Da Covid-19 a Putin-22: chi ha bisogno di amici con nemici come questi?

 

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessante contributo di Fabio Vighi, già autore di una serie di articoli illuminanti sulle ragioni economiche dell’Emergenza Covid-19 (a partire da Paradigma Covid: collasso sistemico e fantasma pandemico, di cui consigliamo la lettura: https://sinistrainrete.info/crisi-mondiale/20663-fabio-vighi-paradigma-covid-collasso-sistemico-e-fantasma-pandemico.html ). Già pubblicato in inglese (https://thephilosophicalsalon.com/from-covid-19-to-putin-22-who-needs-friends-with-enemies-like-these/), questo nuovo testo di Vighi tratta la guerra in Ucraina (e quelle che probabilmente ne seguiranno) a partire da un insolito sguardo, che tenta di mettere in luce gli interessi comuni delle diverse classi dominanti planetarie nell’alimentare un conflitto potenzialmente infinito, vòlto – come la precedente Emergenza e quelle che verranno… – ad arginare e rimandare una crisi del capitalismo talmente profonda da risultare irreversibile, ma ancora gestibile attraverso la combinazione del sortilegio mediatico con quello finanziario. Nel frattempo, mentre la fuga in avanti del capitale non fa che annunciare e preparare nuovi disastri, l’Occidente non rinuncia ai propri traffici con la Russia che, in barba allo spettacolo bellico delle sanzioni, continuano per vie traverse…

Al di là di qualche disaccordo (ad esempio, definire “genocidio” il massacro di 15.000 russofoni del Donbass ci pare una banalizzazione di un concetto troppo grave per essere utilizzato così; mentre il cambio di regime seguìto a Maidan, sicuramente eterodiretto, meriterebbe di essere integrato da considerazioni sul carattere anche spontaneo di quella rivolta, e da un approfondimento delle sue cause), si tratta di un utile invito a guardare sotto la superficie, da leggere e meditare con attenzione.

 

Da Covid-19 a Putin-22: chi ha bisogno di amici con nemici come questi?

 

Iperrealtà quotidiana

Come in un montaggio hollywoodiano, l’inquadratura in campo lungo sulla “guerra al Covid” ha lasciato spazio a un primo piano sulla “guerra ucraina”, senza che lo spettatore si accorgesse di alcuno stacco. Nel frattempo, Vladimir Putin ha sostituito Virus nelle vesti di nemico pubblico numero uno. Se il passaggio di testimone era prevedibile, la tempistica è risultata fin troppo perfetta. Sono allora intervenuti, come al solito, i coreografi creativi dei media aziendali, assicurandoci da subito una rappresentazione tipicamente unidimensionale della “guerra di Putin” – non lesinando neppure effetti speciali tratti da videogiochi come War Thunder, Arma 3 e Digital Combat Simulator; o il riciclo di vecchie clip di altri disastri. Al cospetto di tanta potenza di fuoco, persino i filmati apocalittici dei cinesi che cadevano come birilli a Wuhan City nel gennaio 2020 appaiono ora decisamente amatoriali.

Quando Jean Baudrillard scrisse che la “Guerra del Golfo non ha avuto luogo”, intendeva dire che il dramma di quella guerra era stato sovrascritto da uno spettacolo mediatico talmente pervasivo da renderla iperreale: qualcosa di così inesorabilmente “vero” da eliminare l’intrinseca opacità del referente. Covid e invasione russa sono prepotenti esplosioni di iperrealtà, da cui diventa quasi impossibile prendere le distanze. La sovraesposizione all’ossessiva rappresentazione uni-dimensionale della guerra (il suo simulacro) elimina qualsiasi possibilità di relazionarsi all’originale, di cui non rimane traccia. Come è successo con il Covid, la realtà viene sostituita da un modello preconfezionato di false opposizioni binarie: sano/malato, vero/falso, democratico/fascista, Bene/Male. Il giochetto puerile di ridurre il “dibattito sull’Ucraina” alla coppia aggressore/aggredito, inebetisce il pubblico al punto tale da convincerlo che la guerra coincide con la sua olografia. I bombardamenti sul campo vengono assorbiti dai bombardamenti nel metaverso dell’informazione, che cancellano l’eco della realtà e con essa i neuroni dei telespettatori.

Come spiegare altrimenti la decisione di Meta Platforms (Facebook e Instagram) di permettere ai loro utenti di invocare violenza contro i russi (apparentemente, una modifica temporanea alla loro politica di hate speech)? O la sospensione di un corso universitario su Fyodor Dostoevsky… perché russo? O il rifiuto di curare russi e bielorussi (così come s’invoca per i no-vax)? O vergognose prime pagine da Ministero della Propaganda? Non è ancora chiaro che pandemia e invasione dell’Ucraina rispondono alla stessa esigenza di strumentalizzazione emergenziale? La “guerra di Putin” è la continuazione ideale della “guerra al Covid”. In entrambi i casi, l’obiettivo è offuscare la vera posta in gioco, che consiste, in ultima analisi, nel legittimare l’immissione di montagne di nuovo denaro a basso costo in un’economia drogata di debito. Il ciclo delle emergenze che definisce la fase terminale dell’epopea capitalistica dev’essere inquadrato come disperato e pericoloso evento macroeconomico.

 

Ucraina, bomba a orologeria

Due ordini di domande tendono a essere escluse dalla rappresentazione iperreale della “guerra di Putin.” In primo luogo, quello geopolitico: l’Ucraina era da tempo una bomba a orologeria pronta ad esplodere. L’espansione a est della NATO era culminata, nel 2014, nella concertazione del cambio di regime ucraino che, come recentemente sintetizzato dall’eminente politologo statunitense John Mearsheimer, “ha rovesciato un leader filorusso e ha installato un leader filoamericano” come parte di un piano per “trasformare l’Ucraina in un baluardo occidentale al confine con la Russia”. Detto altrimenti, un colpo di Stato – con tragiche ripercussioni quali il massacro di Odessa del 2 maggio 2014. Se qualcuno avesse bisogno di conferme in merito al golpe USA in Ucraina, la famosa conversazione telefonica Nuland-Pyatt del 28 gennaio 2014 può essere di aiuto: non tanto per il “fuck the EU” della Nuland (qualcuno nutriva dei dubbi?), ma perché quella telefonata evidenziava qualcosa di ben più inquietante: come cioè il Dipartimento di Stato americano dell’amministrazione Obama stesse pianificando, con molta nonchalance, l’organigramma del nuovo governo ucraino a pochi giorni dalla strage di piazza Maidan che ha innescato la caduta del governo Yanukovych. Se i russi avessero interferito in modo così prepotente e sfacciato in un cambio di regime messicano o canadese, l’avrebbero forse passata liscia?

Negli ultimi anni la NATO aveva intensificato la sua militarizzazione dell’Ucraina anche collaborando con gruppi neonazisti – il cui ruolo è tutt’altro che marginale in un paese il cui parlamento ha deciso di commemorare il compleanno del collaboratore nazista Stepan Bandera come festa nazionale. È sempre bene ricordare che da otto anni a questa parte le popolazioni filorusse del Donbas indipendentista, insieme alle minoranze rom, sono oggetto di continui attacchi militari da parte delle milizie ultranazionaliste ucraine. Si parla di almeno 15mila vittime, tra cui donne e bambini. Un genocidio che però non ha cagionato neppure una lacrimuccia democratica. Nel perseguire la sua politica espansionistica, la NATO ha dunque agito nella piena consapevolezza che, per la Russia, l’accordo con l’Ucraina sarebbe stato equivalente a una dichiarazione di guerra – come Putin ha sottolineato a più riprese, per esempio nel famoso intervento alla Conferenza di Monaco sulla Security Policy dell’11 febbraio 2007. Questo perché nel frattempo il dispiego massiccio di truppe e basi militari NATO, dotate di missili anti-balistici difensivi (ma convertibili in armi offensive), a ridosso del confine russo in varie regioni dell’Europa orientale, non poteva che fungere da provocazione rispetto alla legittima esigenza di autodifesa dei russi. Torniamo dunque alla solita domanda retorica: se Putin avesse installato una tale potenza di fuoco sul confine statunitense o dintorni, pensate che Joe Biden (o chi per lui) lo avrebbe tollerato? Ecco perché la bomba a orologeria ucraina, dopo anni di mosse provocatorie, era pronta a detonare.

 

Guerra finanziaria

Il secondo ordine di domande riguarda l’agenda economica, che ci appare nella modalità di guerra finanziaria. Le sanzioni draconiane dei leader occidentali – per lo più il congelamento dei beni e l’esclusione delle banche russe dal sistema di pagamento globale SWIFT – dovrebbero danneggiare Putin e i suoi “oligarchi” (improvvisamente divenuti esseri riprovevoli e degni di persecuzione antropologico-finanziaria, come d’altronde tutti i cittadini russi). Tuttavia, non è affatto certo che questo obiettivo sia raggiungibile o addirittura auspicabile. Possono Stati Uniti e UE, le cui principali banche d’investimento sono esposte al debito russo, permettersi il gioco finanziario del coniglio con la Russia, tipo James Dean in Gioventù Bruciata? E perché JP Morgan contraddice la narrativa ufficiale sull’implosione economica del nemico consigliando ai suoi clienti di aumentare le loro posizioni su parte del debito societario russo?

Inoltre, la Russia è il più grande produttore mondiale di quasi tutte le materie prime, e con gli attuali livelli di inflazione strutturale sembra quasi impossibile, o suicida, fare a meno delle sue forniture. È forse per questo che il programma di graduale riduzione di acquisti di gas russo da parte dell’Europa ha portato a importare carbone… dalla Russia? Il mainstream prevede che le sanzioni porteranno al crollo del rublo, e quindi alla fine del regno di Putin. Tuttavia, Putin ha fatto scorta di riserve FX (valute estere) e soprattutto oro. Se l’economia russa dovesse crollare, potrebbe emettere obbligazioni e coprire il loro valore con azioni di petrolio, oro e gas. Inoltre, escludere la Russia dal sistema SWIFT, denominato in dollari, darebbe a Putin più incentivi nella ricerca di altri mercati e valute con cui commerciare – coinvolgendo la Cina, con cui l’accordo è in cantiere da qualche anno. A sua volta, tutto ciò indebolirebbe ulteriormente il dollaro. La tanto temuta de-dollarizzazione dell’economia mondiale potrebbe rapidamente diventare realtà. Ergo: non è per caso che le sanzioni siano, sostanzialmente, un grande bluff?

 

Gazprom, l’elefante nella stanza (riscaldata)

Se da una parte le sanzioni vengono vendute al pubblico come eroiche azioni di guerra asimmetrica, sin dall’inizio i leader occidentali sono stati molto attenti a non estromettere alcuni tra i pesi massimi della finanza Russa, tipo Sberbank (la cui sanzione è ora osteggiata dalla Germania) e soprattutto Gazprombank – per quale motivo? Sberbank è il più grande creditore e detentore di asset russo, quindi un embargo totale implicherebbe un forte danno collaterale per le banche occidentali. Il vero elefante nella stanza, tuttavia, è Gazprombank, perché gestisce i pagamenti per il petrolio e il gas russo da cui i paesi dell’UE dipendono, e che in realtà continuano a comprare. Solo circa un quarto del settore bancario russo è attualmente sotto sanzione – pensiamo davvero che ciò possa fermare Putin?

Wolfgang Munchau (ex autorità del “Financial Times”) riassume l’ipocrisia dell’UE (e degli USA) con semplicità disarmante: “L’UE fa il tifo per l’Ucraina da una distanza di sicurezza, guardando la guerra da salotti caldi riscaldati dal gas russo”. Nella misura in cui la Russia è un partner commerciale chiave per l’Europa (quasi la metà del gas europeo proviene dalla Russia), ma anche per gli Stati Uniti (importatori di petrolio), è improbabile che le sanzioni si materializzino nella realtà così come lo fanno nei salotti televisivi o nei media. Se quindi il bazooka delle sanzioni si rivelerà essere una pistola ad acqua, o un boomerang, dovremo cercare risposte altrove.

Complottismi?

L’Occidente ha deciso di fornire grandi quantità di armi all’Ucraina proprio mentre le delegazioni russe e ucraine erano sedute al tavolo del primo round di negoziati a Gomel (Bielorussia). Putin chiedeva, come ha fatto fin dall’inizio, la neutralità dell’Ucraina, la sua (parziale) smilitarizzazione e l’autonomia della Crimea e delle Repubbliche del Donbas. Con l’invio di aiuti militari all’Ucraina difficilmente quei negoziati potevano avere un esito positivo. Quale strategia, allora, sta perseguendo la NATO? Detto altrimenti: da quale copione sta leggendo il presidente Zelensky? Rifiutando le condizioni di Putin, Zelensky pensa forse di poter respingere l’esercito russo da solo? O spera che la NATO intervenga e inauguri la terza guerra mondiale? In entrambi i casi, sarebbe un folle, o almeno un illuso. In quanto comico diventato politico meno di quattro anni fa (dopo aver interpretato il presidente ucraino in una serie TV di successo) Zelensky sembra perfetto per il suo ruolo. Ma qui la trama si infittisce.

Come il suo predecessore Poroshenko, Zelensky potrebbe essere in possesso di informazioni potenzialmente compromettenti sulla farsa del Russiagate, o sulle connessioni ucraine della famiglia Biden – in specie il figliol prodigo Hunter, che nel 2014, subito dopo gli eventi di piazza Maidan, fu inserito nel consiglio di amministrazione del gigante ucraino del gas Burisma. A inizio marzo, inoltre, la neocon Victoria Nuland (sempre lei, ora sottosegretario di Stato) ha dichiarato sotto giuramento al Senato degli Stati Uniti che “l’Ucraina ha strutture di ricerca biologica”, confermando le accuse russe e cinesi fino ad allora ridicolizzate come complottismo dal solito plotone di autoproclamati fact-checkers. Perché Nuland ha sentito l’impulso irrefrenabile di lanciare la bomba mediatica del laboratorio biologico ucraino, contraddicendo la rabbiosa confutazione di Jen Psaki (portavoce Casa Bianca) del giorno precedente? Perché Nuland ha poi aggiunto che i russi dovrebbero essere fermati prima di raggiungere questi laboratori? Il suo duetto con il senatore Marco Rubio aveva forse lo scopo di nascondere qualche imbarazzante verità sui programmi di “riduzione di minaccia biologica” finanziati dagli Stati Uniti in Ucraina? Ora che anche l’OMS è entrato nella polemica sui bio-labs, solo una cosa è certa: siamo di nuovo precipitati nel clima da guerra fredda. E la domanda da porsi è sempre la stessa: cui prodest?

Doping emergenziale

Se il canovaccio geopolitico di cui sopra può aiutare a comprendere alcune ragioni della guerra in corso, mi pare che l’affaire ucraino abbia una motivazione fondamentalmente macroeconomica. Anche per questo la ragione del conflitto può essere forse colta più agevolmente da analisti finanziari che da politologi (o virologi riciclati). La si può riassumere nel seguente modo: un conflitto armato prolungato legittima il prelievo di ulteriore debito dal futuro, scaricando le responsabilità per lo tsunami economico in arrivo sull’ultima reincarnazione del dottor Stranamore. Essenzialmente, con la sua offensiva militare “Mad Vlad” ha permesso alla Federal Reserve (e alle altre principali banche centrali) di rinviare il redde rationem sistemico. Perché montagne di denaro a basso costo iniettate in un’economia a trazione finanziaria sono, oggi, l’unica arma che può impedire, o meglio rimandare, l’affondamento del Titanic.

Le emergenze globali giustificano la richiesta di denaro facile: debito creato dal nulla e impiegato come leva finanziaria. Molto semplicemente, la domanda speculativa è sostenuta dalla domanda di debito. Questa condizione di dipendenza è ora propriamente endemica, poiché caratterizza non solo il settore finanziario ma anche l’economia reale e, cosa fondamentale, i deficit dei governi. Questo è il motivo per cui le emergenze globali sono oggi il principale motore di espansione monetaria (artificiale), che a sua volta rappresenta la “fuga in avanti” del capitale in un’epoca di crisi strutturale. Mi riferisco alla sopraggiunta incapacità capitalistica di generare sufficiente plusvalore (e quindi ricchezza) per la riproduzione sociale. Questa vera e propria “impotenza di sistema” ha cominciato a affliggere il capitalismo contemporaneo durante la Terza Rivoluzione Industriale (anni ’70), in concomitanza con l’abbandono degli accordi di Bretton Woods.

Sembra dunque legittimo ipotizzare che tutti gli eventi globali cui abbiamo il privilegio di assistere – siano essi di natura sanitaria, geopolitica, o quant’altro – sono (almeno) pesantemente condizionati da ciò che accade nell’Olimpo finanziario. La Putin-pandemia è guidata dalla stessa logica che ha caratterizzato la Virus-pandemia: quella di concedere alle banche centrali la licenza di prolungare il monumentale ricorso alla stampa di denaro, che dà sollievo ai mercati ma deprime ulteriormente l’economia reale. È questa la strada a senso unico del capitalismo contemporaneo.

La bomba a orologeria della crisi del debito

Dobbiamo sempre tenere a mente il quadro generale: dal 2009, tutte le principali banche centrali si sono rese protagoniste di un’abbuffata monetaria senza precedenti, di cui non si vede la fine. La produzione di debito a ritmo di trilioni funziona come meccanismo di compensazione per un’economia globale in caduta libera, e dunque sempre più dipendente da una grottesca “bolla di tutto” (che, naturalmente, prima o poi scoppierà). La Fed di Atlanta ha ora tagliato le aspettative di crescita del PIL degli Stati Uniti nel primo trimestre 2022 allo 0,0%, inaugurando ufficialmente una nuova era di stagflazione che ci rimanda dritto agli anni ’70 – ma senza poter ripetere ciò che fu fatto allora per evitare il collasso (aumento dei tassi al 20% e avvio della fase neoliberista).

Al momento, la guerra fornisce alla Fed l’assist perfetto per frenare il previsto programma di aumento significativo dei tassi d’interesse (il costo del denaro). L’annunciato aumento di 25 punti base è dunque una mera dichiarazione di buoni propositi (di cui, com’è noto, è lastricata la via per l’inferno). Dopotutto, una guerra tende a essere vantaggiosa per i mercati azionari. Con ogni probabilità, più la situazione in Ucraina rimarrà tesa, più il mercato obbligazionario (che agisce da “canarino nella miniera” per un potenziale crollo) si stabilizzerà. Inoltre, la sospensione del Patto di Stabilità dell’UE, decisa nel 2020 causa Covid, potrebbe ora essere prolungata sine die. Così, il conflitto ucraino permetterebbe all’UE di rimandare una nuova crisi del debito pubblico. Tuttavia, le recenti dichiarazioni della Lagarde in merito alla riduzione dell’APP (che il 31 marzo andrà a sostituire il PEPP) avevano indotto a ipotizzare un ritorno dell’Italia a fine 2011, quando i rendimenti sui BTP a 10 anni s’impennarono oltre il 7%, sdoganando la crisi del debito pubblico e le cosiddette “riforme strutturali”. Se non fosse che il 17 marzo la Lagarde stessa ha fatto retromarcia: dopo appena una settimana, in risposta agli eventi in Ucraina, si dice pronta a frenare sulla stretta monetaria. Per dirla con saggezza tutta francese: plus ça change, plus c’est la même chose.

Il punto è che economie nazionali indebitate fino al collo continuano ad avere bisogno di maggior QE piuttosto che della sua riduzione, per il semplice motivo che il debito pubblico supera, spesso di gran lunga, il PIL. È per questo che la bomba a orologeria della crisi ucraina è un’estensione della bomba a orologeria della crisi del debito. Ciò che quest’ultima richiede è un regime di QE perenne calibrato su una successione di emergenze globali a stretto giro di posta: pandemie, conflitti militari, campagne terroristiche, minacce nucleari, guerre commerciali, o, perché no, lo sbarco degli alieni. Il caos deve essere invocato ad ogni occasione, e con esso, idealmente, la figura di un nemico brutale e assetato di sangue. Che avvenga nei media o nella realtà, è il ciclo dell’emergenza che conta, perché tiene aperto il rubinetto monetario. Non dimentichiamo che il capitale è un processo cieco che aborre la stagnazione: dev’essere in costante movimento, anche quando il movimento significa accumulare quantità sempre maggiori di debito ingestibile, e in qualsiasi modo possibile.

Demolizione controllata

L’impennata dell’inflazione – che è cucinata a fuoco lento nel brodo della crisi ucraina, così come lo era in quello della crisi sanitaria – facilita la demolizione controllata della “società del lavoro” attraverso l’erosione del potere d’acquisto. Perché salvare i mercati finanziari oggi significa deprimere la domanda reale. E in quanto unica detentrice del privilegio di creare dollari dal nulla, la Federal Reserve è sempre almeno una mossa avanti nella scacchiera globale. Ricordiamo che il bilancio della Fed aveva iniziato a gonfiarsi nel settembre 2019, quando enormi masse di denaro elettronico creato con il mouse del computer furono pompate in un settore finanziario di nuovo sull’orlo di una crisi di nervi. Tuttavia, dopo due anni di campagne di paura (della serie “Covid anno 1: la mascherina” più “Covid anno 2: il vaccino”) con annessa stampa di denaro, la narrazione virologica si stava arenando, facendosi sempre più contraddittoria – come evidenziato, per esempio, dal flop vaccinale e dalle proteste dei camionisti canadesi. Ora, nonostante i “decessi da/con Covid” e i “casi” non siano esattamente in caduta libera – sempre secondo il calcolo ufficiale – il sistema aveva improvvisamente bisogno di una nuova horror story, una nuova cortina fumogena da calare sul mondo. Ciò si rivela particolarmente urgente alla luce di condizioni finanziarie piombate ai livelli più critici dal 2016. Perché se la Fed dovesse togliere il piede dall’acceleratore monetario, il mondo rischierebbe di precipitare in recessione a tempo di record.

Nel frattempo, non volendo improvvisare una risposta militare che porterebbe all’Armageddon, la NATO e le élite occidentali si stanno impegnando in una guerra asimmetrica con la Russia. Questa guerra colpirà soprattutto le popolazioni indifese e le economie già afflitte da due anni di “contrazione pandemica”. Le bollette del gas e i prezzi delle materie prime continueranno a salire. Ma non è questo che richiede il Great Reset, nel momento storico in cui il sogno neoliberista della “fine della storia” svanisce come neve al sole? Con ogni probabilità, la crisi energetica e alimentare ormai alle porte giustificherà ulteriori politiche oppressive – incluso, se necessario, l’introduzione della legge marziale, come recentemente sperimentato nel democratico Canada. Forse dovremmo allora mettere da parte la scacchiera geopolitica e concentrarci sulla causa economica. Scelte politiche di questo calibro sono dettate da condizioni che riguardano l’economia in quanto insieme di relazioni sociali sempre più disfunzionali. Perché se Putin è pazzo – come tutti sembrano ripetere per puro senso di appartenenza ideologica – è senza dubbio in buona compagnia. Non mi riferisco alla pur labile salute mentale di Joe Biden, ma ai gestori della ricchezza sociale e alla loro dissonanza cognitiva, che è proprio ciò che la leva finanziaria richiede loro.

Dottor Stranamore?

Se, data la richiesta senza precedenti di doping finanziario, le nostre società capitalistiche dipendono ormai da una successione interminabile di minacce globali, la linea di demarcazione tra rischio simulato e rischio reale è sempre più sottile. L’astrazione speculativa è per sua natura asociale e tendenzialmente psicotica. Già Marx osservava che ai manager finanziari il capitale appare, essenzialmente, come un oggetto che ha rotto i ponti con la sua sostanza:

“Nel capitale produttivo d’interesse questo feticcio automatico, valore che genera valore, denaro che produce denaro, senza che in questa forma sussista più nessuna traccia della sua origine, è quindi messo nettamente in rilievo. Il rapporto sociale è perfezionato come rapporto di una cosa, del denaro, con sé stessa. In luogo dell’effettiva trasformazione del denaro in capitale non si ha qui che la sua forma priva di contenuto”.

Oggi, la dissociazione pressoché totale del capitale dalla sua origine e causa sociale (lavoro produttivo di valore) rende sempre più visibile il nucleo psicotico delle nostre società. Se l’attuale uso capitalistico delle emergenze è per sua natura perverso, l’episodio psicotico è sempre dietro l’angolo. E tuttavia, etichettando Putin come soggetto folle, fingiamo ipocritamente di non vedere la follia del capitalismo stesso, insieme alla sua vocazione criminale. Ripetiamo il punto chiave: un sistema socioeconomico sostenuto da una leva finanziaria dell’attuale portata richiede un flusso continuo di emergenze che ne legittimi la folle logica espansiva; oltre a un Nemico cui fare indossare i panni del cattivo, stile film di James Bond. E la produzione industriale di emergenze richiede attori credibili sulla scena globale, insieme a un pubblico che sia disposto a lasciarsi impressionare dalla cinica propaganda dei media di regime.

Umanitarismo selettivo e l’iceberg finanziario

Sarebbe sin troppo facile mostrare i doppi standard con cui l’industria mediatica del consenso ci impacchetta la “guerra di Putin” rispetto a come impacchettava le tante “operazioni” USA/NATO del recente passato. L’ipocrisia delle sanzioni contro “oligarchi” come Roman Abramovich è altrettanto eloquente. Perché ora e non prima? E perché i nostri “oligarchi” occidentali vengono chiamati “imprenditori”? Altrettanto fuori luogo sono gli slogan contro Nazi-Putin, dal momento che il leader russo in realtà media tra i due poteri che contano maggiormente in Russia: Gazprom e l’esercito. Qual è la differenza effettiva, profonda, tra Putin e i potenti leader politici dei paesi “democratici”? Naturalmente, come ha scritto il mio amico Todd Smith, «Putin non è un eroe, nel caso qualcuno fosse confuso. È solo un’altra élite che si è trovata dalla parte sbagliata di una certa situazione “finanziaria”». Tuttavia, perché i nostri leader democratici continuano a fare affari (vendendo armi o comprando petrolio) con dittatori sparsi in tutto il mondo? E perché i media non ci dicono di indossare una bandiera siriana, yemenita o palestinese a sostegno di vite innocenti perse ogni giorno (da anni a questa parte) sotto bombardamenti israeliani o sauditi? Abbiamo raggiunto livelli ormai ineguagliabili di ipocrisia, mescolati a indignazione propriamente razzista rispetto alla distinzione tra bombardamenti di civili filo-europei, biondi e dagli occhi azzurri, e civili di popoli “meno civilizzati”, iracheni, afgani, siriani o yemeniti che siano.

La triste verità è che se le élite finanziarie avranno bisogno di ragioni per gonfiare ulteriormente i mercati con denaro fresco di conio, il conflitto ucraino potrebbe anche intensificarsi. Nulla può essere escluso a priori quando l’obiettivo è prolungare l’esistenza di un sistema economico ormai in stato di decomposizione. Ecco un paradosso che dovrebbe farci riflettere: il giorno in cui Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina ed è stato ufficialmente incoronato nuovo Hitler, i mercati finanziari hanno registrato il più grande rimbalzo intraday dal marzo 2020, quando i programmi QE anti-Covid vennero lanciati per salvare il mondo. Dobbiamo essere onesti: nonostante le lacrime di coccodrillo dei leader mondiali, il loro problema non è la libertà dell’Ucraina, ma l’iceberg della leva finanziaria che sta per colpire il Titanic.

E poi?

Aspettiamoci quindi una crisi geopolitica prolungata che giustificherà, o richiederà, l’azione delle banche centrali a frenare le tanto sbandierate politiche di tapering (riduzione degli acquisti di asset) e di rialzi dei tassi. Aspettiamoci uno tsunami inflattivo globale, ulteriore impoverimento, e migrazioni di massa (cioè di manodopera a basso costo) – tutto questo sarà attribuito a Putin. Aspettiamoci il ritorno di minacce pandemiche a sostegno del tentativo in corso di globalizzare i passaporti vaccinali e la digitalizzazione della vita. Aspettiamoci una nuova corsa agli armamenti mirata a stimolare PIL stagnanti. Aspettiamoci, se necessario, ulteriori danni militari inflitti a popolazioni indifese prese nel mezzo della farsa capitalistica. Aspettiamoci “false flags” e implacabili campagne di disinformazione.

In altre parole, l’invasione russa sarà spremuta oltre l’immaginabile, perché più a lungo durerà, più denaro sarà prelevato dal futuro e iniettato nell’economia assetata di debito – esattamente come fatto con l’operazione Covid-19. Se la pandemia è servita a nascondere la crisi strutturale del capitalismo spacciandola per crisi microbiologica, la “guerra di Putin” ottiene lo stesso scopo manu militari. Tuttavia, la politica monetario-emergenziale, oggi dominante, non è che un folle e disperato tentativo di gestire il collasso sistemico, e non farà che accelerare il processo implosivo del nostro “mondo”. Un futuro diverso non può nemmeno essere immaginato senza prendere coscienza di questa condizione.

Fabio Vighi