Aggiornamento sulle misure e sul processo per l’Op. Byalistok

Riceviamo e diffondiamo:

AGGIORNAMENTI SULLE MISURE E SUL PROCESSO PER L’OP. BIALYSTOK

Gennaio 2022

Avvicinandoci alla fine del processo intentato a seguito dell’op. Bialystok ci sembra il momento di diffondere alcune considerazioni sull’andamento dello stesso. Per quanto non ci interessi infatti seguire i tempi dettati dalla repressione, né assumere pose vittimistiche o allarmistiche di fronte alle attività delle istituzioni poliziesche, crediamo sia importante condividere informazioni e impressioni circa ciò che avviene a livello tribunalizio. Per scelta consapevole riassumeremo aspetti e momenti da noi reputati degni di nota, a discapito di una descrizione puntigliosa e cronologica del processo che ci vede imputatx.

Per quanto riguarda l’impalcatura dell’inchiesta rimandiamo ai testi “Sull’operazione Bialystok” già pubblicato e circolato in rete ed a “Testo e contesto”.

Nel momento in cui scriviamo tuttx x imputatx di questo procedimento sono a piede libero. In data 6 Gennaio è giunta risposta positiva di fronte ad un’istanza per la fine delle misure cautelari a cui erano ancora sottoposti 4 imputati (3 obblighi di dimora e un obbligo di presentazione per firme settimanali), per cui al momento rimane una sola persona agli obblighi di dimora. Le differenze di condizioni sono dovute perlopiù ai tempi diversi nella presentazione dei ricorsi che hanno portato gli stessi di fronte a corti differenti, e alle specificità delle posizioni individuali in merito ai reati contestati.

A grandi linee fino ad ora il processo è stato contraddistinto da ore ed ore di udienze interminabili per la delineazione del contesto anarchico a livello nazionale quanto internazionale, udienze dove noi imputatx non siamo quasi mai statx nominatx. Solo dopo molte udienze si è cominciato a parlare dei cosiddetti fatti specifici. Un certo interesse ed un certo risalto hanno avuto i momenti in cui si esponevano i rapporti internazionali dellx imputatx; questo non perché l’accusa abbia portato chissà quali elementi, anzi, abbiamo assistito ad una vera e propria scalata sugli specchi, ma più per il gioco dei ruoli all’interno dell’istituzione della giustizia. È evidente che una corte d’assise, abituata ad avere a che fare con reati di una certa gravità, vede nella dimensione internazionale dell’inchiesta la possibilità di una propria ragion d’essere. E questo diciamo sul piano dello show tribunalizio vero e proprio; nel dietro le quinte, ovvero sul piano dell’inchiesta, e quindi della strategia repressiva, vediamo anche qualcos’altro, cioè una direzione che ha tutta l’aria di voler essere battuta in futuro. Questi, come altri in passato, sono tentativi, a volte riusciti ed a volte meno, di strutturare su un piano concreto la collaborazione delle polizie e delle procure a livello internazionale riguardo alle indagini.

Risulta chiaro, infatti, come ci siano piani diversi di collaborazione: da un lato alcunx di noi sono statx arrestatx all’estero, così come è successo in altre operazioni anti-anarchicx, a dimostrazione che gli accordi antiterrorismo europei sono operativi e rodati quando di mezzo c’è un mandato di cattura, ma la cosa non sembra così sciolta e fluida quando i reparti investigativi richiedono supporto nelle indagini, come l’accesso a informazioni raccolte da organi di polizia estera, la richiesta di servizi di osservazione o di autorizzare perquisizioni. Ad esempio nell’operazione che ci riguarda hanno tentato di perquisire, e forse arrestare se gli esiti della stessa fossero stati positivi, un anarchico residente in Germania; lo stato tedesco però non ha ritenuto sufficienti le prove presentategli dal ROS italiano e non gli ha permesso di procedere con le indagini su di lui.

In sede di processo è un certo colonnello Imperatore del ROS (Raggruppamento Operazioni Speciali dei Carabinieri) a riferire della costruzione dell’ipotesi giudiziaria. Questo personaggio sembra essere stato scelto più per le sue capacità mnemoniche che per la sua intelligenza. È chiaro che il suo scopo sia quello di creare una rappresentazione del mondo anarchico nel suo complesso che giustifichi un’inchiesta che non ha sostanza. A questo scopo, incitato dalle giudici e dal Pubblico Ministero (il quale è stato poco più di una comparsa per quasi tutto il processo, confermando il fatto che questa figura giuridica svolga in molti casi un ruolo di mero passacarte alle dipendenze delle forze di polizia), ha compiuto diversi voli pindarici spaziando dalla gambizzazione del dottor Mammoli nel ’77 ad opera di Azione Rivoluzionaria alle azioni esplosive rivendicate dalla FAI, dal contesto anarchico cileno a quello greco, il tutto ben condito da ogni sorta di illazioni spettacolarizzanti per creare un quadro generale di pericolosità del movimento anarchico che giustificherebbe l’intervento repressivo specifico. Il suo scopo è nient’altro che quello di una macchina del fumo col fine di suggestionare le giudici e la corte popolare in mancanza di elementi probanti solidi. Il punto più basso (o più alto, dipende se si considera la scala della decenza o quella dell’assurdo), e al contempo più indicativo della mentalità inquisitoria di questi personaggi, è stato quando il colonnello ha affermato che “Alfredo Cospito è l’anarchico più importante al mondo in vita” in sede di controesame. Roba da ridere se non ci confermasse l’accanimento delle istituzioni repressive verso questo anarchico prigioniero che con ostinazione continua a partecipare al dibattito anarchico con convinzione per le proprie idee e la passione che queste gli inspirano.

Questa narrazione che tende allo spettacolo è messa in atto, tra i vari espedienti, da tutto uno scivolamento di significato che si registra nelle parole scelte (e ripetute fino allo sfinimento) dal colonnello per descrivere i fatti. Giornali e incontri divengono “clandestini” solamente per il fatto che circolano col passaparola o di mano in mano, auto incendiate diventano “attentati”, un po’ di diavolina su un copertone diventa “un ordigno esplosivo-incendiario”, un concetto ampio e complesso come solidarietà viene ridotto ad un semplice pretesto per compire azioni, etc. Il confine tra lo sbirro e il giornalista si fa sempre più sottile quando il suo compito diventa quello di impressionare per convincere della giusta necessità dell’opera repressiva. È infatti attraverso il “discorso del potere”, l’imposizione di una certa lettura delle cose a scapito di un’altra, che la repressione dura e pura lascia il passo alla diffusione del consenso, alla pacificazione e al cittadinismo.

In aula le giudici non tentano nemmeno di dissimulare la loro bendisposizione nei riguardi del ROS e il fastidio che provoca loro il tentativo della difesa di smontare le ipotesi dell’accusa. Questo è apparso ancor più palese in sede di controesame, da una parte attraverso il mettere pressione, se non in alcuni casi il contestare direttamente le domande degli avvocati della difesa, dall’altra incoraggiando i testimoni dell’accusa (gli ufficiali dei ROS che a vario titolo di sono occupati delle indagini) ad esulare nelle risposte, a portare nuovi elementi anche se sarebbe contrario alla prassi giudiziaria, etc. Il colonnello ha dimostrato nello specifico un’incredibile faccia tosta nell’eludere le domande per riproporre spasmodicamente la sua versione dei fatti, anche se su alcune domande specifiche non si sono contati i “non ho contezza”, i “non ho capito la domanda” e i “non ricordo”.

A dimostrazione delle forzature che gli inquisitori hanno dovuto compiere per contestare l’ipotesi di un’associazione terroristica, rileviamo che il “reato-scopo” di maggior gravità (l’attacco esplosivo alla caserma dei carabinieri di San Giovanni a Roma del 7 Dicembre 2017) è situato temporalmente fuori dal periodo che secondo l’accusa vedrebbe nascere il sodalizio associativo (estate 2018) e che uno degli imputati (accusato dell’incendio di alcune macchine del car sharing Enijoy di proprietà dell’ENI) non farebbe nemmeno parte del suddetto sodalizio. Il resto dei reati contestati riguarda avvenimenti di ben modesta portata da un punto di vista accusatorio come presidi, manifestazioni, imbrattamenti, danneggiamenti, finora insufficienti da soli a sorreggere delle accuse di terrorismo.

A livello processuale una prima incrinatura del racconto dei ROS è avvenuta nel momento in cui le difese hanno fatto deporre in aula i propri periti riguardo alle contro-perizie da loro svolte. Per quanto concerne l’azione contro la caserma dei carabinieri di S. Giovanni infatti le accuse nei confronti di un imputato (l’unico ad essere accusato per quell’attacco) si fondano quasi esclusivamente su due perizie dell’accusa, una di tipo antropometrico e cromatica, e un’altra di tipo posturale. Attraverso queste si voleva dimostrare che l’altezza e il tipo di camminata dell’imputato fossero le stesse di un soggetto inquadrato dalle telecamere di sicurezza, nonché che il cappotto usato usualmente dallo stesso fosse corrispondente a livello cromatico a quello usato nel momento dell’azione. Ebbene i periti della difesa hanno confutato radicalmente le tesi della controparte, mettendo in risalto tutti gli “errori” di metodo e di approccio presenti nelle perizie accusatorie. Questa udienza è stata decisiva per la scarcerazione di Claudio nel luglio 2021, dopo 13 mesi di carcere, la gran parte dei quali passati in isolamento, essendo all’epoca l’ultimo imputato ancora detenuto.

Alcune parole a questo punto crediamo sia il caso che vadano spese per quanto riguarda l’utilizzo delle perizie da parte della procura. Premettiamo che sappiamo bene cosa sia il ROS e quali scopi è stato nel tempo chiamato a perseguire. Le operazioni speciali di cui si occupa riguardano infatti molto spesso le trame più oscure dello stato, nelle quali gli interessi economici e quelli politici si intrecciano diventando spesso lotta intestina per il potere, lotta nella quale questo organo dei carabinieri ha avuto il suo ruolo. Esso vanta nel suo “curriculum di servizio” un generale condannato in primo grado per spaccio internazionale di stupefacenti, un altro per concorso esterno in associazione mafiosa e violenza o minaccia a corpo politico dello stato, più diversi ufficiali indagati e condannati per le stesse vicende, oltre che per il favoreggiamento di due famosi mafiosi latitanti e il depistaggio di varie indagini contro la mafia. Insomma un bel “pezzo di stato”. Certamente non crediamo nella giustizia, tanto meno nella verità dei tribunali, ciò nonostante questi dati ci sembrano in qualche modo indicativi.

Con questo quadro di sottofondo di certo non ci aspettiamo da lor signori nessuna integrità morale: i loro metodi di indagine nei confronti dellx anarchicx si sono dimostrati negli anni a dir poco dubbi, se non marci fino al midollo, tra confidenti ricattati e fabbricazione ad arte di prove, avendo ben attenzione di scartare qualsiasi elemento scagionante. E questo vale anche per il caso che ci riguarda. Le perizie appaiono infatti redatte “su commissione” da due personaggi che con ogni evidenza hanno già lavorato a stretto contatto con il ROS in passato. Emerge quindi una vera e propria prassi nella costruzione delle prove d’accusa: si contattano dei periti noti e si richiedono delle perizie tecniche che, come ogni argomento di tipo tecnico, appare oggettivo ad occhi profani. Con esse si hanno così delle “prove” che altrimenti non si avrebbero e che possono condurre a degli arresti, poi spetterà all’accusatx il compito di difendersi assumendo un perito di parte che confuti sul piano tecnico le tesi dell’accusa. Sono due gli elementi che ci sembra interessante sottolineare su questa pratica che non riguarda certamente solo gli ambiti sovversivi. Il primo riguarda il carattere di classe di questo metodo: i periti tecnici sono spesso degli esperti riguardo argomenti molto specifici, su alcuni di essi (come per esempio la genetica forense) si contano sulla punta di una mano su tutto il territorio nazionale e le loro consulenze si pagano di conseguenza a peso d’oro. Risulta immediatamente comprensibile come “il diritto alla difesa” risulti così sottomesso alle possibilità economiche dell’accusatx. L’altro elemento concerne il valore che il “sapere scientifico” sta acquisendo all’interno della società, e quindi anche dentro alle aule dei tribunali. Un parere “tecnico” appare di per se stesso ammantato da un oggettività superpartes che affascina incredibilmente coloro che sono chiamati a giudicare le responsabilità e le condotte umane. Ma come non ci stancheremo mai di ricordare, non esiste nessuna scienza che risulti imparziale rispetto alle sue applicazioni, che saranno sempre sottoposte alla volontà individuale. Ci vuole assai poco infatti per mettere in fila dei numeri, citare due formule algebriche assieme a qualche nome famoso, per far passare un metodo d’indagine come scientifico quando si cerca, come in questo caso, di stabilire l’altezza di un soggetto in movimento ritratto da una telecamera notturna. I moderni stregoni vendono fumo alla corte del re…

Per quanto riguarda l’attacco contro le tre auto del carsharing Enijoy, l’avvocata dell’ENI, tale Scilla Malagodi, sta attivamente cercando di portare all’attenzione della corte gli elementi che secondo lei potrebbero sostenere l’aggravante di terrorismo. Lo sforzo persistente da parte dell’avvocata di inquadrare l’azione contro le tre auto in una campagna di lotta contro ENI va sicuramente letto come un tentativo di ottenere una condanna in cui venga confermata quest’aggravante.

Già in passato l’apparato repressivo italiano ha mostrato di essere particolarmente attento alle esigenze della multinazionale: il 23 maggio 2011 ad esempio il capo della sicurezza di ENI rilasciava un’intervista dichiarando che l’ENI era sotto attacco da parte di Al Qaeda all’estero e da parte degli anarchici in Italia. Il 6 aprile, appena due settimane dopo, con l’operazione Outlaw la digos di Bologna metteva sotto sequestro il circolo di documentazione Fuoriluogo, che stava portando avanti una campagna pubblica contro il cane a sei zampe, e metteva sotto arresto sei compagnx. Senza contare le innumerevoli missioni militari italiane all’estero che, nonostante siano classificate come “umanitarie”, nascondono invece la necessità economico-strategica di proteggere gli interessi e le infrastrutture estrattive di ENI, o tutti gli sforzi che vengono costantemente fatti dalle istituzioni per insabbiare le responsabilità di questa azienda nell’inquinamento ambientale.

Nel processo attuale un’eventuale conferma, in caso di condanna, dell’aggravante di terrorismo per l’incendio delle tre auto Enijoy significherebbe che ogni attacco contro ENI potrebbe in futuro essere gestito sotto le premesse della legislazione sul terrorismo.

Un altro elemento che ci interessa indicare è il fatto che l’attenzione dei ROS per il Bencivenga Occupato, e conseguenzialmente per le persone che vi gravitavano attorno all’epoca, è stata attratta nell’Aprile del 2017 con l’ultimo incontro del ciclo “Sempre a Testa Alta” in solidarietà ax indagatx e ax arrestatx dell’op. Scripta Manent, e dalla diffusione dell’appello “Per un Giugno Pericoloso”. È per questo motivo che il monitoraggio del Bencivenga era già attivo la mattina del 7 Dicembre, giorno dell’attacco di S. Giovanni.

Una particolarità di quest’inchiesta che segnaliamo è la mancanza assoluta di un qualsiasi promotore dell’associazione, ovvero di quella figura di carattere leaderistico di cui deve essere dotata qualunque associazione per il codice penale italiano. Non siamo sicurx che questa sia una novità in senso assoluto, ma in essa ci leggiamo il tentativo delle istituzioni repressive di far passare a livello giuridico un’organizzazione orizzontale, così da creare un precedente per poter applicare con maggiore facilità reati associativi ax anarchicx. Non si contano infatti negli anni le operazioni antiterrorismo nei confronti degli ambienti anarchici, operazioni che puntualmente si sono infrante in passato sull’impossibilità di attribuirgli certe forme d’organizzazione verticistiche schematizzate nel codice penale sul modello delle organizzazioni lottarmatiste di matrice marxista-leninista e su quelle malavitose, così come condotte e finalità specificatamente terroristiche.

Tralasciando ora qui il dibattito per cui il terrorismo sia una strategia di lotta più o meno rivendicabile da dex anarchicx, vogliamo in quest’occasione allontanare qualsiasi spettro di vittimismo che aleggi attorno alle nostre parole: consideriamo la repressione un’ovvia conseguenza dello scontro in essere, e gli strumenti e le forme che questa assume il frutto dello specifico contesto storico-culturale in cui ci troviamo ad operare. Sarebbe dunque il caso che una volta compreso quest’ultimo, così come le dinamiche della repressione nostrana, chiunque si muova all’interno di ambienti che fanno dell’anarchismo e della lotta allo stato i loro poli aggregativi si prepari eticamente, psicologicamente e praticamente all’eventualità di questo genere di accuse.

Cogliamo l’occasione per ringraziare tuttx coloro che ci hanno sostenuto col pensiero e l’azione, e per mandare un saluto solidale ax prigionierx anarchicx nel mondo, a chi si trova privatx della propria libertà e a chi è uccell di bosco.