Agitata da due venti

Agitata da due venti,

Freme l′onda in mar turbato

E ‘l nocchiero spaventato

Già s′aspetta a naufragar.

 

Così recita la celebre aria contenuta nella Griselda di Antonio Vivaldi.
Secondo l’ultimo Rapporto pubblicato dagli psicologi di Stato del Censis, la società italiana sarebbe anch’essa agitata da due venti: quello della malinconia e quello della paura. Malinconica e impaurita, la società s’aspetta a naufragar. Il riferimento alla paura, stante la stretta che pesa su milioni di vite, è fin troppo scontato (avremmo potuto suggerirlo anche noi, gratis). Non così, invece, quello alla malinconia. Che sia questo il sentimento rilevato – e non, poniamo, l’apatia, la depressione fatalistica o il sordo rancore – ha qualcosa di sorprendente. Esiste, infatti, un’intensa quanto sotterranea storia etico-filosofica dell’affinità tra malinconia e rivoluzione, che sgorga ad esempio nei magnifici versi de Gli anarchici di Léo Ferré:

Hanno bandiere nere della speranza

e la malinconia come compagnia di danza.

(Nella versione originale: et la mélancolie pour traîner dans la vie / e la malinconia per tirar tardi nella vita).
Sul rapporto tra malinconia e rivoluzione tornerò subito dopo. Prima vi racconto un incontro straordinario che mi è capitato di fare in passato.
Diversi anni fa, mi era stato chiesto di «seguire» un ragazzo autistico. L’ho effettivamente seguìto per un certo periodo, non nel senso assistenziale, bensì in quello letterale del termine, cioè gli sono andato dietro nel suo mondo. Sono piombato, attraverso i nostri dialoghi al computer (egli non parla e non scrive a mano), in un universo popolato di figure e privo di concetti. Per il ragazzo, infatti, gli universali di cui si nutrono il linguaggio e il pensiero discorsivo (l’idea di cane, di sotto, di domani ecc.) avevano un significato puramente convenzionale, che sapeva usare, ma erano per lui privi di senso. Quando pensava al cane, passava in rassegna i cani concreti che aveva incontrato nella propria vita; quando pensava a sotto, si visualizzava seduto sotto un tavolo; quando pensava a domani, si figurava una porta aperta, e così via. Cioè traduceva i concetti nelle immagini della propria esperienza quotidiana. Per lui orientarsi nel mondo richiedeva e richiede uno sforzo di concentrazione immane, dal momento che ogni suono, ogni parola, ogni oggetto mobilita l’insieme dei suoi sensi per isolare il singolo stimolo da un contesto altrimenti indecifrabile e caotico (la sua condizione più vicina alla felicità è quella di non dover reagire a nulla, di non dover comunicare con nessuno, in una stanza perfettamente insonorizzata). Una capacità straordinaria che ha sviluppato per non allertare di continuo tutti i sensi è quella di riconoscere le emozioni delle persone dall’odore ch’esse emanano. Potete immaginare la mia curiosità, che ho pagato con non pochi pugni e testate in faccia (d’altronde, «attraverso il patire il sapere»…), di fronte a un approccio così sensoriale alle tonalità emotive. Tornando al nostro tema, sapete che odore ha la paura? Nessuno. Le persone impaurite, mi raccontava il ragazzo, smettono di avere un odore. La paura non è un’emozione tra le altre, ma il grado zero delle emozioni, la loro paralisi. La malinconia, invece, odorava per lui di… «leggera impanatura». Ne potrei dedurre che al suo naso la società italiana non sa oggi propriamente di nulla, come se fosse un congegno meccanico che si autoalimenta; solo ne emerge un odore di leggera impanatura. Ma sarebbe una deduzione errata: non esistendo, nel suo pensiero, la società, ma soltanto gli individui concreti con cui entra in rapporto (quelle esistenze in carne e ossa che il «platonismo» del Censis non è in grado di rilevare, se non nella forma del campione statistico).

Nella storia del rapporto tra malinconia e rivoluzione, le stelle polari sono senz’altro Baudelaire, Landauer e Benjamin. È dentro quegli ateliers – corredati dalle incisioni di Dürer e abitati dai fantasmi di Warburg – che possiamo trovare ancora delle chiavi per aprire le porte che ci rinchiudono.
Per Baudelaire, sotto il «fanale oscuro» del Progresso «i popoli si addormenteranno sul cuscino della fatalità nel sonno rimbecillito della decrepitezza». Per questo, ha scritto Benjamin, «interrompere il corso del mondo – ecco il desiderio più profondo di Baudelaire», il cui spleen è «il sentimento che corrisponde alla catastrofe in permanenza», contro cui è persino «disprezzabile far entrare in gioco l’idea di progresso». La prospettiva rivoluzionaria non può annunciarsi con una «cattiva poesia sulla primavera», bensì rompere da dentro la Schockerlebnis, quell’esperienza vissuta dello shock capace di trasformare gli umani in automi «che hanno completamente liquidato la loro memoria».
La forza in grado di spezzare lo shock – «prodotto di un infame meccanismo artificiale, retto dall’interno da Satana» (E.T.A. Hoffman) e attivare così la memoria, deve avere la qualità di una antica fede: ecco cosa ha ripetuto per tutta la vita l’ispirato e malinconico Gustav Landauer. Se lo Stato «è il vero Anticristo», esso può essere sconfitto solo «quando l’incredibile, il miracolo si sposta verso il regno del possibile», quando riaffiora «l’arci-antico, che ritroviamo nella nostra anima, come cammino dell’umanità in divenire, poiché la tradizione del nostro cuore martirizzato e nostalgico non è altro che la rivoluzione e la rigenerazione dell’umanità».

– Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali

a lungo, lentamente, nel mio cuore: la Speranza,

Vinta, piange, e l’Angoscia atroce, dispotica,

pianta, nel mio cranio riverso, il suo vessillo nero.

Così il poeta. Se ad agitare la società fosse oggi, insieme alla paura, l’imbelle speranza nel Progresso, ci sarebbe effettivamente di che disperare. Il sentimento di qualcosa che incombe, invece, è più che adeguato al mondo-macchina – per questo il vento gelido della paura gli impedisce di trovare voce, e spazio, e slancio. Incerto è il confine umorale tra la bile nera (secondo l’etimo greca di melancolia), l’accidia e la collera. I malinconici, inappartenenti al mondo, si nutrono di nostalgia per l’infanzia perduta o per un amore non ancora vissuto, da cui emana l’odore di leggera impanatura e che nasconde in sé un possibile tesoro: «l’interruzione mille volte mancata e finalmente compiuta». Quali potrebbero esserne oggi la figura aurorale e il «dispositivo d’innesco»?