, sarà trattato da irresponsabile che minaccia la salute dei più deboli. Non è cosa nuova che, in nome delle persone giudicate e classificate come «fragili», il potere si ritagli il suo ruolo migliore. Il potere è ambidestro. Tende la mano che protegge, quella che salva e coccola. Allo stesso tempo, colpisce e mutila. Sentiremo presto dire che ci sono delle tecniche di gestione statale della crisi migliori di altre. Si compara quello che succede a latitudini diverse. Si incriminano i poteri più totalitari, come in Cina e in Brasile. Ci si felicita del fatto che in Portogallo le istituzioni davano dei documenti a tutti i richiedenti asilo. Quasi quasi, non ci si sente poi così male, qui da noi.
Avanzo calmo/a nella penombra, qualche litro di combustibile nello zaino, una tronchese pesantemente posizionata contro la mia colonna vertebrale. Sono come assente a me stesso/a, assorto/a nel silenzio e nei mormorii notturni, preso/a dall’accuratezza dell’attività, poso i miei passi senza lasciare tracce. La cima è tranquilla. Una brezza leggera spazza la cresta, da dove vedo, ovunque in basso, il lampeggiare delle diverse installazioni elettriche della zona, campi di pale eoliche, ripetitori telefonici e pianure industriali. Mi apro un cammino nella griglia, spaccando una catena che blocca la porta del recinto principale e della più grande delle due antenne. Preparo il materiale e faccio attenzione a rimanere al sicuro da sguardi indiscreti, sotto il passamontagna.
Avanzando, continuo a pensare: come in ogni «crisi», che sia prodotta dal nulla dal potere oppure subita e gestita come gli riesce meglio, la situazione crea un contesto inedito, un supporto per la costruzione degli anelli mancanti nel meccanismo del progresso. Centinaia di scienziati, di medici e di ingenieri-biologisti sono venuti a proporci, per il nostro bene, delle ricette di balsami miracolosi, da ciarlatani del ventunesimo secolo. Molto più che venderci una qualunque medicina, ci vendevano delle ragioni per continuare ad avanzare, delle maniere di vivere. Nella sua risposta all’ira degli dei, la scienza si è offerta piena di promesse, apportando soluzioni innovative alle problematiche prodotte dal progresso. Il dispositivo sanitario opera anche una selezione fra maniere di morire che sono accettabili oppure no. I rischi nucleari e industriali, organizzati e costitutivi dell’attività umana, contrariamente alla maggior parte dei rischi biologici, producono morte e sofferenza ogni anno, verosimilmente in quantità davvero importante. Dov’è lo Stato benevolo e protettore, quando si tratta di proteggere i suoi cittadini dai tecnocrati del nucleare?
Di fronte a discorsi che possono parere vani o a volte mancare, le mie mani guantate fanno scivolare dei pacchetti di diavolina industriale sotto liane di cavi.
Vi verso anche del gel accendifuoco e mi volto verso l’uscita del recinto, per avvicinarmi alla seconda antenna. Un mini-escavatore, fermo per la notte, è naufragato al bordo del sito. Mi spiace non poterlo prendere di mira e mancare di materiale. Piazzo di nuovo dei dispositivi incendiari sui cavi più fragili e ritorno alla prima antenna.
Una volta sul posto, inzuppo bene il tutto con della benzina ed accendo, da una parte e dall’altra della struttura, due fuochi che la brezza gonfia progressivamente.
Scendo alla seconda antenna ed opero nello stesso modo. Mi allontano dal sito e sparisco nella notte.
La salute e la sicurezza sono diventate poco a poco i valori supremi che giustificano, da loro sole, gli sforzi e gli errori più assurdi. Il virus e la lotta contro la sua propagazione, per il fatto che esso incarna la morte che plana e che colpisce a caso, imprevisibile ed improvvisa, è diventato lo spettro da cacciare senza tregua, aumentando di continuo i limiti dei luoghi che siamo pronti ad evitare per non morire.
Quello che è stato interiorizzato, come esperienza collettiva, e forse in maniera definitiva, sono il gusto e la necessità del sacrificio. D’ora in poi, ci chiederanno in continuazione di svendere i brandelli rimasti delle nostre vite, per non perderle.
A posteriori, non so se questo attacco ha causato dei danni importanti. Magari solo qualche cavo sezionato. Quello che conta, per me, è il fatto di essere riuscito/a ad agire, anche da solo/a, di essere riuscito/a, in questa notte strappata all’assurdo, a superare i miei dubbi e le mie angosce ed aver colpito quello che sembra essere, oggi, un nodo essenziale della società attuale: la rete di telefonia mobile e l’insieme del mondo connesso che essa permette. Contro la società del controllo e la dittatura sanitaria.
Ho un pensiero di rabbia verso le tablet e i robot di assistenza medicale che è ormai di moda distribuire in gran numero nei mortori per persone anziane. Che le ultime persone che hanno attraversato questo secolo senza tecnologia muoiano circondate da robots e da applicazioni di ogni tipo, mi dà voglia di vomitare. Le linee di satelliti, spediti in orbita a migliaia di esemplari, che sabotano i misteri del cielo notturno, non saranno mai delle promesse di pace. Un pensiero per le porte che restano volontariamente aperte, in questo periodo difficile, per quelle e quelli che cercano, costi quel che costi, di non sacrificare le loro vite davanti alla paura. Ai colpi resi e ai colpi di mano. Ai brutti colpi ed ai colpi andati storti. A quelli/e che ci provano. A quelli/e che magari non attaccano, ma che aiutano a continuare e che infrangono le ovvietà.
E allora: smettere di vivere? Piuttosto morire!
[Rivendicazione in francese pubblicata in attaque.noblogs.org].
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Vallée de l’Ouvèze (Ardèche), France: Arrêter de vivre ? Plutôt mourir ! (03/05/2020)
Attaque antenne relais
Voilà plusieurs semaines déjà que l’état d’exception du confinement sanitaire est imposé à l’ensemble de la population, avec son lot d’interdits inédits, d’hypocrisie quotidienne et de promesses de salut.
Moi, je ne voulais pas mourir de peur et d’ennui perfusé.e devant netflix. Durant ce mois passé, la rage et la consternation de vivre en temps réel un mauvais roman d’anticipation sont devenus pour moi, plus qu’un poison, un antidote. J’ai donc décidé d’attaquer.
En étendant les frontières de l’illégalité, en s’imposant partout sur les routes, les flics et les citoyens vigilants ont transformé la géographie en un espace dans lequel il a fallu réapprendre à se déplacer, et à retrouver le chemin d’autres complices.
Puisque les croix sur les montagnes ont été remplacées par des pylônes de réseaux GSM et de 5G, cela dit quelque-chose de la forme que prennent actuellement le pouvoir et nos croyances de salut.
Il était temps alors de rallumer les feux sur les collines pour diffuser des messages plus essentiels et directs à cell.eux qui voudraient bien les percevoir, de brûler ces croix nouées de câbles de fibre optique et de réseaux électriques.
Je suis seul.e, quelque-part au dessus de la vallée de l’Ouvèze, entre le Pouzin et Privas, dimanche 3 mai vers 2 h du matin. Il a beaucoup plu durant les dernières heures et les ultimes panaches de brume évaporés du sol s’élèvent face aux halo d’une demi lune. La nuit est douce et si calme.
Ces dernières années, semblait croître dans les discours, l’impression que l’État laissait sa place progressivement à des formes de gouvernementalité plus libérales et économiques, qu’à un pouvoir vertical, se substituait déjà des formes plus diffuses, invisibles.
Mais l’état n’a pas disparu. Il est au centre des réalités dans les guerres lointaines contre le terrorisme au Mali, dans la promotion d’un quotidien connecté, dans la répression généralisée des mouvements sociaux, dans la production de cadres de vie de plus en plus normatifs et technologisés.
A l’aube du printemps nouveau, la guerre est de nouveau déclarée, comme ultime motif de rassemblement, comme cause commune, comme devoir d’allégeance. Au nom de la santé et de la sécurité de tous et toutes, nous étions voué.e.s à être rassemblé.e.s, compté.es, partitionné .es, rangé.es, assigné.es, surveillé.es et étudié.es.
Quiconque dérogerait à la règle imposée par les ministres, experts de la santé de tous poils, par les préfets et leur police, serait traité d’irresponsable menaçant la santé des plus faibles.
Ce n’est pas une aventure inédite qu’au nom des personnes jugées et classées comme « fragiles », le pouvoir se taille sa plus belle pièce. Le pouvoir est ambidextre. Il tend la main qui protège, celle qui sauve et cagole. Dans le même temps, il frappe et mutile. Bientôt, on entend qu’il y aurait de meilleurs gestions étatiques de la crise que d’autres. On compare ce qui se déroule sous différentes latitudes. On incrimine les pouvoirs plus totalitaires comme en Chine et au Brésil. On se félicite du fait qu’au Portugal, les institutions offriraient des papiers à tous les demandeurs d’asile. Bientôt, on ne se sent pas si mal, finalement, par chez nous.
J’avance calmement dans la pénombre, quelques litres liquides de combustible dans mon sac, une pince monseigneur lourdement calée contre ma colonne vertébrale. Je suis comme absent.e à moi même, absorbé.e par le silence et les murmures nocturnes, happé.e par la minutie de la tâche, déclinant mes pas sans laisser de traces. Le sommet est paisible. Une brise légère balaye la crête d’où je perçois, partout en contrebas, les clignotements de diverses installations électriques du secteur, champs d’éoliennes, antennes relais et plaines industrielles.
Je m’ouvre un chemin parmi les grilles en brisant une chaîne qui entrave la porte de l’enceinte principale de la plus importante des deux antennes. Je range mon matériel et prends soin de rester à l’abri d’éventuels regards sous mon passe-montagne.
En avançant, je continue de penser : comme dans toute « crise », qu’elle soit produite de toute pièce par le pouvoir, ou subie et gérée au mieux, la situation crée un contexte inédit, support à constituer les chaînons manquant dans la machinerie du progrès. Ils étaient des centaines de scientifiques, de médecins et de bio-ingénieurs à venir proposer pour notre bien, des recettes d’apothicaires miracles de charlatans du vingt et unième siècle. Bien plus que de nous vendre une médecine quelconque, ils nous vendaient des raisons de continuer de l’avant, des manières de vivre. Dans sa réponse aux courroux des dieux, la science s’est offerte en renfort de promesses, apportant des solutions innovantes, aux problématiques produites par le progrès.
Le dispositif sanitaire opère également un tri entre des façons de mourir acceptables ou non. Les risques nucléaires et industriels, alors qu’ils sont organisés et constitutifs de l’activité humaine, contrairement à la plupart des risques biologiques, produisent vraisemblablement la mort et la souffrance chaque année, de manière extrêmement importante. Où est-il l’état protecteur et bienveillant quand il s’agit de protéger ses citoyens des technocrates du nucléaire?
Face aux discours et aux mots qui peuvent sembler vains ou manquer parfois, mes mains gantées glissent des paquets d’allume-feux industriels sous des lianes de câbles.
J’y répands également du gel inflammable et me tourne vers la sortie de l’enceinte pour m’approcher du second pylône. Une mini-pelle stoppée pour la nuit est échouée à l’orée du site. Je regrette de ne pas m’y attaquer et de manquer de matériel. Je place de nouveau des dispositifs incendiaires sur les câbles plus frêles et retourne à ma première antenne.
Sur place, j’arrose copieusement le tout d’essence et allume de part en part de l’installation deux départs de feu que la brise gonfle progressivement.
Je descends au second pylône et opère de la même manière.
Je m’écarte du site et m’évapore dans la nuit.
La santé et la sécurité sont devenues petit à petit les valeurs suprêmes justifiant à elles seules, les efforts et les égarements les plus absurdes.
Le virus et le combat contre sa propagation, dans le fait qu’il incarne la mort qui plane et qui frappe au hasard, imprévisible et soudaine est devenu le spectre à pourchasser sans trêve repoussant sans cesse les limites des endroits dans lesquels nous sommes prêts à nous rendre pour ne pas mourir.
Ce qui a été intériorisé, peut-être définitivement, comme expérience collective, c’est le goût et la nécessité du sacrifice. A partir de maintenant, on nous demandera sans cesse de solder les lambeaux restants de notre vie pour ne pas la perdre.
Après coup, je ne sais pas si cette attaque a occasionné des dégâts importants. Peut-être seulement quelques câbles ont-ils été sectionnés. Ce qui a compté pour moi c’est d’avoir réussi à agir, même seul.e, d’être parvenu.e à surmonter durant cette nuit arrachée à l’absurde, mes doutes et mon angoisse et d’avoir frappé ce qui apparaît pour moi aujourd’hui, comme un nœud essentiel de la société actuelle : le réseau mobile et l’ensemble du monde connecté qu’il permet de produire.
Contre la société de contrôle et la dictature sanitaire.
J’ai une pensée de rage envers les tablettes tactiles et les robots assistants qu’il convient désormais de distribuer en nombre dans les mouroirs pour personnes âgées. Que les dernières personnes qui ont traversés ce siècle sans technologie meurent entourées de robots et d’applications de toute sorte me fout la gerbe. Les trains de satellites lâchés par milliers qui sabotent les mystères du ciel nocturne ne seront jamais des promesses de paix.
Une pensée pour les portes qui restent volontairement ouvertes durant cette période difficile, à celles et ceux qui tentent, coûte que coûte de ne pas sacrifier leur vie face à la peur. Aux coups rendus et aux coups de mains. Aux mauvais coups et aux coups ratés. A celleux qui tentent. A celleux qui ne n’attaquent pas forcément mais qui aident à continuer et qui brisent les évidences.
Alors quoi : arrêter de vivre ? Plutôt mourir !
[Depuis attaque.noblogs.org].