Sulla controrivoluzione preventiva in corso

Riceviamo e diffondiamo:

I tempi che corrono hanno le caratteristiche della scena del dispiegamento di una controrivoluzione in forma preventiva – una “controrivoluzione senza rivoluzione” – messa in campo dal capitale e dai suoi apparati di comando, dirigenziali e difensivi. Le conseguenze dell’espansione tecno-capitalista stanno assumendo una scala tale da cominciare a determinarne l’implosione, le necessità interne di ristrutturazione e riorganizzazione si fanno impellenti e muovono verso la ricerca di nuovi orizzonti di sfruttamento e prelievo delle materie prime necessarie, sia minerali che umane.

La percezione e il giudizio sulla necessità o reale esistenza di una strategia controrivoluzionaria – intesa come “lo sbocco naturale, conseguenza materiale delle ostilità di classe” – da parte del dominio potrebbero variare molto a seconda della parte del pianeta nella quale ci si trovasse oggi a valutarle, se nell’America del Sud, nell’Africa subsahariana, nella pazientissima Europa o ancora altrove. Ma apparirebbe senz’altro un processo più uniforme nello spazio se si guardasse ad essa come ad una necessità da parte capitalista di uno stravolgimento radicale sia dei modi di produzione che dei modi di vita ad essi legati, mutamento che rassoda e rilancia il comando, in un processo che alla fine lascerà poco di immutato, verosimilmente dopo lunghi stati di “emergenza”. Una fase di mutazione delle mentalità, delle attitudini culturali, naturalmente dei consumi, che dà corso ad un nuovo senso comune.

La transizione è infatti in corso non solo nei territori della promessa “rivoluzione digitale”, ma pressoché ovunque, in forme a volte tanto diverse da sembrare quasi differite nel tempo a seconda da quale luogo si guardi.

Da un punto di vista sociale, tanto nei paesi a così detto capitalismo avanzato che nelle loro colonie, ed al pari di ogni altra fase di transizione, anche quella odierna necessita dell’affermazione di una nuova “soggettività”, di uomini e donne nuovi, funzionali a nuovi rapporti di sfruttamento e dinamiche di accumulazione, ma soprattutto ad una nuova disciplina sociale a questi necessaria. Disciplina da ottenersi con le buone – indottrinamento, obbedienza, consenso – o con le cattive – isolamento, tortura, proiettili.

La nostra alienazione tecnologicamente assistita ha il suo corrispettivo non solo nelle miniere di coltan del Congo e nelle fabbriche dell’hi-tech cinesi da migliaia di suicidi all’anno, ma anche nelle migliaia di donne, spesso anziane contadine, torturate e assassinate nel continente africano nella nuova “caccia alle streghe”, motivata dalla volontà di accaparramento delle terre comuni e portata avanti non da inquisitori papali o magistrati del re, ma da giovani uomini mercenari al soldo dei capi-villaggio o di compagnie private o statali, giovani spesso appartenenti alle medesime comunità delle donne uccise, i più miserabili sgherri del liberismo economico in quelle terre.

Da un punto di vista più materiale, se dalle nostre parti i connotati della guerra agli sfruttati vanno assumendo sempre più la forma di dispositivi di controllo fino a non molto tempo fa inauditi, delle interfacce uomo-macchina, delle identità digitali, delle tecnologie di evoluzione assistita, delle terapie geniche sperimentali, solo per citarne alcuni, in continenti come l’Africa o il Sud America hanno quelle, tra le altre, del “neo” colonialismo estrattivista fatto di disgregazione e rimozione delle comunità indigene, delle condizioni di esistenza e riproduzione loro proprie, dei legami di solidarietà secolari, per la privatizzazione e il conseguente accaparramento delle terre e l’estrazione di materie prime fondamentali alla ristrutturazione dell’infrastruttura economica nostrana, assieme alla ben nota funzione di serbatoi di materia prima umana.

Queste dinamiche si configurano come necessità interne ed indipendenti del capitale in questa sua propria fase di riassestamento e non – almeno non alle nostre latitudini – come logica risposta da parte di stati e padroni a significativi cicli di lotte precedenti da parte degli sfruttati e delle sfruttate.

Necessità intrinseche di espansione e sviluppo agirono ad esempio in diverse aree del vecchio Mondo nei secoli XV e XVI, quando chiesa, proprietari terrieri e nascente borghesia mercantile imposero il nuovo paradigma economico, allora ancora in fasce, di accumulazione fondata sull’esproprio e lo sfruttamento delle terre comuni e di chi di quelle terre viveva, ponendo al contempo fine alle lotte che il proletariato urbano e rurale aveva portato avanti in diverse parti d’Europa nel secolo precedente. Ed agirono anche nella seconda metà degli anni ’70 in Italia quando la così detta ”sconfitta operaia” fu determinata anche da autonome necessità di ristrutturazione del sistema di produzione in quella particolare fase – automazione, decentramento produttivo, fine del “welfare state” e conseguente espulsione e disgregazione delle “masse operaie” – e il livello di brutalità repressiva dispiegato dallo stato fu sia risposta alle lotte degli anni precedenti sia al contempo preparazione al successivo contesto produttivo e sociale.

Da un punto di vista giuridico-poliziesco, la fase attuale vede invece il netto inasprimento degli strumenti e dei tentativi repressivi dello stato, tali da apparire talvolta perfino ingiustificati dall’attuale livello di conflitto messo in campo. Questa lettura potrebbe essere fuorviante, tanto quanto quella che intravedrebbe una qualche “paura” degli apparati – davanti a certe parole o a certi fatti – dietro a determinate mosse repressive, mentre queste potrebbero essere giustificate invece da un certo tempismo, relativo proprio alla fase in corso. La fase di ristrutturazione in svolgimento è delicata, la posta in gioco molto alta, e non è il caso di permettersi alcuna interferenza, né la più né la meno preoccupante. Nulla deve essere tollerato, tutto ciò che si oppone deve essere spazzato via, indipendentemente dalle idee, dalle pratiche, dalle forme organizzative in cui si manifesta. La controrivoluzione è a tutti i costi, con tutti i mezzi e senza esclusione di colpi, per la conservazione di stati e capitali.

Che questo significhi o meno, al tempo stesso, una profonda debolezza del sistema e dei suoi apparati, è forse di poca importanza dati gli attuali rapporti di forza; come si è visto e si continua a vedere un po’ dappertutto nel mondo, quando sono alle strette ed ogni volta che serve loro, stato e padroni sparano.

Per noi, due questioni ineludibili, tra le molte altre, rimangono aperte: quella, sempre la stessa, del nostro utilizzo e dipendenza da quegli stessi mezzi e strumenti – tecnologici ma non solo – di cui è composto l’arsenale del dominio e quella, sempre più urgente, del come fare ad affiancare all’indispensabile e doveroso sabotaggio delle macchine esistenti anche quello delle macchine future, prima che esse facciano la loro istantanea comparsa ad aumentare da un giorno all’altro il carico di alienazione, sfruttamento e repressione.

A. Bandini