Un circondo per viverci dentro. Note sulla società industriale e la sua ecologia

 

Siamo già arrivati alla 27° edizione della CoP sul clima, a dimostrazione di come l’ecologismo di Stato continui indisturbato tanto nei suoi menzogneri appelli quanto nelle sue redditizie “soluzioni”. Così, possiamo commentare il summit in Egitto di questi giorni ripubblicando un contributo distribuito in occasione della CoP9 svoltasi a Milano il 5 dicembre 2003. A quasi vent’anni di distanza, diverse considerazioni su carcere, repressione e guerra suonano sinistramente attuali («La repressione è il bulldozer di un capitalismo distruttore di mondi, di una civiltà che isola le donne e gli uomini per poi socializzarli nelle proprie comunità virtuali»). Mentre in materia di Emergenze – e di incarcerazione tecnologica della vita – non si può certo dire che in questi due decenni siano mancate le novità.

Qui il testo in pdf: Un circondo (1)

Un circondo per viverci dentro.

Note sulla società industriale e la sua ecologia

 

 

Il bosco e il villaggio

Un circondo per viverci dentro”, così un ragazzino definiva l’ambiente in un tema proposto a varie classi delle scuole elementari di Rovereto e dintorni. È una delle definizioni più belle che conosco. Bisogna partire, infatti, proprio da questo: guardarsi attorno. Che quanto ci circonda non sia fatto per “viverci dentro” salta agli occhi. Ci si può sopravvivere, e sempre più a scapito di milioni di persone – ecco tutto.

Nelle note che seguono cercherò di mettere in luce alcuni rapporti fra la progressiva perdita di autonomia individuale e sociale, la devastazione ambientale e l’acuirsi della repressione. Questo non per aggiornare l’infinito catalogo degli orrori e delle lamentazioni, bensì per riflettere su alcune possibilità. Una volta tanto, partirò da un “per” e non da un “contro”.

Cos’è un “circondo per viverci dentro”? Direi un luogo in cui si intreccia con arte il piacere della solitudine e quello dell’incontro, mentre sappiamo per esperienza che la società industriale distrugge entrambi. Con un’efficace espressione, Günther Anders definiva i cittadini contemporanei degli “eremiti di massa”, sempre più atomizzati nei loro rapporti e sempre più massificati nelle attività, nei gusti, negli spostamenti. Una solitudine piena è altrettanto difficile di un incontro realmente reciproco e senza mediazioni. Se pensiamo la natura selvaggia come luogo della solitudine e il borgo abitato come luogo dell’incontro, un “circondo per viverci dentro” è uno scambio ininterrotto fra il bosco e il villaggio, un passaggio continuo e senza violenze fra l’uno e l’altro. È la possibilità di partire dai propri simili per farvi poi ritorno – di più, è la presenza costante allo sguardo di una tale possibilità. Partire in cerca di nuovi pensieri, di nuovi spaesamenti, di nuove paure, anche. Il bosco che diventa campagna, la campagna che diventa giardino, il giardino che diventa piazza, strada, casa. Ma un “circondo per viverci dentro” è soprattutto un’umanità che sa attraversare e abitare questi spazi, che sa padroneggiarne gli usi, i costumi, le tecniche.

La nostra autonomia è un rapporto incessante fra ciò che è pre-individuale e ciò che è individuale. Pre-individuale è tutto quello che è comune e generico, come le facoltà biologiche della specie umana, la lingua e i rapporti sociali che troviamo quando nasciamo. Individuale è ciò che strappiamo con la nostra azione. Noi diventiamo individui attraverso il nostro modo di entrare in relazione con la natura e con la storia. In questo senso, solitudine e incontro, bosco e villaggio sono una soglia tra il passato e il presente. Così come l’etica individuale nasce e si staglia in una dimensione collettiva (il concetto di ethos rinvia non a caso al luogo in cui si vive, agli usi e ai costumi), gli spazi di vita sono l’incontro tra le generazioni e la loro arte di abitare. La società industriale, invece, rende sempre più impossibile la coabitazione dei diversi usi e costumi, così come abolisce ogni scambio armonioso fra le differenti tecniche elaborate nel corso della storia, distruggendo in questo modo la creatività di base delle comunità.

Insomma, un “circondo per viverci dentro” è un luogo in cui l’“arte di pronunciare grandi discorsi e di realizzare grandi gesta” (per riprendere la splendida definizione di politica che si trova in Omero) risponde a due esigenze fondamentali:

che l’attività non si separi dalla sua rappresentazione;

che le tecniche impiegate non siano irreversibili.

Una delle caratteristiche essenziali dell’attuale società è che in essa assistiamo ad un scarto crescente fra l’attività che svolgiamo e la nostra capacità di rappresentarci le conseguenze di tale attività. A causa dell’estrema parcellizzazione e specializzazione del lavoro, a causa di un gigantesco apparato tecnologico che ci fa ogni giorno più ignoranti circa gli strumenti che usiamo (incapaci come siamo, individualmente, di capirne la natura, di padroneggiarne la produzione, di ripararne i guasti), non abbiamo coscienza della portata dei nostri gesti. Ecco perché il prodotto del nostro agire può essere tranquillamente falsificato e artificialmente ricostruito. Tanto per fare un esempio, qualcuno notava che è più facile – in termini di riflesso reale dell’azione sulla coscienza – bombardare una popolazione intera che non uccidere una singola persona. Una popolazione bombardata è solo qualche lucetta su di uno schermo, mentre una persona uccisa è un realtà di cui la coscienza avverte tutto il peso. Ecco perché l’attuale società riesce a far sopportare una quotidiana carneficina scientificamente organizzata: perché rende sempre più opaca la relazione fra i gesti e le loro conseguenze. Dalla speculazione finanziaria alla produzione militare, dalle necrotecnologie al nucleare, ciascuno troverà da sé gli esempi.

Un “circondo per viverci dentro” è un luogo in cui l’attività non si separa nella sua rappresentazione (sia questa intesa in senso politico, come delega, in senso mediatico, come sistema di immagini da contemplare passivamente, oppure in senso mentale, come offuscamento della coscienza).

Un’altra caratteristica decisiva dell’attuale società è che essa ha sottratto le tecniche (di produrre, di costruire, di scambiare) ad ogni dimensione locale e comunitaria, allontanandole in una megamacchina le cui conseguenze sono sempre più irreversibili. Dalle scorie nucleari alle mutazioni genetiche, la tecno-scienza ha perso ogni carattere sperimentale – dunque reversibile – perché i suoi esperimenti hanno già il mondo come laboratorio – e non c’è alcun mondo di riserva.

Un “circondo per viverci dentro” è un luogo in cui la questione dell’efficacia tecnica è sempre subordinata a considerazioni etiche e sociali, in cui si può tornare indietro quando una strada porta all’impoverimento dei rapporti umani, alla specializzazione gerarchica, al potere. Solo un’ideologia totalitaria legittima come scientifico tutto ciò che è tecnicamente realizzabile, imprigionando così il divenire umano in una successione meccanica senza fine. Un progresso degno di questo nome – nei costumi, nella mentalità, nei rapporti sociali – va cercato contro questa marcia forzata.

Una ruota di scorta

L’ecologia di Stato – di cui il vertice di COP9 a Milano rappresenta un bel concentrato – è solo la ruota di scorta della società industriale. Anzi, essa è sempre più la gestione poliziesca delle “risorse ambientali”. Senza mai mettere in discussione la dipendenza generalizzata dalle materie e dalle tecnologie più inquinanti, cerca di “moralizzare” i cittadini atomizzati sottoponendoli ad ulteriori controlli e vessazioni. Visto che questa società non sa più dove mettere i propri rifiuti (in senso stretto e lato), andiamo a frugare nella spazzatura di ogni famiglia e puniamo gli spreconi…

Un fulgido esempio di questo ecologismo è la proposta fatta da Legambiente in merito alle nuove energie per bloccare i gas serra. Per tutta la durata del vertice, inviando con il telefono cellulare due sms da un euro l’uno si contribuisce non solo a diffondere il cancro, ma anche – bontà delle compagnie della telefonia mobile – ad acquistare una centrale eolica nello Swaziland, in Africa. Se talvolta questi ambientalisti di corte lanciano allarmi catastrofisti (sull’ozono, sui ghiacciai, sulla scarsità dell’acqua) è solo per spingere ancora di più i civilizzati attorno alle istituzioni e ai loro pretesi esperti. Per farla breve, quest’ecologia è la soluzione statale a problemi statali, la soluzione capitalista a problemi capitalisti.

Finora la più bella – e involontaria – risposta al vertice dei distruttori del pianeta l’hanno data gli auto-ferro-tranvieri milanesi annunciando il caloroso ritorno di quel gatto selvaggio di cui da tempo si avvertiva l’assenza. Al di là delle loro rivendicazioni salariali, sostenute fuori da ogni messa in scena sindacale, questi “irresponsabili”, questi “criminali”, questi “terroristi urbani” (come li ha definiti il coro mediatico e politico) hanno posto un importante problema di ecologia sociale: quello degli spostamenti nelle metropoli. Un semplice blocco della rete dei trasporti ha paralizzato un’intera città. I cittadini, invece di interrogarsi su quanto realmente controllano della propria vita e della propria mobilità, hanno urlato allo scandalo, assembrati sui marciapiedi, rinfacciandosi l’un l’altro il fatto stesso di esistere. Non sono mancati gli ecologisti che hanno rimproverato agli scioperanti di aver fatto aumentare l’inquinamento a causa del traffico automobilistico supplementare (come se i ritardi o le assenze sul posto di lavoro non avessero, in realtà, pulito un po’ l’aria…).

Una sensibilità e il suo mondo

Ci sono state, negli ultimi anni, alcune lotte che hanno saputo intrecciare l’esigenza dello scontro e dell’azione diretta con la realtà e il sogno di un “circondo per viverci dentro”. Penso alle tante iniziative ed azioni in solidarietà con Marco Camenisch. Mi sembra che queste abbiano saputo più volte superare i limiti presenti in genere nelle mobilitazioni a sostegno di qualche detenuto particolare, comunicando una sensibilità e il suo mondo. Mi spiego. Di fronte alla repressione c’è spesso la tendenza quasi a sospendere le proprie lotte per parlare di carcere e dei compagni dentro, riducendo – involontariamente – la partita ad un conflitto fra noi e il potere. Nel caso della solidarietà con Marco, invece, si è partiti dalla sua lotta e si è impostata la battaglia per la sua liberazione nel senso di continuare e rafforzare le ragioni per cui è stato arrestato: la critica pratica delle nocività ambientali e sociali. Sappiamo per esperienza che quella resistenza alla tirannia del progresso ha saputo parlare non solo ai compagni, ma anche ad altri, e che alcuni montanari e pastori hanno sentito Marco come uno di loro. Lo stesso ho notato a tratti nella campagna contro Benetton. Le iniziative contro le multinazionali portano di frequente a trascurare il normale dispotismo della produzione industriale per concentrarsi sugli eccessi di una certa economia globalizzata – penso sia inutile fare esempi. Aver legato le devastazioni ambientali provocate dalla Benetton alla vita e alla resistenza dei Mapuche ha saputo avvicinare il problema, invece di allontanarlo in un esotismo dalle tinte solidali. Sono piccole tracce. Che un’opposizione alle nocività basata sull’azione diretta possa generalizzarsi lo dimostra, tuttavia, quanto è accaduto recentemente in Basilicata. Non sto dicendo che bisogna parlare più di ambiente e meno di carcere. Tutt’altro. Sto dicendo che è possibile porre il problema del carcere – nei discorsi e nelle pratiche – in senso sociale, e non partendo dalle “sfortune nostre”. Il modo migliore di essere solidali con i compagni prigionieri è radicalizzare le nostre lotte nel loro insieme.

Non c’è dubbio che si stia alzando un forte vento repressivo. Penso che la posta in gioco decisiva sia quella di riuscire a leggere questa repressione. Le attuali condizioni i vita e di lavoro possono essere imposte con un uso sempre più massiccio del terrore (terrore di rimanere disoccupati, di non riuscire a pagare gli affitti sempre più esorbitanti, terrore della polizia e del carcere). La repressione agisce contro individui atomizzati, sempre più dipendenti da un modo di vita in liquidazione che li sta rendendo incapaci di ogni solidarietà materiale e ideale. È un errore astrarre gli attacchi repressivi da questa disintegrazione progressiva del mondo – nel senso di un’esperienza diretta della realtà e dei propri simili, fuori dalla campana di vetro mediatica e mercantile, fuori dagli appartamenti-loculi di un’urbanistica concentrazionaria. Saper leggere la repressione significa anche non cadere nell’illusione che il potere ci colpisca perché siamo una reale minaccia (con tutte le chiusure identitarie che una simile illusione comporta). Se, come diceva qualcuno, siamo un detonatore, scopo del potere è quello di isolarci da ogni materiale esplosivo, cioè da ogni contesto sociale di lotta. Noi dovremmo fare – con la parola e con l’azione – l’esatto contrario.

Nell’ambiente anti-industriale si fa spesso riferimento, giustamente, all’insurrezione luddista contro il macchinismo (1811-1813). Se il governo inglese dovette impiegare contro i distruttori di macchine più soldati di quelli impiegati contro le truppe napoleoniche è perché aveva di fronte un’autentica sommossa sociale, anonima e senza capi. Una sommossa in cui l’arma del sabotaggio – da sempre strumento per eccellenza di lotta proletaria – portava con sé un “circondo per viverci dentro”. Che fosse all’opera una vera e propria intelligenza sociale, lo dimostra il fatto che, durante gli assalti ai macchinari industriali, venivano risparmiate quelle macchine che potevano essere utilizzate, scambiate e riparate su base locale e comunitaria, cioè fuori dal sistema della fabbrica. A dispetto delle accuse da parte di tutti gli storici progressisti e marxisti, in quella rivolta non c’era nulla di “cieco”. Un’economia di sussistenza che faceva un largo uso delle terre collettive si scontrava con il sistema della proprietà, un’autonomia nell’arte di costruire le case e di produrre, all’incrocio fra borgo e campagna, si scontrava con la deportazione nelle città. L’industrialismo ha dovuto educare – a bastonate – le sensibilità per renderle adatte al suo mondo, alle sue tecniche, ai suoi valori. La repressione è il bulldozer di un capitalismo distruttore di mondi, di una civiltà che isola le donne e gli uomini per poi socializzarli nelle proprie comunità virtuali.

L’utopia nel fango

Mi sembra che la situazione attuale sia gonfia di possibilità. Se non fossimo spesso incapaci di praticare la poesia, cioè “l’arte di fare matrimoni e divorzi illegali fra le cose”, come diceva Bacone, coglieremmo molti nessi tra situazioni apparentemente distanti fra loro. Un esempio può essere quello già fatto prima, dello sciopero selvaggio dei tranvieri il giorno di apertura della conferenza sull’ambiente. Ce ne sono tanti altri. Mi piacerebbe, a questo proposito, che si approfondisse una discussione tra i compagni: la guerriglia in Iraq e le questioni che apre.

Quanto sta accadendo laggiù conferma una verità enunciate spesso dai rivoluzionari: ciò che nessun esercito potrebbe fare (fronteggiare e mettere in serie difficoltà la più grande potenza militare del mondo), riesce a farlo una guerriglia sociale. Questo suggerisce una volta di più la necessità di pensare diversamente – anche in situazioni molto più piccole – il concetto di forza. Ma non è tanto di questo che mi interessa parlare, anche perché abbiamo ben poche informazioni sul ruolo che gioca nella resistenza irachena il clan legato al vecchio regime (per quanto l’estrema diversificazione delle tecniche di attacco alle truppe di occupazione suggerisca che è in atto uno scontro sociale non riducibile a una guerra fra poteri). Così come do qui per scontata l’importante occasione che abbiamo, soprattutto dopo Nassiriya, di parlare di chi sono i veri terroristi (gli Stati e loro servi), visto l’uso propagandistico – con le sue immediate ricadute repressive – che viene fatto dell’“allarme terrorismo”. I governanti sanno collegare fin troppo bene il Nemico esterno (chi ostacola le aggressioni militari) al Nemico interno (chiunque esca dal coro del consenso). Dovremmo trarne, in fretta, qualche lezione.

La situazione irachena offre, invece, diversi spunti in merito al rapporto già accennato fra società industriale, emergenza ecologica e repressione. Ne sottolineo un paio.

La questione del petrolio. Molti studi commissionati dalle compagnie petroliferi sono concordi nell’indicare entro i prossimi dieci anni l’esaurimento delle risorse di greggio (non l’esaurimento assoluto, bensì di quella parte di petrolio estraibile con un impiego di energia inferiore a quella ricavabile dal petrolio estratto). La curva indicata per il gas naturale non è di molti anni più lunga. Gli stessi studi ci informano che tutte le energie alternative (nucleare compreso) non riuscirebbero a soddisfare nemmeno la metà dell’attuale fabbisogno. Senza entrare qui nel dettaglio (rinvio, a questo proposito, a Le grandi crisi ambientali globali. Un sistema in agonia, il rischio di guerra di Alberto Di Fazio, nel volume collettivo Culture per la pace, Manifestolibri, Roma 2003), una questione si pone. Anche non pensando che il capitale sia sprovvisto di progetti alternativi, tenuti per il momento opportunamente nascosti, non c’è dubbio che il problema esiste, e che mette in luce alcuni limiti storici – se non addirittura ecologico-planetari – della presente organizzazione sociale. Tanto per fare un esempio, pensiamo che l’odierna agricoltura dipende al 95% dal petrolio (diserbanti, pesticidi, trattori, industrie per fabbricare i pezzi dei macchinari e degli altri strumenti, mezzi per assemblarli e trasportali, centrali per permettere tutto ciò, e così via). Questa società del petrolio ha talmente generalizzato la dipendenza da un’unica risorsa (persino l’estrazione e la distribuzione dell’acqua vi sono subordinate, e non solo per i famosi pozzi tubolari azionati dai motori diesel) che la scarsità di tale risorsa si sta configurando come una catastrofe. Soluzioni alternative o meno, il salto non sarà indolore, e i dirigenti lo sanno.

Sbaglia chi vede nella guerra in Iraq – e questo è il secondo punto che volevo sottolineare – solo un’occupazione militare per accaparrarsi le risorse energetiche di quella regione (c’è anche questo, certo, come dimostra il ruolo fondamentale delle compagnie petrolifere nel sostegno all’amministrazione Bush). Quella in corso è una gigantesca sperimentazione politica e sociale: testare le capacità di resistenza di intere popolazioni poste in situazioni limite, situazioni che in futuro saranno sempre più frequenti. L’Iraq è un laboratorio (di investimenti economici, di strategia militare, ma soprattutto di ingegneria sociale). Il dominio – si tratti di necrotecnologie o di petrolio – sta realizzando sempre di più una sorta di experimentum mundi: di sperimentazione sul mondo in quanto tale. I civilizzati devono essere abituati a tutto ciò con dosi sempre più massicce di controllo, di vessazioni, di terrore. Negli Stati Uniti ci sono attualmente più detenuti che contadini. Di fronte a questa realtà, gli accordi di Kyoto sono una macabra presa in giro, o, meglio, un ultimatum che suona così: non avrai altro mondo all’infuori di me. E qui casca il sipario di ogni ecologia che non voglia sovvertire questa società e le sue istituzioni. Tutte le energie alternative del mondo, tutte le coltivazioni biologiche più attente si scontrano con questo fatto: quando l’agricoltura stessa, ormai interamente meccanizzata, non può fare a meno di un sistema di morte, non c’è nulla da riformare. Ecco cosa ci stanno dicendo la guerra e la guerriglia in Iraq.

Nessuna illusione. Il “circondo per viverci dentro” che abbiamo nel cuore nascerà dal fango, ma anche nel fango bisogna affermare sempre il modo di vita per cui ci battiamo.

un amico di Ludd