Una lettera dalle Vallette.
Care Compagne e Compagni,
sta per iniziare un’ordinaria settimana di coronavirus. Per chi è in carcere sono giorni più pesanti che mai. Cresce l’impressione di sentirsi in trappola, costretti ad aspettare immobili un male che, da un momento all’altro, ci può saltare addosso.
La tempesta di comunicati sul virus ci cala in testa dall’alto, dalle TV accese in tutte le celle. Le statistiche dei contagiati, dei morti, la corsa affannosa per tappare i buchi di una sanità pubblica da decenni volutamente falcidiata fanno da controcanto al tamburo del cuore che tra queste sbarre batte il ritmo dell’ineluttabile.
Qui dentro non c’è prevenzione reale. Anzi, le cosidette “misure preventive” non hanno avuto altro risultato che peggiorare disagio ed isolamento. Niente colloqui con i parenti; niente pacchi, nè portati nè spediti; sospese tutte le attività scolastiche e culturali; nessuna possibile attività di supplenza via internet, dal momento che in carcere non c’è accesso a strumenti informatici. Anche le cose più semplici come lavare gli indumenti personali qui dentro diventano un’impresa: da settimane la lavatrice a gettoni non è utilizzabile; l’unica alternativa è farsi il bucato nella doccia comune, dove gli scarichi funzionano male e si è costretti a lavorare con i piedi immersi nell’acqua.
Se qualcosa è cambiato, lo è in peggio, come il rincaro dei prezzi dei generi di prima necessità, acquistabili soltanto allo spaccio interno.
E veniamo alle presunte “misure igieniche” per prevenire il virus: per noi si limitano ad un bicchierino di sapone liquido ed una mezza bottiglietta di disinfettante per ogni cella (ci sono vietati i disinfettanti quali candeggina, alcool, ammoniaca). Quanto alle cosiddette mascherine, sono obbligatorie per gli avvocati, ma ne sono totalmente sprovvisti gli agenti (che pure vanno e vengono dall’esterno). Insomma… “io speriamo che me la cavo…”.
Il dato più incontrovertibile e preoccupante è il sovraffollamento del carcere con la presenza di bambini, detenuti anziani e malati cronici: come nel resto del Paese anche alle Vallette si vive in una specie di polveriera, che deflagrerà al primo colpito dal morbo.
La speranza di tutti è un qualche provvedimento che permetta la scarcerazione.
Giorni fa è comparso nelle sezioni un avviso in merito, parallelamente alla distribuzione di una “brochure informativa su misure alternative alla detenzione”, in realtà vecchia già di un anno. Il comunicato precisa che “si è costituita una commissione” per vagliare le domande alle misure alternative (ma le condizioni sono quelle già in vigore…). L’unica cosa chiara del comunicato è che al momento sono sospesi per i detenuti tutti i permessi di uscita dal carcere…del resto il Ministro di “ingiustizia” l’ha dichiarato: niente svuotacarceri, indulti, amnistie; tranquilli “uomini d’ordine”.
Insomma, l’ordinario rigore non muta, anzi peggiora in un clima di preoccupante irrazionalità: ci sentiamo più che mai espropriati di noi stessi ed in balia di chi “ci controlla”.
Mentre scrivo mi arriva il rumore dell’ennesima battitura alle inferriate….tra poco saranno alla mia cella…
Poche sere fa qui tirava un’aria particolarmente di minaccia: aumento della vigilanza in sezione; ronde potenziate ai camminamenti sulle mura; autoblindo nei cortili; il ronzio dell’elicottero sopra il carcere. Tutta questa militarizzazione per “fronteggiare” un preannunciato (e non avvenuto) “saluto dei parenti e solidali”.
Mentre scrivo, mi giungono dalla TV immagini dalle città nell’epidemia: strade deserte, ma un tripudio di balconi con famiglie affacciate, canti e inni che si inseguono da casa a casa…sventolio di drappi e di bandiere. Su tutte il tricolore, lo stesso che un paracadutista dell’esercito fa sventolare, mentre plana verso terra appeso al suo paracadute.
Anche qui in carcere, ieri, una detenuta proponeva un’applauso collettivo al mondo fuori, in nome della “patria che resiste”. Ma la sua proposta non ha avuto successo. Quell’inno e quella bandiera non li sentiamo nostri: la fratellanza è una cosa seria, che non si confà all’indifferenza che dall’esterno sentiamo per il nostro destino di “figli di un dio minore”.
Quanto al tricolore, è lo stesso che, insieme al vessillo UE, staziona all’ingresso del carcere e che viene esibito ogni giorno sulle divise dei nostri carcerieri. Non ci appartiene.
Nicoletta.