Un pettine pieno di nodi

 

Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo lungo testo. Un po’ analisi, un po’ sfogo, un po’ flusso di coscienza, si tratta di uno sguardo sincero e senza fronzoli sull’impatto che il “mondo-covid” ha avuto e continua ad avere sulle nostre relazioni umane e di affinità. Il testo affronta o sfiora davvero tanti nodi. Uno, tuttavia, ci pare contenere o richiamare tutti gli altri: la privatizzazione delle nostre vite. Come rovesciare il piano?

Qui il testo in pdf: UN PETTINE PIENO DI NODI

 

UN PETTINE PIENO DI NODI

Ovvero come il mondo anarchico di questa parte di globo è stato travolto dal mondo-covid, facendo risaltare il nostro vacillante stato di salute.

Premessa:

questo non è un testo analitico, né un articolo, ma un flusso. Ho cercato di fare uscire dei concetti, scrivendoli, e la forma che sono riusciti ad assumere è stata questa: caotica e disorganizzata.

Scrivo animato dalla convinzione che in questo momento storico mi servono urgentemente (e allargo con un pretenzioso plurale) ci servono, come individui in conflitto contro questo esistente, come anarchicx, tante riflessioni e tanti gesti.

La ragione di questo scritto risiede principalmente nel desiderio di scatenare dibattiti, far parlare, rincontrarsi, scontrarsi, confrontarsi, collaborare, cospirare e quindi mi auspico che abbia più larga diffusione possibile e, nel mio immaginario, potrebbe servire da falsa riga per delle chiacchierate/letture collettive; non perché abbia la presunzione che sia importante o risolutivo (no di certo) in sé, ma perché credo che alle volte uno sprone e/o un pretesto ci vogliano per sedersi in un cerchio.

Questo non è un testo analitico, è piuttosto un far-uscire-oltre-me.

Scriverlo mi costa fatica, così come costa fatica uscire da una qualsiasi situazione di stasi, di pantano, che è esattamente come mi sento da un po’ di tempo a questa parte.

Ho rimandato a lungo nel tentativo (e forse nella speranza) che emergesse, da sé, come tante altre volte, una struttura espositiva adeguata, che mi “venisse l’ispirazione” come si suol dire, ma così non è stato. Il tempo è trascorso e quelle idee sono ancora là, ombrose, accantonate e rigate, come macerie in un angolo.

Allora mi sono dettx che ci voleva una forzatura. Anche se l’ispirazione non giungeva, anche se le condizioni esterne da me, che hanno suggerito l’idea iniziale di questo testo, non sono mutate in senso migliorativo (anzi!) mi sono decisx a dare una spallata. E forzare qualcosa.

In definitiva, riassumendo all’osso, potrei dire che il senso di questo scritto è tutto qui: una scossa.

Perché l’immobilità è ciò che più avverto come un limite in questo particolare momento storico, per il mondo sul quale volgo lo sguardo e che io identifico come “giro anarchico” (con tutte le sfumature a cui si presta questa terminologia al contempo specifica e vaghissima).

E dare una spallata, un calcio, un tiro, una carezza caldissima a qualcosa di immobile è il mio tentativo per risvegliare il moto.

Cesare Pavese, che per me non brillava per ottimismo ma per genio sì, diceva che la vita si riconosce ogni qualvolta c’è la possibilità di mutazione, di cambiamento; laddove questa possibilità è negata, per cause interne o esterne da noi, la vita non è più.

A me risuona questa sua intuizione.

Il mondo è oggi quanto di più simile a quello che per filo e per segno descrivevamo nei nostri volantini da almeno 20 anni a sta parte, e già qualche testo ha sottolineato questa peculiarità: ci avevamo visto lungo, assai, ma non ci è servito a molto pare.

Già questa constatazione parla tanto e crudelmente della nostra impreparazione, teorica e pratica di fronte al mondo che sfidiamo(1): non è mai stato un gioco, ma forse, mai come ora non ci è concesso essere distrattx o sottovalutare la posta in gioco e le mosse dex molteplicx nemicx della nostra liberazione.

Io mi sento di appartenere a una generazione che si è approcciata all’”essere anarchicx” con tutta una serie di coordinate che oggi (con strascichi sia positivi che negativi per me) non esistono più.

Ma questa mancanza non è stata soppiantata da un “altro”, in qualsiasi forma, ma è rimasta una vacuità come sospesa, che aleggia credo in ciascunx di noi che abbiamo vissuto questa “socializzazione anarchica” contestuale, e che forse genera costantemente nostalgie e idealizzazioni.

Per esemplificare ciò che dico: non esiste più il mondo fatto di lotte territoriali, di “campagne”, di lotte di quartiere, di grandi cortei, di mille squat, di occupazioni e azioni dirette disseminate un po’ ovunque, il mondo della Valle, il mondo delle grandi assemblee nazionali(2) e dei coordinamenti; oltre che il mondo della controcultura in senso allargato o dei giri underground, che, prima di approdare all’anarchismo o senza approdarvi affatto, faceva comunque sì che, dalla capitale alla provincia più deserta, chi era alla ricerca di un “altro” riusciva più o meno ad arrivarvi, affacciarsi, capire se faceva per lxi (fosse stato anche solo il circoletto un po’ “alternativo” che faceva concerti punk).

Come scrivevo all’inizio mi sento parte di questa generazione qua, e mi scuso con x compagnx più giovani ax quali magari non risuona niente dentro leggendo queste parole, ma credo che sia centrale nell’affrontare il problema dell’immobilismo e dello spiazzamento questa cornice contestuale.

E questo contesto, per l’appunto, con le dovute sfumature e peculiarità territoriali, mi pare non esista più.

Con questo non voglio dire che non esiste più a causa della ristrutturazione capitalistico-tecnico-militare dello spettacolo Covid19, né che tantx compagnx non avessero abbandonato, volontariamente (e spesso esasperatx) quel mondo che descrivevo, ben prima che tutto questo orrendo palcoscenico non fosse messo su.

Io credo che, esattamente come per la società nel suo insieme, della quale purtroppo mi accorgo di far parte più di quanto non volessi/pensassi, la gestione militar-politico-sanitaria dello spettacolo Covid19 ha accelerato e esacerbato delle dinamiche tutte pre-esistenti, acuendo l’indirizzo che il capitalismo aveva imboccato già da un pezzo, esattamente allo stesso modo questo contesto di accelerazione ha impresso il suo ritmo e la sua brutalità anche nei rapporti tra compagnx.

Sia individualmente, ciscunx con se stessx, sia collettivamente.

È proprio la scoperta della acqua calda, ma forse non vi stiamo dando il peso che meriterebbe.

Perché se coloro che fino a ieri si erano reciprocamente consideratx compagnx arrivano a giudicarsi, magari senza reali confronti, fino a non parlarsi, o a tacciarsi di “untorx” o di “irresponsabile” piuttosto che di “paranoicx”, allora questo ci dice tanto secondo me di come già erano, ben prima dello spettacolo del virus, la qualità delle nostre relazioni e della nostra comunicazione.

Per dare un senso completo a quanto scrivo, bisognerebbe compendiarlo con quelle analisi, esposte in alcuni opuscoli, che ci interrogano su cosa significa dirsi compagnx tra noi, cosa significa il senso di appartenenza a un movimento/giro, quanto ci condiziona.

Perché l’autodefinirsi qualcosa o qualcunx ha ben poco senso se non vi sono parametri comuni, condivisi e consensuali (3).

Già altri testi hanno messo l’accento sull’importanza di riprendere dei discorsi “nostri” sui concetti di morte, sofferenze, dolore, vita, sicurezza, salute (e un grosso “etc”) proprio per ricominciare a ragionare su quanto di più fondamentale ci sia nelle nostre esistenze e che abbiamo largamente dato per scontato.

Questo ci dice tanto anche di come ci siamo conosciutx e ci siamo statx vicinx – ma anche e forse proprio a causa di – quel mondo fatto di grandi appuntamenti, di sensazione di essere “forti e numerosx”, quel mondo di militanza, di fretta organizzativa, di scadenze, di un sacco di cose anche belle ma anche molto superficiali o eminentemente politiche.

I nodi sono venuti al pettine, con tanto d’interessi.

E mentre lo stato e il patriarcato dettano la loro formula evergreen (“affidatevi alla famiglia!”) noi che le famiglie biologiche non le vogliamo o comunque le mettiamo in discussione, ecco che ci ritroviamo solx o a fortificare un altro caposaldo del sistema stato-patriarcato: la coppia.

La difficoltà di questi tempi ci fa sentire disgregatx, perché “il nostro mondo” si sta dissolvendo alla velocità della luce, complici molteplici fattori esterni, oltre che dissidi e contrasti interni, e soffriamo per la fine di alcune pratiche e contesti che erano la nostra socialità, i nostri scopi e anche le nostre certezze.

Ho come la sensazione che l’attitudine “no future” del punk sia da correggere in “no present”: tantx compagnx che avevano trovato il loro precario equilibrio in questa società dell’opulenza e delle contraddizioni si sono ritrovatx senza più la possibilità di sostare nelle crepe di questo mondo (mi ci includo), ma non è solo la difficoltà della sopravvivenza economico-materiale a mandarci in crisi, quanto più la crisi di significato dell’esistere.

Esattamente come direbbe un qualsiasi sociologx prezzolatx riguardo alla società nel suo insieme!

Ma in effetti io penso che sia fondamentale questo prosciugamento di senso, fondamentale nel sostenere o scoraggiare un agire e un riflettere che paiono arenarsi sempre più ogni giorno che passa.

Ma questa tendenza non è oggettiva o storica o ineluttabile, è qualcosa che possiamo combattere, modellare, contrastare, invertire.

Nel pluriennale pensiero anarchico e nella galassia di individui e gruppi che hanno cercato di materializzarlo, l’ideale è stato fondamentale: la rivoluzione, il sol dell’avvenire, l’insurrezione.

Grandi idee e ideologie muovevano grandi masse di persone e/o spingevano mani coraggiose a compiere grandi gesti di rivolta e di vendetta.

C’è chi oggi propone un ritorno al “pensiero forte” per ridarci quello spirito di lotta (e di sacrificio, sob!) che “ci contraddistingueva” e che oggi invece manca e ci fa sentire schiacciatx e impotentx.

Io personalmente tremo al solo pensiero di un “ritorno al pensiero forte”, che porterebbe con sé i suoi eroi (ovviamente uomini e super etero), i suoi miti, la sua mitologia e la sua dottrina e la morte, ancora una volta, della sregolatezza e della selvatichezza che io sento come imprescindibili caratteristiche della libertà che agogno e che non trovo e forse non troverò.

Forse dirò un qualcosa di filosoficamente grossolano se non addirittura scandaloso, non abbiatemene, non sono unx accademicx, ma credo che moltx compagnx oggi si sentono sperdutx e avvilitx proprio perché sono di punto in bianco statx gettatx nel nichilismo senza volerlo: non c’è futuro, non c’è alcun domani, né prospettive né salvezza. Nulla ha significato e perciò non ci spieghiamo il perché dovremmo fare qualcosa o non fare qualcos’altro.

La fine, reale o percepita che sia, di quel mondo/contesto a cui facevo riferimento, in un momento di estrema difficoltà, ci fa sentire come orfanx, e quelli che credevamo essere dei rapporti saldati nella lotta, non ci sono di aiuto, né emotivo né pratico-materiale.

Ma allora cosa abbiamo fatto in tutti questi anni? Cos’abbiamo costruito? (ripeto: queste domande e connesse problematicità potevano essere poste anche ben prima dell’arrivo sulla scena del Covid)

La mia personale risposta è che le nostre relazioni facevano acqua da tutte le parti e se davvero ci sentiamo allo sbando, in un mondo iperveloce, famelico, robotico, beh, questa epifania del nulla che ci avvolge è (anche) una grandissima possibilità.

La mancanza di un senso ultimo delle cose non deve per forza farci approdare ad un agire scriteriato e cieco: posso avere la mia etica personale, che mi fa dire in primis che non voglio far soffrire le persone amiche e far invece soffrire i nemici, e farla dialogare con altre etiche, tutte individuali, che non si riuniscono in una morale superiore, ma restano, orizzontalmente, in una danza sparsa e caotica.

Una possibilità grandiosa e radicale di raschiarci via di dosso lo strascico di tutte le certezze delle quali ci siamo attorniatx e gettarsi davvero verso l’avventura: cos’abbiamo da perdere?!

In questo contesto mi pare avvenga invece quel processo di chiusura all’interno dei nuclei fondanti dello stato e del patriarcato a cui accennavo, nuclei che ci fanno sentire sicurx, mentre fuori tutto frana: la coppia, la convivenza (non collettiva ma a due), la riscoperta dei legami familiari biologici e non ultimo la necessità di mantenere un lavoro salariato.

Questo non è un testo eminentemente contro la coppia o la famiglia o il lavoro (ma anche sì), ma nel flusso di idee che volevo proporre ci sono gli esempi che vedo attorno a me, in me, e riporto quelli che mi paiono tracciare delle vere e proprie costanti.

E alle domande di cui sopra pare che le risposte siano sempre più spesso che siamo statx in grado di distruggere poco del nostro stare assieme, come pratica direttamente ereditata dalla socializzazione dominante, e ora ci ritroviamo malandatx.

Sempre più compagnx e amicx soffrono profondamente di dolore spirituale, di quella che i libri degli strizzacervelli chiamano “depressione” e non avendo maturato negli anni degli strumenti adeguati (e forse neppure la voglia) per fronteggiarla, il tritacarne della psichiatria sta là in agguato, con i suoi pasticconi.

C’è tantissimo dolore, frustrazione, tanta dispersione di energie, tanta incomunicabilità e pare che questa coltre di disagio cosmico si propaghi a tutte le latitudini e altitudini dell’odiato stivale, facendo piombare ogni contesto in una piccola palude di cemento.

Ci sono amicx e compagnx chiusx, ognun nella sua stanza, a sbattere la testa contro il muro cercando di sfangare anche oggi la giornata; chi cerca escamotage per non vaccinarsi e/o non dover sottostare all’ennesimo documento, e non cedere al ricatto, chi vorrebbe spostarsi e non sa come fare, chi si sente solx e il rumore dello schermo della camera affianco non fa che acuire l’alienazione.

Dove sono il mutuo appoggio, la solidarietà, la complicità, il contrattacco?

La logica dell’emergenzialità, che come per la società tutta permea anche le nostre vite, mostra tutta la sua strumentale fallacia: cercare di imbastire dei discorsi, dei dibattiti, dei confronti e delle conseguente pratiche sull’onda della botta calda emotiva (si tratti di arresti di compagnx vicinx, di questioni di violenze o della più imponente ristrutturazione capitalista degli ultimi decenni) è dispendiosissimo in termini di energie e spesso poco efficace.

Mi viene da pensare che se non si riesce in un momento affilato ed estremo come questo a fare emergere/concretizzare quei concetti di cui sopra, significa che le premesse erano già ampiamente minate prima dello spettacolo Covid.

Credo, benché le dicotomie siano per me poco convincenti, che abbiamo essenzialmente due strade di fronte: o si resta impantanatx in relazioni di “quieto vivere” e di “buon vicinato” e poi ci si ignora per quanto riguarda l’organizzarsi assieme per assaltare la vita, oppure si comincia a cambiare.

Riparare, laddove sia possibile, vecchie lacune e tentare di non crearne di nuove con atteggiamenti e comunicazioni virtuose e, in seconda battuta, non in contrasto ma a completare questi “aggiustamenti” andarsi anche a cercare delle affinità altre.

Non voglio concentrarmi solo sulle convivenze, benché la dimensione collettiva sia quella che meglio conosco, ma evidenziare quanto paradossale sia che delle individualità che nutrono certi ideali e tensioni di autorganizzazione orizzontale e di solidarietà, non riescano proprio in un momento del genere ad esprimere un potenziale sovversivo.

Perché ogni catastrofe la si può vedere anche in una prospettiva di possibilità: questo momento ci può dare il pretesto, una volta superato lo shock iniziale, di rovesciare il piano e passare al contrattacco.

Pongo tanto, forse pedissequamente, l’attenzione sullo “stato di salute delle nostre relazioni” perché io credo che la mia anarchia risponda ad un bisogno estremamente chiaro ed egoistico: voglio vivere bene questa insensata e ciò non di meno potenzialmente gioiosa danza di giorni e notti che è la vita.

Se non riesco a farmi star bene e a far star bene le persone a cui tengo, ho un po’ un senso di “qualcosa non sta andando nel verso giusto”. E nel mio personale computo di cosa significhi vivere bene, ci inserisco anche appagare quell’inevitabile senso di rabbia e di vendetta che ci viene dall’avere una determinata sensibilità all’interno di questa società.

Quindi, come recita una bella serigrafia: prendiamoci cura l’unx dell’altrx, così possiamo essere pericolosx contro gli altri.

Il fatto di ribaltare la visione che abbiamo di questo momento storico ci potrebbe aiutare ad accettare il fatto che non vi sia più un “movimento” come quello che, forse malamente, descrivevo poco sopra (e che, in quelle forme, non tornerà mai più), e ad abbracciare l’idea che possiamo ritrovare dei modi per sentirci appagatx e forti e decisx a voler affrontare questo mondo infame, con forme nuove e la solita atavica rabbia nel cuore.

Detto molto sinceramente, credo anche che sia un bene, sotto tantissimi punti di vista, che certe dinamiche e certi ambienti non esistano più, e lo dico proprio osservando ciò hanno portato oggi ad essere ciò che siamo, a stare come stiamo.

Ma non è uno sparare a zero sul passato, è un’autocritica radicale che vuole farmi/farci rinascere dalle nostre ceneri, come la più ardente delle fenici.

Penso che se i contesti territoriali non rispondono più ai nostri bisogni o concetti di affinità, questo ci può spingere a cercare altrove compagnx con cui organizzarci; se i progetti che abbiamo sempre seguito e praticato per anni oggi non sono più fattibili per le mutazioni sociali e tecniche venutesi a creare, questo ci può spingere a rinnovare le strategie, a modificarle, rivederle.

Mi rendo conto che la perenne ricetta del “rinnovare i metodi” suoni retorica e un po’ abusata, ma è la sola scelta che abbiamo: riscoprire la fantasia e l’inventiva, che sono un patrimonio fondamentale per chi non dispone di risorse belliche, perché se no soccomberemo prima sotto i colpi della noia e dell’apatia che non dello stato.

Inoltre le stesse pratiche in contesti incredibilmente diversi, possono dare risultati impensabili, e in più se ci si aggiunge la volontà di realizzare queste attività, qualunque esse siano, con modalità organizzative diverse, credo che possa davvero valerne la pena, perché non sarebbe un “ripetere” ma un “tentare”. Poi chi vivrà vedrà (4).

Rivedere le cose da altri e variegati punti di vista significa anche, per me, ritornare sul presente e dargli una lettura critica e radicale, “nostra”, sottraendoci alla semantica contraffatta del potere e reagendo di conseguenza a ciò che individuiamo: le vaccinazioni, il green pass, così come altre dozzine di misure dirette o indirette del “mondo-covid” sono degli atti di repressione.

Sono pratiche militari. Sono strumenti di guerra sociale. Sono colonialismo dei corpi e delle menti.

Cominciamo (o continuiamo) a trattarli come tali e come tali a considerarli, prima di tutto anche dentro le nostre relazioni: quando sento racconti di spazi nei quali entri solo se vaccinatx o col green pass mi viene da pensare: queste persone chiederebbero la carta d’identità o il permesso di soggiorno a qualcunx per farlo entrare?! (5).

Case farmaceutiche, medicx, sbirri, mass media, professoroni, politici quando hanno smesso di essere degnx solo dei nostri sputi e della nostra sfiducia?

Decenni di critica radicale al mondo della tecnologia e dei mass media hanno traballato e in alcuni casi sono stati totalmente dimenticati sotto lo tsunami dello spettacolo della paura… ma cadere non è grave. Credo sia però pericoloso restare per terra, perché si verrà schiacciatx.

Ed è brutto, sinceramente brutto, se unx compagnx ti porge la mano e gli si urla che dovrebbe stendersi pure lxi perché sono tuttx a terra.

Mi scuso se ho proceduto per generalizzazioni, che non è mai un modo attinente alla realtà, ma vorrei aggiungere che non è che non veda o non sappia di eccezioni a quanto scrivo, e vorrei inoltre sottolineare che in quanto dico mi ci metto appieno, come auto analisi e auto critica perché non credo sia un approccio costruttivo quello di individuare il male sempre fuori di noi stessx.

C’è tanta stanchezza anche.

Lo si sente nella voce di chi ti racconta l’ennesima giornata di merda e negli occhi di chi ti fissa stancamente, dopo la sesta Peroni e anche se parlate non vi state dicendo niente.

La stanchezza data da un mondo “fuori” avvelenato e velenoso, intossicato e intossicante, ma anche tanta stanchezza “dentro”, laddove ripetiamo le stesse cose e ci ritroviamo invischiatx nelle stesse trame che paiono senza uscita (tra tutte: la risoluzione di conflitti su chi agisce violenza/prevaricazione di genere e il carosello della repressione statale).

Io penso che un tassello fondamentale di questa sensazione di stanchezza sia la mancanza quasi totale, almeno per la mia esperienza, di gente nuova nel giro. Di compagnx (più) giovanx. Di energie che sappiano dare un volto nuovo, delle pratiche e delle analisi che siano più attinenti al contesto sociale che viviamo e più grintose di quanto si riesca ad esprimere ora (6).

La stanchezza di sentirsi in dei vicoli ciechi, laddove non si rigenera nulla e nulla cambia, e, tornando all’intuizione di Pavese, dove quindi manca il vivere.

La chiave di lettura della “stanchezza” per mettersi in gioco credo sia centrale anche per quanto riguarda la scarsità delle energie impiegate a livello pubblico nelle mobilitazioni di questi mesi.

Ancora una volta scrivo generalizzando, e vorrei perciò rimarcare che è la mia percezione in merito e che, soprattutto, non porta con sé alcuna accezione qualitativa: una constatazione.

Credo che siamo, in tantx, oberatx di fardelli giudiziari, sfiduciatx da dozzine di esperienze passate, appesantitx dalle dinamiche che non siamo riuscitx a cambiare nelle “situazioni allargate” e questi fattori (tra mille possibili altri), uniti all’eterogeneità delle piazze, alla liquidità delle identità e alla pretesa (dichiarata) di fare “fronte unico” contro delle misure governative ben specifiche (non si allargava mai, o quasi, il discorso al capitalismo: insomma, se tutto fosse tornato al 2019 pareva che andasse benissimo), tutto questo, dicevo, credo abbia inibito in gran parte l’intervento anarchico nel sociale.

Fanno eccezione (ben documentata tra l’altro da generosi e interessanti report, volantini, comunicati) alcune situazioni geografiche ben delimitate.

Per ridarsi energia ed uscire dalla palude dell’immobilismo io credo che sia cruciale ritrovare la passionalità nel fare le cose, tante e variegate tipologie di cose: per alcunx potrà essere per un’idea di libertà e di società altra, per altrx magari la passione nel progettare il momento in cui la fai pagare a chi ti relega a tanta sofferenza, per altrx ancora qualcosa di completamente diverso.

Non credo che la soluzione alla disgregazione che sentiamo risieda in una nuova idea, in un nuovo luminoso orizzonte, quanto piuttosto nell’accettazione che di fatto nulla ha significato a priori (e nemmeno l’ha mai avuto), nulla è importante davvero o davvero privo d’importanza e perciò siamo noi, tramite sforzi quotidiani a motivarci a vivere e anche a farlo con una certa voglia di rivalsa, di rabbia, di distruzione nei confronti dell’apparato che condanna un intero pianeta e tutta la sua potenziale bellezza a una quotidianità grigia, sporca di sangue, che odora di plastica.

In più ricreando un’idea (forte o meno che sia) si traslerebbe sempre il piano verso un futuro che, radioso o meno, di fatto, non esiste (esiste solo il presente. Domani, per me, potrebbe non arrivare mai) e si ripresenterebbero puntuali come la morte la frustrazione e l’aspettativa (che, venendo tradita, genera frustrazione e così via, fino alla fine dei giorni).

Forse il nichilismo de facto non l’abbiamo scelto, ci è precipitato addosso come un drone in fiamme colpito da una fionda, ma potrebbe fare per noi, in termini di liberazione, molto più di quanto non crediamo.

Molte discipline, nel corso del tempo, hanno individuato nella spoliazione di ogni cosa (materiale e non) la ricetta per la felicità: io diffido in generale delle ricette, ma credo che abbandonare le certezze, perdere ogni cosa che ci pare ormai assodata, accettare l’ignoto di un mondo caotico e sempre sull’orlo del collasso, e farlo senza speranza e senza panico, siano, pragmaticamente, le uniche scelte che mi permettano di continuare a ballare.

L’immobilismo a cui ho accennato più volte mi pare che sia uno dei fulcri dai quali partire per scongelare l’azione anarchica, in questa parte di mondo: da un lato capire i perché ci siamo immobilizzatx, dall’altra le ragioni che ancora ci tengono nella stasi.

Il fatto di non comprendere appieno ciò che sta accadendo fa sì, spesso, che non ci si muova per paura di sbagliare, e se questa è stata sicuramente una delle ragioni cardine che per mesi, se non per un anno interno, ha paralizzato tantx compagnx in giro per l’Italia, all’oggi la comprensione di quanto accade, da un punta di vista dell’analisi anarchica, sembra un po’ ristabilita.

Cioè mi sembra che sia ripresa in parte (per alcunx non è mai stata interrotta) la lucida analisi radicale degli eventi che ci circondano e una generale presa in carico autogestita sia per quanto riguarda gli strumenti di prevenzione di un virus, sia per quanto riguarda la lettura degli strumenti repressivi di ricatto, disgregazione e controllo sociali, in primis le tecnologie genetiche (alias vaccini) e il green pass.

L’immobilismo però resta.

Uno degli effetti, e al contempo causa, secondo me di questa immobilità è la percezione di essere disarmatx.

Se è vero che ci sentiamo in guerra contro l’esistente (e comunque l’esistente lo è contro di noi), il circolo vizioso dell’immobilismo ci rende sempre più incapaci di architettare delle risposte ai continui attacchi del potere, e, ancor più importante, formulare noi delle tempistiche, strategie, obiettivi di attacco (che, come un buon detto ci ricorda, è sempre la miglior difesa).

Io mi sento dentro e addosso questo senso di disarmo, e credo che spezzarlo sia necessario per ridare slancio all’azione sovversiva: il proposito più alto e luminoso resta sempre il buon vecchio “che la paura cambi di campo”.

Potrei, per schematizzare, definire due forme di stasi che sento nel giro anarchico: un blocco nei confronti del “fuori” da noi, ossia il “tessuto sociale”, e un blocco nel dentro, nel rivolgerci a noi stessx, la mancanza di un dibattito fatto di individui e di incontri e non di avatar virtuali.

Mancando il dibattuto e il confronto io credo manchi poi la conseguente presa bene o comunque la voglia di concretizzare momenti, imbastire progettualità, lanciarsi in nuove avventure.

A costo di magnificare nuovamente la splendida acqua calda, dirò che se manca la volontà non c’è niente da fare.

Come sa chiunque abbia una dipendenza da qualcosa e voglia dismetterla, tutti i bei consigli del mondo si infrangono sulla corazzata della mancanza di volontà, dunque, primariamente tocca che ci domandiamo e ci rispondiamo quanto più onestamente possibile: abbiamo voglia di rimettere tutto in gioco? Di mandare gambe all’aria la “stabilità” del mondo anarchico per come l’abbiamo conosciuto?

Perché, se vogliamo prendere a piene mani la nozione di crisi e farla nostra, rimettere in discussione tutto può, ancora una volta, essere una fonte di rinnovamento, novità, vita, gioia.

Ma nessun vero cambiamento avviene senza sofferenza.

Se si spegnessero abbastanza centrali e il capitalismo conoscesse davvero la lunga notte del collasso, beh, a parte la gioia nel cuore di ciascunx di noi, non credo possiamo aspettarci che ci sarà tanto da festeggiare. Sarebbe dura, durissima, sanguinosa, forse non sempre poetica…

Forse la nostra camera riscaldata, l’acqua corrente, il cibo (spazzatura) sempre a portata, le droghe, i vestiti e le scarpe di gomma, i film, la Feltrinelli, l’automobile per scappare al mare, tutte queste cose e una miriade di altre, ci apparirebbero preferibili al difficile e doloroso ignoto?

Siamo davvero vogliosx (non dirò “prontx” perché lo si è sempre e non lo si è mai) di buttarle nelle fiamme per vedere finalmente una luna senza lampioni e le galere tutte in macerie?!

Le grandi sommosse di questi ultimi anni ci hanno fatto sbirciare le condizioni di luoghi e popolazioni che hanno stravolto la normalità capitalista anche laddove (Cile, Stati Uniti, Libano) non si parla di “aree sottosviluppate” ma, seppur diversissime, analoghe alla società dei consumi e di internet in cui viviamo.

In maniera più modesta forse, ma più malleabile, più a portata della nostra azione quotidiana, siamo vogliosx di abbandonare i nostri luoghi comfort, le nostre abitudini anarchiche, le nostre ritualità, i nostri privilegi, le nostre tempistiche, la nostra estetica (sembra una frivolezza ma non si fa in questo mondo, per esempio, la clandestinità con le magliette crust e la doccia una volta al mese)?

E se ci rispondiamo di sì, e ce lo diciamo tra affini, allora io credo che ci si apra un’intera galassia di cose che possiamo fare fin da subito per sperimentare altro, preparare e prepararci al collasso.

Questi due emisferi bloccati, verso il fuori e verso il dentro, sono di certo comunicanti e interdipendenti: credo che laddove dex compagnx abbiano scelto di stare dentro alle mobilitazioni di piazza di questi tempi si sia sviluppato un maggior dibattito e più completo, chi le ha rifiutate (non metto nessuna accezione qualitativa) abbia avuto meno modo di riflettere e di confrontarsi almeno su alcuni temi generali di sopravvivenza contemporanea.

Chiacchierando con una compagna riguardo alle mobilitazioni di piazza di questi mesi, lei poneva fortemente l’accento su quanto si è poco riuscitx, come anarchicx, a diffondere tra una variegatissima massa di individui che, in generale, pareva ben disposta a rompere un tabù, quello dell’illegalità, le pratiche che ci contraddistinguono come “movimento”.

Benché non siamo una banda di Marius Jacob o di Arsenio Lupin, abbiamo le nostre piccole e medie abilità nella sopravvivenza illegale al capitalismo e alla società della merce: dal taccheggio al manomettere un contatore, dal trick del casello fino alla falsificazione di documenti di vario tipo, piccole truffe, autodifesa dalle spie elettroniche, insomma, qualche cosina la si sa fare, e in un momento del genere poteva essere un buon piano sul quale cercare di portare il dibattito da parte di chi questi movimenti di piazza se li è vissuti, tanto più che così si sarebbe forse potuto intrecciare dei rapporti di complicità con chi sa usare le nuove tecnologie in una certa simpatica maniera che potrebbe aiutare i nostri progetti sediziosi o semplicemente farci prendere un aereo senza ingombrarci le vene di sieri OGM sperimentali.

Altra proposta nel senso dell’illegalità riguarda il cosa potrebbe significare occupare oggi: che di certo non è una pratica nuova, ma in un contesto dove ogni porta diventa un check-point, avere dei luoghi liberati dal green pass e dalla paranoia che ti fa rinunciare a vivere per la paura di morire, e per di più senza la ghigliottina delle bollette, può essere davvero una boccata d’ossigeno.

Insomma, ciò che fino a ieri sembrava quasi obsoleto (palestre, bar, sale prove, biblioteche, officine, consultorie e un grosso eccetera, autogestite) oggi divengono terreni completamente nuovi di sperimentazione.

E comunque non parlo solo in termini di “consenso sociale” di quelle fasce di popolazione contrarie agli obblighi, ai diktat, a far da cavie, ma anche tra compagnx, visto che per me ci manca una certa qualità nella condivisione; oggi scegliere di intraprendere una progettualità assieme potrebbe voler dire partire dal presupposto che la vita è e sarà sempre più dura all’interno del capitalismo, non possiamo, in termini di godibilità della vita e di energie conflittuali, permetterci di avere delle relazioni che ci fanno del male e si sfibrano.

Almeno, per me è una priorità, che mi dà molta più forza di agire di qualsiasi mito o grande idea o fine ultimo (so perfettamente che per qualcunx ciò che ho scritto è solo un’accozzaglia di roba post-moderna, e vabbè, me ne farò una ragione).

Avere delle progettualità nuove oppure risignificare e rimettere mano a quelle esistenti, benché tante volte, mantenendo l’esempio delle occupazione, le case, gli squat, gli spazi, portino con sé tanti di quei trascorsi, e spesso tanti traumi, che risulta più accattivante e forse più promettente cominciare da zero, piuttosto che arrovellarsi viscere e cervella nel tentativo di riacchiappare una situazione molto compromessa.

Con questo non voglio dire abbandoniamo gli ultimi posti occupati che abbiamo, proprio no! Voglio solo dire, ognunx faccia le sue valutazioni, di contesto in contesto, ma senza scartare a priori nessuna possibilità, perché, alle volte, gli spazi diventano più dei limiti che dei punti di forza.

Per quanto io mi senta e mi viva la vita in maniera decisamente individualista, credo che finché vivrò dentro a questa società (non come la mia casa da arredare, ma come la mia gabbia da distruggere) dovrò considerare un certo piano di organizzazione collettivo a dei problemi sociali. Questo non significa per me gettarsi acriticamente su ogni proposta pubblica, avanzata da gente che non conosco, ma tentare, quanto meno, di imbastire un’organizzazione minima, che faccia fronte alle mie necessità immediate e pratiche. Un incontro basato sulla complicità, anche compartimentata, con chi sento di avere almeno delle basi comuni: anche se siamo anarchicx non è detto che abbiamo delle affinità a trecentosessanta gradi, anzi, perciò posso considerare di partecipare a più progetti, ciascuno solo per il tratto di strada che mi/ci interessa.

Questo non crea frustrazione nelle aspettative tradite (perché non possiamo aspettarci che solo pochissimi individui scelti ci diano tutto ciò di cui abbiamo voglia/desiderio/bisogno) e ci fa allargare il nostro bacino di confronti, spunti, pratiche, attraversamenti.

La difficoltà estrema che pare stiamo vivendo, come individui anarchici, nell’intessere relazioni di complicità tra noi (per non parlare col “fuori da noi”) credo che abbia radici in una delle peculiarità che ho sempre riscontrato nel giro anarchico, come forse in qualsiasi “consorzio umano” (per citare un mio caro compagno) cioè la sensazione di essere giudicatx per la nostra condotta.

In tantissimi ambiti – da come ci si rapporta alla repressione, passando per la monogamia, fino alla vaccinazione – nelle nostre relazioni adottiamo degli approcci squisitamente morali.

E la morale porta con sé sempre un dogma e delle nette linee di demarcazione.

Credo che, all’oggi, il dibattito sulla vaccinazione (uso questo esempio perché mi pare importante e mi interessa più di altro) all’interno del giro anarchico in Italia sia così lacunoso e sottotono perché chi si vaccina (eccezion fatta per chi crede nell’efficacia di queste terapie sperimentali e quindi, esattamente come “prima” non trova che vi sia granché di cui parlare) lo fa senza dire nulla ax compagnx che ha vicino, e chi non si vaccina dà un po’ per scontato che “è così che si fa”.

Non affrontare la cosa per paura dello stigma di “essersi arresx al ricatto” e il perché unx scelga di cedere al ricatto mi rimanda all’incapacità di trovare assieme delle risposte efficaci a un problema che, per quanto vogliamo sforzarci, non può essere considerato individuale.

Stesso ragionamento può essere fatto per quanto riguarda chi sceglie di contrarre il virus “volontariamente” per farsi il green pass, pratica assai diffusa ovunque, non certo solo fra lx anarchicx, che mi dice tanto sulla nostra carenza di mezzi autonomi di contraffazione, indipendenza economico-materiale e sopravvivenza in genere.

Ciò che affermo mi ributta in un’annosa questione: come si discute e ci si posiziona di fronte a problematiche che appaiono “questioni individuali” (come vaccini, procreazione ingegnerizzata (7), che mansioni fare al lavoro, etc.) ma al contempo è evidente che sono anche squisitamente politiche e, se ci interessa il parametro, etiche?

Come farlo, tra individui, senza ricreare delle morali? E come si formula un posizionamento anarchico che generi multiformità di azione e di priorità piuttosto che ostracismo, gregarismo, tifoseria?

Spessissimo sono questioni legate all’utilizzo della tecnologia, perché, come dice Ellul, la sua “ambiguità” intrinseca rende difficile schierarsi radicalmente, a meno che non la si rifiuti in toto: ma chi non vuole questo tipo di rigetto totale?

Queste domande mi paiono apertissime, e forse lasciar spalancata la porta del dibattito è più importante di qualsivoglia tentativo di risposta.

Per esempio, all’oggi, questa nuova documentazione sanitaria, che ci si può giurare non è destinata a scomparire (a meno che non vi siano aspre e non pacifiche lotte) sancisce un nuovo ordine di privilegio che si somma alla gamma interconnessa e multicolore di quelli preesistenti che, vale la pena sottolinearlo, non sono affatto svaniti, ma si sono a loro volta rafforzati.

Da oggi, cioè, avere o non avere questo nuovo documento segna uno spartiacque tra poter accedere a un servizio, potersi godere un viaggio, non congelarsi le chiappe al freddo invernale etc.

Anche da questo punto di vista possiamo vedere la cosa come una possibilità: empatizzare e collaborare maggiormente con chi dei documenti in regola, per esempio, non li ha mai avuti ed imparare come attraversare un confine senza passare dai check-point.

Inoltre ci fa capire quanto la nostra pelle, la nostra estrazione sociale, la nostra generalmente giovane età, il genere socialmente percepito (per uomini cis) e altre peculiarità che per qualche anarchico sono velleità, nel pratico ci abbiano educatx a una vita estremamente privilegiata, dove potevano prendere un volo low cost in mezzora et voilà!

Ora non è più possibile e il viaggio, per esempio, assume tutta una sua valenza molto più densa, complicata, impegnativa.

Questo spartiacque, si diceva, disegna dei nuovi confini di privilegio all’interno del nostro stesso giro e non credo sia un approccio utile né costruttivo puntarci il dito contro vicendevolmente dandoci colpe di tradimento o di duropurismo: io vorrei prima di tutto cercare di disinnescare le cause che fanno cedere tantx compagnx al ricatto del vaccino/green pass e secondariamente capire quali sono le nostre priorità.

Perché se per me che scrivo l’idea di accettare di farmi iniettare delle biotecnologie sperimentali è davvero impensabile, per altrx non è così: a me piacerebbe chiarire il più possibile, attraverso scritti ma soprattutto confronti vis-à-vis, quali sono le priorità che ci muovono.

E una volta che i termini di cui stiamo parlando saranno chiari, allora potremmo davvero decidere quali e quante persone vogliamo affianco, fare che cosa con chi, etc.

In questa maledetta società tantissime scelte apparentemente individuali portano con sé l’ombra della complicità con l’oppressione; pur sapendo questo, voglio ben distinguere i gradi di responsabilità che riconosco tra chi ordisce, genera, progetta, propaga una nocività e chi ne usufruisce; però mi serve anche, a livello di organizzazione, sapere con chi condivido una certa tensione che non è frutto di unz posizione sociale (il genere affibbiatomi, la classe in cui nasco, il colore della pelle o il dialetto che parlo, per esempio) ma di una specifica scelta; per esempio, a costo di vivere in maniera sempre più difficile, scegliere di non vaccinarmi o non utilizzare un nuovo documento che è, come tutti i documenti, uno strumento di controllo e di discriminazione.

È qui per me questione di affinità, non di morale.

Mi piace ricordarmi che in questa fase, dove i giochi non sono ancor conclusi, c’è una possibilità per chiunque lo volesse di tornare, almeno in parte, sui propri passi: mi spiego meglio.

Le “vaccinazioni” come abbiamo visto sono un processo ciclico, che nessunx sa davvero quanto dureranno, perciò nulla impedisce che chi ha fatto la prima o la seconda o la terza (o chissà che altro numero) dose oggi, domani non voglia interrompere questa sperimentazione, come chi, guaritx o per altri motivi (legali o meno) avesse un pass sanitario, potrebbe decidere di non utilizzarlo più e/o non rinnovarlo.

Questa, probabilmente temporanea, malleabilità del tessuto repressivo fa sì che, in momenti diversi, possiamo ritrovarci con nuovi compagnx di viaggio e credo valga sempre la pena di proporre scambi, mettersi in gioco, saggiare il polso della situazione e non smettere di fomentare la complicità, perché, in definitiva, nessunx refrattarix all’ordine costituito credo sia soddisfattx di sfoggiare un nuovo anello della propria catena.

Di pancia e di cuore il mio grido è di gettare alle ortiche ogni reticenza e sfidare questo infame mondo-galera, che la libertà, o pezzi di essa, la dignità, il sorriso di soddisfazione della nostra (sempre più risicata) autonomia non hanno prezzo.

Questo testo non è un esempio di analisi ben dettagliata e argomentata, non è scritto bene, non è filosoficamente significativo né probabilmente corretto, è un flusso, così come lo si era presentato.

Ci sarebbero dozzine di campi del nostro vivere anarchico da affrontare per diradare le nebbie che strozzano l’agire sovversivo e la presa bene distruttiva (anche creativa); procedendo sempre per esempi: l’uso delle tecnologie (ancora oggi mi pare incredibile come si sia arrivatx al punto che quasi tutte le persone anarchiche che conosco utilizzino con disinvoltura uno smartphone), e il fatto che dex compagnx scelgano di sposarsi e non si riesca a far fronte, in altra maniera, alle difficoltà che attraverso questo riconoscimento legale si cerca di superare.

Ma anche – senza graduatoria d’importanza oggettiva – le sostanze che alterano le nostre percezioni e socializzazioni, le questioni di genere, la violenza, la rabbia, la gestione dei conflitti, la trasmissione di saperi e saper fare (in tutti gli ambiti, dalle ciclo officine alle cose che fanno BOOM!!!), la cura di noi stessx, nel corpo e in tutto ciò che corpo non è, la follia, il confronto con le generazioni diverse dalla nostra, le complicità che potremmo intessere con gli animali non umani e gli attacchi che potremmo portare assieme al mondo del dominio.

Il fatto che alcune pratiche siano divenute “consuetudini”, e che non se ne parli se non tra sparuti individui, spesso in maniera emergenziale e quasi mai prendendo seriamente in considerazione la possibilità che da quelle chiacchiere nasca uno stravolgimento dello status quo, mi preoccupa, perché laddove s’insinua la norma muore, per me, la scelleratezza della liberazione.

Parlo di liberazione, perché la libertà non la conosco, non l’ho mai vista e per me liberazione è un sentiero che si inerpica per un universo intero di dubbi, domande, critiche, proposte, poesie, intuizioni, bisbigli.

Piccole fiammelle e sobillazioni che potremmo scambiarci se solo non fossimo così impegnatx a fare sempre le stesse cose che non ci danno più stimoli, non ci fanno star bene, non ci aiutano ad uscire dalla presa male, non ci gratificano in termini di espressione creativa e/o distruttiva.

A costo di apparire frivolx, vorrei ricordarmi e ricordarci che il capitalismo è scientificamente e tecnicamente progettato e gestito per sottomettere individui-massa tristi, frustrati, spolpati di energia e di tempra, e che nei cortei arrabbiati c’erano sempre una o più voci amiche che gridavano “Presi bene raga!!!” non era un caso… e poi cominciava la giostra.

Mi spaventa e mi fa arrabbiare (rabbia non rivolta verso costoro, sia chiaro, ma verso il sistema tecnico) il fatto che tante persone nel mondo occidentale, sempre più giovani e con sempre maggior noncuranza, si affidino anima e corpo alla scienza (medicina, farmacologia, psichiatria, neurobiologia) per risolvere quelli che loro stessx avvertono come “malattie”.

Anche noi anarchicx soffriamo grandemente del male di vivere di questo mondo, in questo tempo, al pari di tantissimi altri individui, e anche nel nostro piccolo acquario di DIY e di libri interessantissimi entra sempre più prepotente il raffio della psichiatria e del linguaggio patologicizzante a normare i nostri comportamenti, dare un volto chimico ai nostri demoni, ammansire, sotto la coltre di una pretesa razionalità, ciò che di immensamente e inestricabilmente c’è di misterioso e ignoto: la vita. La morte.

Al dolore che patiamo voglio poter dare risposte individuali e collettive, che si completano; arrabbiate, desideranti, appaganti.

Nel concludere, e rendermi conto che sono statx verbosx oltre ogni dire, vorrei esplicitare che non è una manifesto della disperazione, anzi, tutt’altro, è un inno al rovesciamento.

Prendere atto di una situazione problematica non significa affatto rassegnarvisi: affrontiamola a viso aperto e volto coperto, stimoliamoci a vicenda, sperimentiamo, tentiamo, ritroviamo la bellezza e la spregiudicatezza di vivere, che fa rima con attacco, corsa, labirinto, baci, sentieri.

Come dicevo nella premessa questo testo nasce con la specifica volontà di fare tanti cerchi nello stagno, e che poi gli argini si sgretolino e che tuttx si torni ad essere fiume, molti fiumi, e che poi i fiumi esondino, e che come nelle belle favole si portino via tutto.

Conclusione:

Un testo del genere potrebbe non avere mai fine. Perché ogni volta che lo rileggo e ogni volta che ci ripenso o qualcunx mi dice qualcosa a riguardo mi viene voglia di rimetterci mano, aggiungere cose, aprire nuove parentesi.

Non è un testo esauriente, è un insieme di spunti, e credo che la sua natura sia perciò molto vasta, vaga e in questo trovo la sua forza e la sua debolezza: abbracciare un sacco di aspetti e non sviscerarne davvero bene nessuno, ma lasciare che siano anche altrx a farlo.

Ma lo scopo del testo era scuotere, non convincere, increspare, non chiarificare, perciò mi dico che va bene così.

Note:

(1) Riguardo alla “preparazione” ricordo un’interessante intervista a dex compagnx grecx sulle sommosse del 2008, dopo l’assassinio Alexis, dove descrivevano come fosse stato fondamentale, all’inasprimento e al mantenimento del fuoco della rivolta, il fatto che moltx anarchicx, da tempo, avessero una mappatura di luoghi e infrastrutture cruciali dove dirigere i propri attacchi per complicare il lavoro del nemico. Pare che la Storia ci confermi che c’avevano visto bene.

(2) Per fortuna!!! Scherzi a parte, non voglio banalizzare un tema vastissimo, ma mettere a fuoco che se sempre più le assemblee, così concepite e realizzate, hanno stomacato tantx compagnx da anni, ci sono delle ragioni complesse e troppo spesso ignorate, più o meno volutamente. Posso citare, schematicamente: la mancanza di reale orizzontalità, l’autorità informale, la retorica come arma di dibattito, il macismo.

(3) Per esempio l’opuscolo “Sei fuori di testa, ci sto dentro di brutto!” uscito su anarcoqueer.

(4) In questo frangente mi piace ricordarmi ciò che mi ha detto un compagno da poco: che il mondo-covid sta monopolizzando anche il nostro linguaggio, i nostri racconti, le nostre attenzioni, distogliendoci (non tuttx, non sempre, non ovunque) da una nostra traiettoria che è comunque ben tracciata nelle analisi e nell’azione: perciò lottiamo sì contro le innovazioni e accelerazioni del capitalismo del mondo-covid, ma lottiamo anche contro tutto il resto, per l’unico proposito che credo di voler realizzare che è per me la negazione più totale di ciò che esiste: l’anarchia.

(5) A onor del vero questi racconti, eccezion fatta per la Val Susa durante un festival autonomo-popolare, non riguardano, nel territorio dominato dallo stato italiano, i posti esplicitamente anarchici. Altrove, per ciò che so almeno in Europa, purtroppo, sì.

(6) Un’amica, a questo proposito, mi proponeva di ribaltare la cosa e di guardarla da una prospettiva ottimista: significa che non è mero ribellismo giovanile ma convinzioni portanti del nostro essere. Ok sull’approccio positivo, per carità, benissimo! Ma, a parte che non capisco prima di tutto perché dovremmo sputare sopra al ribellismo, inoltre questa è una carenza forte che io sento realmente, in termini di individui complici e di energie.

(7) Ho volutamente inserito la questione della “procreazione”, consapevole di quanto delicato sia il tema, perché vorrei tentare di dimostrare che si può essere criticx senza voler assolutamente trattarla in maniera strumentale per attaccare i femminismi e lx femministx.

Ci sono centinaia e forse più “fronti” di profonda compromissione col sistema tecnico che brillano per incoerenza e contraddizione, da un punto di vista anarchico, ma le questioni della PMA e delle transizioni con farmaci, ormoni etc. (altro evergreen) sono sempre prese come esempi da chi, attraverso l’evidenziare queste contraddizioni, vuole attaccare le correnti femministe e gli individui trans stessx, camuffando, secondo me, la loro transfobia ammantandola di legittimità attraverso una critica al sistema tecnologico.

Io riconosco che considero la vita (di conseguenza la gestazione e la nascita) e la morte con una certa aurea di mistero, che mi suscita qualcosa di primitivo, ma non per questo mitizzo o santifico la procreazione (anzi!) e nemmeno mi permetterei mai di sindacare le ragioni che portano un individuo a intraprendere un percorso di transizione utilizzando dei prodotti farmaceutici: al pari di altre contraddizioni potenti delle nostre vite mi piacerebbe se ne potesse dibattere con radicalità non per questo equiparando chi usufruisce di una specifica nocività con chi la progetta e diffonde.

Ripeto: ho scelto di utilizzare appositamente questi esempi per non lasciare la critica nelle mani dell’antifemminismo e spronare chi invece si sente solidale e complice con la lotta contro il patriarcato in tutte le sue forme, a riappropriarsi della critica e dell’autocritica e a chi interessasse coniugare la lotta antitecnologica/anticivilizzazione con quella antipatriarcale a emergere nel dibattito. (Questo non significa che già non venga fatto e io mi schiero in solidarietà di chi si batte, tra gli altri, con questo obiettivo)

(8) Riguardo alla diffusione da parte anarchica di idee e pratiche di illegalità, le operazioni repressive Ritrovo, Renata e Sibilla, oltre che una diffusa riscoperta del reato di “istigazione a delinquere” ci dicono che, beh, in effetti abbiamo ragione a pensarci come potenziali sobillatorx! Infatti i ROS hanno fatto scattare le prime due, per loro stessa dichiarazione, “preventivamente” e l’ultima ha colpito “solo” le idee anarchiche. In questo senso, benché vi sia poco da rallegrarsi di arresti e misure cautelari varie, potremmo prendere spunto per realizzare, con quanta più solerzia ci aggrada, le loro temute previsioni.