La liberazione della Palestina ed Israele nel vortice della crisi generale del sistema capitalista

da: noinonabbiamopatria.noblogs.org

Quando nei primi giorni di maggio salta la rabbia palestinese di Gerusalemme Est contro il via libera della Corte Suprema di Israele di sfrattare con la forza le famiglie palestinesi dal quartiere di Shaikh Jarrah, per assegnarle ai nuovi colonizzatori israeliani, e scoppiano le violenti proteste presso la moschea di Al Aqsa contro le truppe di occupazioni israeliane (indomite nel provocare i palestinesi durante il mese del Ramadan, negando loro l’accesso alla “Porta di Damasco” e alla moschea stessa), era immediatamente chiaro che si dipanava una pianificata escalation della pulizia etnica della Palestina.

Pianificazione che ha visto alcune precise tappe precedenti nel corso degli ultimi quattro anni, con il sostegno del suo principale manutengolo – l’imperialismo USA – che ha provato a condizionarne tempi e modalità:

  • La dichiarazione unilaterale di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele;

  • Il suo riconoscimento da parte della Casa Bianca degli Stati Uniti d’America ed il seguente spostamento della sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme;

  • Il riconoscimento dello Stato di Israele da parte degli Emirati Arabi Uniti e Bahrein promossa dall’azione diplomatica di Trump anche per rimettere in riga i paesi dell’OPEC;

  • la dichiarazione unilaterale di Israele dell’annessione dei territori occupati della Cisgiordania;

  • e non da ultimo la conferma della presidenza degli USA Biden a mantenere la sua ambasciata proprio a Tel Aviv, in continuità con le decisioni prese dall’ex presidente Donald Trump, e a sottoscrivere negli ultimi giorni un contratto di vendita in armamenti per 736 milioni di dollari.

Che non ci trovassimo di fronte all’ennesima operazione neocoloniale di Israele, attraverso l’espropriazione dei palestinesi lenta e graduale casa per casa, villaggio per villaggio, e via militare in Cisgiordania, ma ad una vera accelerazione improvvisa della Stato imperialista di Israele, che rompe il tran tran regolare della competizione imperialista nell’area, è stato chiaro sin da subito con la possibilità di innescare dinamiche in Medio Oriente non immediatamente gradite dagli Stati imperialisti impegnati in prima persona nella balcanizzazione della Siria, del Nord e del Sud dell’Iraq e nel conseguente massacro di proletari e sfruttati su tutti i fronti.

Perché Israele getta ulteriore benzina nella polveriera medio orientale avviando una accelerazione del suo piano storico di costruzione del grande Eretz Israel, pianificato e condotto attraverso la pulizia etnica di tutti gli arabi dall’intera Palestina?

Ci sono diverse spiegazioni politicistiche sul piatto, tutte completamente infondate e fuorvianti per la causa degli sfruttati ed oppressi palestinesi e del Medio Oriente.

Una prima spiegazione davvero sciocca e semplicistica è quella che Netanyahu ed il principale partito di governo – il Likud – riaccendono il cosiddetto conflitto israeliano palestinese per distogliere l’attenzione della cosiddetta opinione pubblica dagli scandali di corruzione che li vede coinvolti nella transazione che il governo ha gestito per l’acquisto di navi e sottomarini da guerra attraverso il gruppo tedesco ThyssenKrupp. In sostanza Netanyahu andrebbe alla guerra contro Hamas e la Palestina per recuperare il consenso elettorale che le continue mobilitazioni di piazza della società civile israeliana – ogni fine settimana durante tutto il 2020 ed il 2021, lockdown totali permettendo, e guerra permettendo – contribuirebbero ad erodere chiedendo appunto le dimissioni del governo “corrotto”.

In sostanza quando le cose scricchiolano, cosa c’è di meglio di soffiare sul fuoco nazionalista e sciovinista per distogliere l’attenzione dai problemi sociali e politici interni? E magari Netanyahu questa escalation l’avrebbe anche concertata con Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmud Abbas, anche essi alle prese con un proletariato interno palestinese che non sa più di come vivere.

Questa facile interpretazione non solo è inconsistente, ma conduce al peggiore indifferentismo sciovinista del ricco e grasso occidente, del “che ce ne frega, sono tutti d’accordo e tutti egualmente fetenti”. Oppure conduce a richiedere l’intervento della comunità internazionale, dell’ONU e della UE, affinché si agevoli il processo democratico in Israele attraverso la vittoria dei laburisti alle prossime elezioni, e dunque il pacifico ritorno alla pace basata sullo Stato di Israele e la concertazione diplomatica con il bantustan di West Bank ed lo Stato lager a cielo aperto di Gaza, tutti liberi nel libero mercato capitalistico democratico che fa piazza pulita di politici ladri, corrotti e guerrafondai.

La seconda spiegazione, anche essa cervellotica, sarebbe che Israele approfitta del caos e del massacro di proletari nell’area siriana in corso, per mangiarsi altri pezzi della Palestina mentre nessuno guarda. Come si può ben capire questa interpretazione è di chi considera la globalizzazione capitalista, ossia la pervasività oppressiva del mercato e della rapina imperialista, secondo delle scatole separate: la polveriera in Siria non ha nulla a che fare con quella nella terra di Palestina e viceversa. Sono tutte questioni specifiche e separate, dove, ancora una volta, ognuna sarebbe risolvibile all’interno del suo quadro locale, con un po’ di buon senso da parte della comunità internazionale, l’impegno dell’ONU e dei democratici Stati di Occidente, cui magari chiedere qualche borghesissimo e democratico embargo commerciale ad Israele (sulla esportazione ed importazione di tecnologie ed armi o sulla importazione dei famosi pompelmi Jaffa).

Ce ne è una terza magari, che può apparire estremista e rivoluzionaria, ma al pari delle altre due è altrettanto borghese e compatibile con l’insieme delle necessità del capitalismo, e nei confronti delle masse sfruttate di tutta l’area presta il fianco a soluzioni antiproletarie, di cui le leggi impersonali del capitalismo stanno determinando come tendenze. Secondo costoro lo Stato di Israele sionista sarebbe nelle sua fondamenta etiche, morali e di principio uno Stato essenzialmente razzista, sarebbe la versione del fascismo e del nazismo in salsa sionista della seconda metà del XX secolo e di inizio XXI secolo. E per tal motivo la lotta internazionale dovrebbe essere decisa ed estesa in uno scontro di civiltà tra democrazia dei popoli ed il risorgente fascismo e nazismo internazionale, di chi sostiene costi quel che costi Israele e di chi contro gli ebrei ed Israele rispolvera le vecchie bandiere con la croce uncinata.

Lo Stato di Israele “è come quello di Hitler e Mussolini” sentiamo affermare spesso, il problema della pace e della guerra cui l’umanità sfruttata (proletaria, dei lavoratori diretti delle campagne strozzati dalla finanza imperialista, di quelli espropriati delle loro terre che si trovano i muri armati ai confini del grasso occidente) sarebbe dunque un problema di Stati canaglia e di mele marce autoritarie al governo.

In sostanza, questa impostazione, in salsa falsamente antisionista, sarebbe anche essa la riaffermazione dei principi di libera democrazia, libero mercato, libero sfruttamento capitalista ed imperialista e di libero massacro di proletari scagliati in guerra tra loro per rimuovere la mela marcia sionista e tutte le altre del XXI secolo. Quante volte abbiamo sentito ripetere queste schifezze da parte dei paesi imperialisti occidentali, dai vari Bush, Obama e D’Alema, ecc. quando le democratiche armate imperialiste dell’Occidente andavano a bombardare l’Iraq, la Libia ed i Balcani? La differenza dell’oggi è che a remare in questa direzione la platea dei serpenti della democrazia e del libero saccheggio del capitale finanziario si è un tantino anche allargata verso oriente, aggiungendo a seconda da dove si guarda sempre tanti più Stati canaglia da combattere con le armi degli eserciti democratici (Israele, Siria, Iran, Cina, Turchia, ecc.).

Le cause profonde dell’escalation di Israele nella pulizia etnica della Palestina e di tutti gli arabi e non ebrei

Le cause del dramma palestinese cui stiamo assistendo sono il prodotto determinato di una crisi generale economica, sociale e politica le cui radici sono nell’impossibilità di riavviare durevolmente l’accumulazione generale del capitalismo su scala mondiale. La novità è che la crisi generale bussa forte alle porte di chi nel mercato mondiale dei capitali, della finanza e delle merci comanda opprimendo i proletari ed i popoli espropriati delle loro terre e dominati.

Non bastarono i 20 anni di guerra in Iraq ed Afghanistan ad assicurare prezzi convenienti per USA, Italia, Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone, Russia, Cina e Turchia dell’oro nero e riavviare un circolo virtuoso dell’accumulazione capitalistica. Non è bastato scaricare la crisi economica intensificando lo sfruttamento in Medio Oriente, Nord Africa e nel cuore del continente Africano. Ci si è affidati al carro della prorompente produzione capitalistica Cinese, da cui l’occidente ha estratto in virtù della finanza parte del plusvalore prodotto dalla merce forza lavoro cinese ed immigrata, e di cui si è avvantaggiata indirettamente delocalizzando le parti della produzione complessiva con minor valore aggiunto nelle delocalizzate fabbriche ottocentesche di tutto il sud est asiatico e della Cina stessa. Ci si è affidati imponendo attraverso la concentrazione della finanza e del controllo delle terre contadine di quasi tutto il mondo a produzioni agricole sotto costo, che non solo hanno affamato centinaia di milioni (se non miliardi) di lavoratori diretti della terra e che sono stati espropriati delle loro terre di tutto il sub continente indiano e della vicina Asia, della America Latina, dell’Africa saccheggiata per il suo oro verde, imponendo poi ai contadini ed ai bambini defraudati un regime di lavoro forzato, oppure all’emigrazione coatta e forzata. Il frutto del lavoro dei contadini poverissimi e la proprietà delle terra espropriate dalla grande finanza, dalle multimiliardarie catene dell’agrobusiness e della distribuzione globalizzata delle merci al dettaglio, ma anche delle catene globali dei fast food di menu ad un 1 dollaro incompatibile con una sana alimentazione, hanno poi determinato, per le leggi impersonali del modo di produzione capitalistico, l’abbassamento globale dei salari medi ed al limite della sopravvivenza della forza lavoro produttiva di mezzo mondo e fino nelle cittadelle delle metropoli imperialiste.

La sacra guerra democratica dell’alleanza delle armate occidentali per rimuovere gli Stati canaglia dell’Iraq di Saddam e dell’Afghanistan dei Talebani riuscì certamente ad annichilire la mobilitazione delle masse proletarie e sfruttate che dal Marocco all’Indonesia spontaneamente insorsero contro l’aggressione imperialista in atto tra il Tigri e l’Eufrate, attraverso la dimostrazione di forza degli eserciti imperialisti ed USA, delle bombe intelligenti, delle guerre lampo del desert storm e del phantom fury su Felluja bombardata col fosforo nel 2003 e nel 2004. Certamente fu in grado di far rifluire quella mobilitazione antiimperialista dei proletari e delle masse più povere, lasciando poi solo il guscio vuoto delle loro direzioni borghesi e piccolo borghesi cui, in assenza di tale spinta delle masse, ora mostrano solo il loro carattere borghese e antiproletario.

Ma non fu capace, nonostante tutto, a mantenere l’ordine all’interno del cartello dell’OPEC controllato da chi ancora comanda la finanza mondiale che batte la moneta del dollaro, né i tradizionali produttori ed alleati accondiscendenti con gli USA, tantomeno i non alleati Russia ed i non allineati Iran.

Al tempo stesso non poté evitare che la crisi economica e sociale scaricata nei paesi dominati determinasse le rivolte delle primavere arabe – penalizzate dall’inevitabile limite di partenza di contestazione degli aspetti esteriori del capitalismo, dove le borghesie locali taglieggiano il proletariato sotto forma di “privilegi” e “corruzione”, mentre il grosso del bottino va a chi sul mercato internazionale comanda. La rottura ed il riflusso della mobilitazione generalizzata d’area precedente agevolò infatti la guerra di Obama e la pace obamiana, dove gli sforzi della finanza e della repressione interna riuscirono a riassorbire le iniziali spinte in Tunisia, Egitto e Libano. Soprattutto l’imperialismo occidentale riuscì ad ottenere un temporaneo fragile utile vantaggio: il ripiegamento temporaneo della lotta degli sfruttati delle primavere arabe sul mero terreno locale e con un atteggiamento sostanziale di indifferenza dei giovani lavoratori di Tunisia ed Egitto di fronte alla guerra obamiana vera in Libia ed in Siria a suon di bombe scaricate dai jet e dai droni (con la completa partecipazione dell’Italia ed un composito ed iper conflittuale schieramento imperialista davvero ampio).

E tutto questo mentre il resto delle presunte borghesie arabe non allineate e conflittuali si adattavano al dominio delle necessità del mercato e dell’accumulazione mondiale, adagiandosi via via, pena loro stesse, su chine sempre più antiproletarie, magari di tanto in tanto rinverdendo all’occorrenza – ma per rimangiarsela subito dopo – le necessità di una opposizione al dominio reale dell’imperialismo occidentale.

Il risultato di questa apparente marcia verso la normalizzazione dell’ordine imperialista ha condotto le direzioni borghesi palestinesi, precedentemente espressione di necessità “rivoluzionarie democratico borghesi” e nella prospettiva di recidere le unghie imperialiste per sviluppare una propria economia capitalistica e di mercato nazionale, ad adagiarsi sempre più nell’inevitabile sottomissione alle necessità del capitalismo globale, il quale non vede più da almeno 4 decadi possibilità alcuna di una crescita allargata duratura.

L’escalation della pulizia etnica in Palestina avviene dopo lunghi anni in cui le masse sfruttate e proletarie di Gaza e della Cisgiordania sono state annichilite nella infame prospettiva dei “due popoli e due stati”. Infame perché di quale stato di West Bank, continuamente defraudato dei suoi territori dall’occupazione israeliana, possiamo parlare? A quale Stato di Gaza che è un lager a cielo aperto ci possiamo riferire, cui le forniture di acqua potabile, elettricità, beni di prima necessità e medicinale può essere interrotta dal governo di Tel Aviv con un semplice schiocco di dita?

La realtà della cause delle cose dell’attuale dramma palestinese è che l’ordine del mercato e del capitale si crepa, perché la crisi è profonda. Negli Stati Uniti d’America contro di essa un giovane proletariato senza riserve meticcio e guidato dal proletariato nero (che ha unito giovani proletari black, latini, indigeni, bianchi, ragazze e ragazzi, mamme e veterani dell’esercito, lesbiche, gay e trans dei differenti colori) ha reagito al razzismo sistemico ma soprattutto è stato determinato a farlo perché la crisi generale sempre meno gli consente di vivere come prima. Una crisi profonda che sta impattando le nuove generazioni del proletariato e che la pandemia del capitale ha poi accentuato secondo le linee di classe, del colore e del genere. Almeno 40 milioni di americani degli Stati Uniti vivono oggi tutti i giorni il problema dell’insicurezza alimentare, un terzo della popolazione è a rischio povertà, più di 500 mila famiglie vive senza una casa perché sfrattata ed altrettante vivono in abitazioni non considerate abitabili per l’uomo. E la superpotenza Yankee ha mostrato le sue crepe a fronte di una polarizzazione sociale crescente che si è manifestata anche attraverso gli udibili scricchioli all’interno del suo stato e del suo esercito.

Il capitalismo imperialista di Israele si trova all’interno di questa sfida che la crisi generale produce, portando nella scena medio orientale nuovi concorrenti, quali la Turchia e la Russia. Ma soprattutto si fa pesare all’interno della stessa struttura del capitalismo razzializzato dello Stato di Eretz Israel. In questi ultimi anni Israele si è dovuto impegnare in una difficile politica finanziaria di contenimento del debito dello Stato accumulato per sostenere la propria base produttiva dell’industria tecnologica sempre più in competizione con quella Cinese e soprattutto nell’arena mondiale della produzione agroalimentare, cui il colono israeliano è costretto a competere con le merci agricole prodotte sottocosto in India, nell’estremo oriente e nel resto dei paesi dominati ed oppressi dalla catena imperialista. Fin qui Israele è riuscito a dosare e controllare nell’ambito del compromesso sociale tra le classi e delle compatibilità del capitalismo, sfruttando opportunamente la struttura razziale della società. Israele, infatti, non è solo uno stato che opprime i palestinesi con la politica della pulizia etnica, non è solo uno Stato ove i suoi lavoratori sono a servizio della produzione del valore capitalistico, ma è una società dove anche gli stessi israeliani sono discriminati e segregati democraticamente secondo le linee della razza, del colore e della loro discendenza giudaica.

L’inevitabilità della struttura razziale del capitalismo di Israele come aspetto fondante lì e ovunque del capitalismo

È facile sussumere alle generali necessità dell’accumulazione capitalistica le classi proletarie e le mezze classi borghesi quando l’economia tira componendole gerarchicamente secondo le gerarchie basate sulla linee della razza. Ma quando essa va in difficoltà, la crisi agisce a scomporre il contesto unitario del “popolo” e lo fa appunto approfondendo la polarizzazione sociale tra chi sta più in basso nello sfruttamento capitalistico nella divisione sociale del lavoro, ed evidenziando anche come al tempo stesso il capitale esalta il suo dominio attraverso le divisioni secondo l’appartenenza di razza.

Chi ritiene Israele una società indistinta di ebrei israeliani classicamente divisa solamente tra classi borghesi e classi lavoratrici laboriose, evidentemente non ha osservato bene la realtà e la morfologia del capitalismo razziale che è comune a tutti gli Stati.

Passeggiando per turismo o per lavoro per Tel Aviv, o girando nei mercatini ebraici delle quattro città sante della tradizione giudaica, si può notare come la discendenza geografica dei cittadini di Israele conta, e conta eccome, come il popolo ebraico è al suo interno diviso secondo linee razziali. Generalmente le élite borghesi sono gli ebrei bianchi di origine aschenazita, figli dei discendenti immigrati dalla Europa centrale ed orientale e che pianificarono nei dettagli la pulizia etnica della Palestina fin dagli anni venti e trenta del XX secolo, oppure figli di quella immigrazione ebraica che dall’Europa si diresse in Nord America, in Argentina o in Australia durante tutti i primi 40 anni del XX secolo e che si trasferirono successivamente in Israele dopo il secondo conflitto mondiale negli anni ’50. Tra loro trovi i manager delle prestigiose aziende multinazionali impegnate nella produzione militare, di tecnologie digitali ed innovative o nella moderna biofarmaceutica. Generalmente si può notare come le classi medie sono costituite da ebrei discendenti, piuttosto che dai sefarditi della Spagna o dalla comunità ebraiche del mondo arabo, di coloro che fuggirono ai progrom del mondo cristiano, viceversa vissero accanto o all’interno del mondo musulmano. Qui si possono notare israeliani provenienti dalla comunità giudaiche del Nord Africa, soprattutto dal Marocco o dalla Libia, o dalla vicina terra di Babilonia o dalla più lontana Persia. Nella scala della gerarchia sociale ancora sotto vi sono gli ebrei neri del corno d’Africa ed Etiopi. Ancora più in basso vi sono poi gli ebrei “bianchi” ultimi arrivati, che vestono male, solitamente fanno lavori di basso livello, lavorano nelle ditte di pulizia, nella logistica o nei ranghi più bassi della produzione capitalistica: sono le giovani generazioni di ebrei russi della perestrojka gorbaciovana e che a mala pena sanno leggere correttamente la Torah in ebraico. Li vedi camminare sul lungo mare di Tel Aviv nel fine settimana, parlano male l’ebraico e quando stanno tra loro trovano più semplice parlare il russo.

A tutto questo mondo dell’indistinto popolo discendente dai figli di Re David e Re Salomone, il capitalismo israeliano, attraverso le spese pubbliche del suo Stato, ha sempre assicurato un lavoro garantito ed all’interno di ruoli sociali determinati secondo la loro discendenza ebraica dettata dalla geografia capitalista. Lo Stato ha costruito l’edilizia popolare per gli ebrei che vivono nelle città. Tornando in taxi dall’area tecnologica fuori Tel Aviv verso l’albergo al centro della città bianca, l’autista mi ha potuto mostrare durante il tragitto la “meraviglia” dell’edilizia popolare democratica israeliana: lì c’è il quartiere per i soli ebrei di Etiopia, là quello per gli ebrei della Libia, in un’altra zona dove vivono libici o iracheni, altrove le case ed i quartieri degli ebrei russi, a Jaffa adiacente a Tel Aviv c’è il quartiere gli arabi non ebrei dove i ricchi borghesi vanno a deliziare le prelibatezze di una antica cucina araba, libanese, musulmana, giudaica e cristiana. Insomma la democrazia di Israele ha unito tutti nella prospettiva della patria, ma la sua edilizia popolare li ha rigidamente separati in casa.

Lo Stato ed il capitalismo israeliano per anni ha dovuto in qualche modo riconoscere e tollerare la presenza degli arabi non ebrei, assimilandoli all’ebraismo sionista come cittadini arabi inferiori. In cambio di qualche briciola ed il riconoscimento a partecipare alle elezioni municipali questo insieme di non ebrei, i cosiddetti arabo israeliani, hanno dato in cambio per anni il loro silenzio assenso nei confronti dell’opera di pulizia etnica della Palestina, ricevendo in cambio, per i suoi ceti medio e piccolo borghesi, una relativa integrazione e sviluppo all’interno del mercato e del capitalismo sotto l’insegna della stella di David.

Se l’anno 2008, momento di inizio di una profonda crisi generale del capitalismo, ha dato poi seguito alle primavere arabe e poi alla balcanizzazione della Siria, l’anno 2020 è stato il momento durevole di un ulteriore precipitare della crisi generale stessa del modo di produzione capitalistico, impossibilitato a contrastare il declino storico della sua accumulazione del valore. Il 2020 è l’anno cha ha visto acuirsi questa generale crisi in conseguenza degli effetti catastrofici della continua distruzione delle forze produttive della natura. Ed il 2020 ha iniziato a bussare alle porte di Israele, mostrando la non inossidabilità delle sue fondamenta, mettendo a nudo le prime crepe che lo scuotono dal sottosuolo economico e sociale.

L’insieme dei fattori della crisi capitalistica, che hanno impresso una marcia in più del saccheggio ed il genocidio di proletari in Siria, ha innestato un regolamento di conti sul filo del rasoio tra Stati Uniti, Francia, Russia, Germania, Italia, Inghilterra (con l’osservatorio da lontano della Cina e con le attenzioni più ravvicinate da parte delle borghesie nazionali arabe dell’area e dell’Iran), che ha cominciato a vedere la scesa in campo di un pericoloso concorrente per Israele, l’altro cane da guardia degli USA, la Turchia. La Turchia che vuole giocare un ruolo in proprio nella contesa in Siria, sugli scenari libanesi e libici non fa dormire sogni tranquilli alla finanza israeliana. Troppo a lungo Israele ha rispettato i tempi e le modalità suggeriti dagli USA, da cui ricevono il sostegno assoluto ma che ritardano i suoi piani. Israele non se lo può più permettere, i quattro anni di attesa diventano troppi, ed ogni ritardo avvantaggia sempre più i suoi concorrenti diretti per il controllo del mercato dei capitali, delle merci e delle materie prime dell’area.

Con la pandemia e nel 2020, di colpo il capitalismo israeliano ha bruciato ed azzerato anni in cui ha cercato di riassorbire e ridurre il deficit pubblico dello Stato, quel deficit pubblico che in gran parte è stato utilizzato per mantenere redditive e remunerative le aziende agricole capitaliste dei coloni ebraici, che è servito a mantenere coesa, nella sua separatezza, l’affastellata società di classe e razzializzata israeliana. La disoccupazione ha raggiunto il 21% della popolazione a fine 2020, che significa un milione su una popolazione di 9 milioni di abitanti. E con la fine del lockdown ed il completamento della vaccinazione di massa capitalistica, l’impressione è che una gran parte dei posti di lavoro persi nel 2020 siano definitivamente scomparsi a causa dei molteplici fallimenti delle piccole intraprese.

Certamente l’escalation della pulizia etnica della Palestina è un buon antidoto alla graduale erosione della compattezza dell’indistinto popolo ebraico, per mantenere in piedi un compromesso tra le classi basato sul razzismo contro i palestinesi.

Ma alla base di questo c’è la dinamica di una crisi generale che può minare la coesione di tutte le classi sociali a sostegno della guerra e della continua aggressione economica di Israele in tutto il Medio Oriente.

In un paese che conta poco più di 9 milioni di abitanti, di cui il 20% è composto da arabi, palestinesi non di religione ebraica, 500 mila esercizi commerciali e piccole imprese dei servizi sono falliti durante lo scorso anno. La contraddizione che viene allo scoperto è evidente: Israele, perennemente attivo nel suo ruolo imperialista a controllo dell’area del mondo arabo, deve proteggere le condizioni del suo popolo sussunto alla necessità del capitale di vivere in un clima di guerra perenne. Per fare questo deve applicare un durissimo lockdown totale per molti mesi, la cui conseguenza inevitabile è stata il precipitare degli strati sociali della piccola borghesia israeliana dedita al commercio ed ai servizi sul lastrico, ed insieme a loro anche per ampi settori di proletari occupati, semi occupati o sotto occupati che da quella catena della riproduzione del valore dipendono. Primi fra tutti, ovviamente secondo la linea della razza, sono stati colpiti dagli effetti della crisi gli arabo israeliani, i non ebrei che Israele per anni ha tentato di assimilare alle necessità della funzione di controllo imperialista e di pulizia etnica della Palestina. Come in Italia, il governo Netanyahu avrà varato i suoi decreti sostegni, che sicuramente avranno premiato prima chi è ebreo ed è inserito nei settori strategici dell’economia, lasciando fallire tutti gli altri, lasciato indietro i giovani proletari israeliani e soprattutto i non ebrei arabi e palestinesi in generale.

Durante le proteste contro il governo coinvolto negli scandali e nella corruzione nell’affare ThyssenKrupp (affare concluso per la modica cifra di circa 2 miliardi di dollari in cambio di tre sottomarini che possono equipaggiare testate nucleari), l’immagine del sottomarino in gomma trasportato durante le manifestazioni è la rappresentazione simbolica di una contraddizione profonda difficilmente governabile, se non con mezzi eccezionali.

È questo quadro di profonde contraddizioni economiche e sociali determinate dalla crisi generale del sistema capitalistico la causa delle cose, dell’escalation della pulizia etnica della Palestina.

La pulizia etnica palestinese a Gerusalemme

Quando la polizia e l’esercito di Israele dà il via allo sfratto delle famiglie palestinesi nel quartiere di Shaikh Jarrah, lo stato della mobilitazione dei proletari e sfruttati palestinesi a Gaza e a West Bank era drammatico.

Le leadership borghesi della Autorità Nazionale Palestinese che rappresentano gli interessi dell’imprenditoria capitalistica palestinese era già ridotta da molto tempo ad una contrattazione supina con Israele dei suoi ridottissimi margini territoriali in Cisgiordania, dove come abbiamo visto Israele è intenzionato a procedere verso la totale annessione. L’azione delle masse povere palestinesi della Cisgiordania sembrava essere caratterizzata da una mera resistenza passiva di fronte all’inevitabilità degli eventi. Mentre l’ANP da anni si è definitivamente avviata sull’unica via possibile che la borghesia palestinese, pena se stessa concepire, che è quella della contrattazione diplomatica dei margini sempre più ridotti per il capitale nazionale palestinese. E la borghesia che fa riferimento ai sui interessi in Cisgiordania, da inconseguente e bancarottiera, oramai veste i panni di quella collaborazionista con la polizia Israeliana, che provvede ad isolare, ad arrestare i giovani palestinesi che sono su posizioni più oltranziste o che occhieggiano ad Hamas.

Nel lager a cielo aperto della Gaza palestinese, viceversa, non è che le cose stessero andando meglio per gli sfruttati e proletari palestinesi. Dietro l’apparente estremismo di Hamas si celano nella sostanza le stesse necessità capitalistiche borghesi. Ogni giorno migliaia di ragazze e ragazzi proletari palestinesi devono attraversare il confine ed il muro eretto da Israele intorno a Gaza, superare i controlli militari e spesso, privi di un permesso, devono oltrepassarlo illegalmente per andare a lavorare nelle città vicine israeliane. Molti di questi giovani sono minorenni che vanno a lavorare come garzoni o sguatteri negli esercizi commerciali e nelle piccole botteghe oltre confine di arabo palestinesi o di cittadini ebrei. Chi va a lavorare a giornata come fabbro, maniscalco, falegname o muratore. Molti lavorano nei cantieri edili dove vengono costruite le case dei nuovi coloni ebrei e sionisti sopra le macerie di quelle palestinesi abbattute. Quotidianamente durante l’attraversamento legale o non legale scoppiano motivi di conflitto con le guardie israeliane, molto spesso ci scappa il ferito e talvolta il morto tra i palestinesi. Il governo e la polizia di Hamas durante questi ricorrenti avvenimenti cerca di evitare che dal conflitto casuale possa scoppiare la scintilla della rivolta contro il muro.

In sostanza quando si avvia l’operazione di pulizia etnica a Shaikh Jarrah e nei quartieri arabi e di fronte alla spianata della moschea scoppiano le proteste generalizzate dei palestinesi di Gerusalemme, la mobilitazione e la capacità di lotta degli sfruttati e proletari nei territori occupati palestinesi, a West Bank e a Gaza è ridotta ai minimi termini. La ribellione immediata e spontanea dei palestinesi di Gerusalemme è di fatto isolata dal resto del popolo presente nei territori storici della terra di Palestina.

Il copione cui stavamo assistendo, con i proletari e sfruttati palestinesi a Gaza e a West Bank imbavagliati dal pugno militare dell’oppressione imperialista e dall’operazione antiproletaria della borghesia palestinese, appariva davvero drammatico.

Lo Stato di Israele compatto con tutta la sua forza militare di occupazione di terra e cielo avvia una guerra contro il sotto stato lager palestinese di Gaza. Il sotto stato borghese e lager di Gaza risponde sul piano militare con i missili di Hamas. Uno scontro – tutto su un piano declinato borghese ed antiproletario – tra la “nazione” ultra oppressa di Gaza che allinea il suo proletariato al riparo (si fa per dire) dietro al suo esercito e fiducioso dell’efficacia delle batterie missilistiche di Hamas, e lo Stato imperialista di Israele con la sua incredibile forza di fuoco ed il sostegno incondizionato delle cancellerie imperialiste di Occidente.

Il blog Noi non abbiamo patria intende essere chiaro ed esplicito: il piano di difesa borghese di Hamas è antiproletario non perché i suoi razzi colpiscono anche dei civili e nel caso anche dei lavoratori Israeliani incolpevoli. A scanso di equivoci, i feriti e morti civili causati dalla contro reazione di Hamas sono tutti imputabili all’oppressione imperialista di Israele della Palestina e del proletariato israeliano stesso ancora incapace di sottrarsi decisamente dall’abbraccio con i destini del suo capitalismo e con il suo Stato sionista oppressore. Di fronte alla pulizia etnica della Palestina nel silenzio dei lavoratori israeliani vi è purtroppo complicità, e nell’isolamento della lotta delle masse sfruttate le possibilità che un messaggio “internazionalista” emerga dal campo proletario palestinese falcidiato dalle bombe e che sopravvive tra le macerie di Gaza è una pura idealità opportunista di tanta sinistra cosiddetta rivoluzionaria.

Il carattere antiproletario della reazione di Hamas è tutto nella tattica militare intrapresa, che è ovviamente una precisa tattica politica rispondente agli interessi di classe di tutte le borghesie arabe e dei concorrenti di Israele nell’area: privare alle masse proletarie e sfruttate palestinesi la loro azione diretta, la loro necessaria autoattività e presa in mano della lotta contro l’aggressione imperialista, silenziandole ed affidandole mani e piedi alla coda del sotto stato borghese di Gaza, impegnandola passivamente in un scontro impari tra “Stati”. Non vi è rifugio antiaereo dove possano trovare ripari i proletari, le masse povere, le donne ed i bambini di Gaza. Per ogni 1000 razzi di Hamas solo uno segna il colpo, mentre per ogni missile israeliano è uno strike sicuro, morti sicure, case incendiate e con l’acqua corrente già tagliata a monte ed oltre confine dalle forze militari dell’IDF.

Il preludio di un genocidio palestinese da parte dell’imperialismo e di Israele ed un ulteriore passaggio repressivo della capacità di reazione e lotta degli sfruttati dell’intera area sembrava a quel punto essere l’esito immediato scontato.

La crisi generale del capitale e l’inedita rivolta del proletariato che esso determina

Ad una attenta analisi marxista quanto accade improvvisamente dopo non sorprende, ma è sorprendente. La capacità dell’imperialismo di governare la storica crisi del capitale è sempre più limitata. Ad ogni tentativo di riordinare il banco, dalla crosta terrestre emergono profonde contraddizioni che la crisi generale dell’accumulazione capitalistica stessa sta suscitando.

Di fronte alle mobilitazioni dei palestinesi a Gerusalemme Est, divampa improvvisa la rivolta dei giovani proletari arabo israeliani (cittadini israeliani di serie c) all’interno delle città dello Stato di Eretz Israel.  Dopo ’70 di accettazione della loro assimilazione in funzione delle necessità di Israele, la contraddizione latente con i proletari israeliani non ebrei salta fuori improvvisa.

La città di al-Lud (Lydda o Lod secondo il nome ebraico), che dista pochi chilometri dall’aeroporto internazionale Ben Gurion, è attraversata da una vera rivolta di massa. Sono giovani proletari, occupati o sotto occupati, ridotti ai margini dalla crisi economica. La rivolta si estende anche ad altre città: Hebron, Ramla, Betlemme, Haifa. Mentre squadre di giovani nazionalisti ebraici danno la caccia agli arabi nella città contigua a Tel Aviv di Jaffa, tentando il linciaggio di chiunque ha il muso arabo. La reazione sciovinista più violenta contro gli arabi avviene a Bat Yam, dove un tassista arabo viene quasi linciato, preso a calci da ronde e da squadracce di nazionalisti israeliani, mentre le polizia osserva da lontano e di fatto li lascia portare il terrore tra gli arabi.

Il coraggio dei proletari arabo-israeliani-palestinesi  è notevole, pari alla loro impossibilità a poter vivere come prima: vengono dati alle fiamme commissariati di polizia, auto e blindati della polizia, centri commerciali e piccoli esercizi commerciali, vandalizzate alcune sinagoghe.

Le masse proletarie palestinesi, occupate, sotto occupate o disoccupate, di cui molti trovano la fatica all’interno del cosiddetto settore dei servizi e della catena del mercato finanziario-commerciale, della distribuzione delle merci (magazzini, supermercati, ma anche tanti piccoli esercizi commerciali), o come semplici garzoni e sguatteri per il piccolo o medio commerciante israeliano o quello arabo-israeliano sono stati i protagonisti delle rivolte.

Si è assistito ad una dinamica del tipo “fai la cosa giusta” di Spike Lee, ma più realisticamente è accaduto qualcosa di molto simile a ciò che si è visto nelle rivolte del 2020 dei neri e giovani proletari neri e “meticci” durante la rivolta nel nome di George Floyd negli USA.

Al-Lud, Haifa, Hebron, Ramla, Nablus e Gerusalemme sono apparse molto simili a Minneapolis, Portland, Seattle, Chicago, Rochester NY, Washington DC.

L’effetto della autoattività spontanea di questo settore del proletariato ha rotto improvvisamente gli schemi capitalistici della guerra tra Stato oppressore e sotto Stato aggredito. Ha rappresentato l’elemento nuovo pieno di potenzialità incendiaria per la lotta delle masse proletarie e sfruttate non solo nei territori occupati palestinesi, ma potenzialmente per l’intera area medio orientale. Le iniziali piccole mobilitazioni dei palestinesi ad Amman, ben controllate dal governo locale, nei pressi delle rappresentanze diplomatiche di USA e Israele si sono trasformate in una pressione umana e proletaria sul confine lungo la valle del fiume Giordano. La stessa cosa è accaduta ai confini con il Libano ed il sud della Siria. Per ripetuti giorni i palestinesi figli della Nakba e scacciati dalla Palestina hanno premuto sulle linee di confine di Israele. Un improvviso accerchiamento che stavolta non è ad opera delle incoerenti borghesie arabe e dei loro traballanti eserciti nazionali, ma da parte delle masse degli sfruttati che a questo svolto della storia le sorprendono.

L’effetto è profondo quanto la causa materiale che sta determinando questa inedita rivolta. Mentre continua lo scambio impari tra missili e razzi, Netanyahu dichiara lo stato di emergenza perché la situazione a Lydda è fuori controllo.

Non si usano solo le pietre, le molly vengono lanciate contro le auto ed i posti di blocco della polizia a Gerusalemme Est ed in altre città di Israele.

Mentre una giornalista televisiva insisteva con le domande circa la situazione della guerra al confine di Gaza e con Hamas, il portavoce generale dell’IDF rispondeva che l’esercito non ha alcun problema e difficoltà a confrontarsi e contenere le forze militari di Hamas (e questo anche i bambini lo capiscono), viceversa che la situazione interna nella città israeliane ed al confine “è davvero seria e più complicata”.

Fin dai tempi della omicida organizzazione sionista della Haganà degli anni venti, e degli squadroni della morte paramilitari della Irgun degli anni ’30, le organizzazioni e le forze sioniste non hanno mai nascosto i loro piani di pulizia etnica della Palestina. Pochi giorni fa il portavoce dell’IDF, il Generale Hidai Zilberman, ha dichiarato alla TV israeliana KAN-11 che “Noi dovremo attaccare anche i non combattenti… Noi dovremo tentare di procurare più danno possibile ai non combattenti, ma questo è il costo per proteggere noi stessi”. Come a dire che gli sforzi dell’esercito saranno per stroncare le rivolte proletarie all’interno di Israele costi quel che costi. È del proletariato che lo Stato di Israele ha timore.

Questo fattore inedito delle rivolte dentro e lungo i confini di Israele guidate da un giovane proletariato arabo senza riserve ha scomposto l’intero quadro dei rapporti capitalistici che fino a quel momento stavano riaccendendo il conflitto cosiddetto israelo-palestinese secondo linee compatibili al mercato internazionale e all’imperialismo.

L’indistinto popolo palestinese, sussunto nel cappio strangolatorio della contrattazione con Israele di miseri spazi commerciali, nazionali e di mercato per i bantustan statuali all’esterno, ma anche da parte dei ceti medi arabo israeliani cresciuti nella dinamica capitalistica del mercato di Israele all’interno, è stato di fatto scomposto dalla autoattività proletaria.

I proletari, i muratori, i garzoni, gli sguatteri che lavorano per i piccoli imprenditori arabi hanno determinato la chiamata ad uno sciopero generale il 18 su tutto il territorio della Palestina storica, il primo dopo quello del 1936. Si è preteso che i settori della piccola borghesia arabo israeliana si unissero alla rivolta serrando i loro negozi, disertando e chiudendo i mercatini arabi nelle città israeliane e su tutto il territorio dell’antica Palestina. Le tradizionali direzioni borghesi arabo israeliane e quelle palestinesi di Gaza e Cisgiordania, dell’ANP e di Hamas hanno tentennato a lungo e poi alla fine hanno appoggiato la richiesta spontanea dello sciopero generale, il cui appello diffuso non è firmato da alcuna sigla di organizzazione politica o sindacale.

Lo sciopero è stato il prodotto combinato della spinta spontanea di questi proletari che scompone le classi medie e la piccola borghesia araba in Israele, così come lo fa nei riguardi delle direzioni borghesi palestinesi in Cisgiordania, a Gaza e ad Amman.

Il garzone proletario arabo impone al piccolo o medio commerciante arabo di chiudere il proprio negozio, di serrare completamente i tradizionali mercati arabi. Così come vengono disertate le prestazioni di lavoro nelle ditte di pulizia, nei magazzini, nei cantieri edili e negli stessi piccoli esercizi commerciali degli israeliani tout court.

Di fronte a questa inattesa sorpresa la borghesia ha tentennato e poi a suo modo è corsa ai ripari, lavorando affinché lo sciopero potesse diventare un momento di ricomposizione della lotta nuovamente negli ambiti più confortevoli e compatibili alle necessità capitalistiche di contrattazione degli interessi del capitalismo e della borghesia palestinese con quello di Israele.

Le due principali forza politiche dei partiti arabo israeliani, che partecipano alle elezioni municipali in Israele, si sono atteggiate differentemente: il partito della Lista Araba (Ra’Am) ha inizialmente criticato lo sciopero in quanto non fosse stato prima condiviso e concordato con loro; il partito del Movimento Islamico alla fine lo ha appoggiato.

L’ANP ed Hamas alla fine hanno invitato i lavoratori pubblici impiegati nelle rispettive amministrazioni sotto-statali (infermieri, impiegati, insegnanti, piccoli commercianti) ad astenersi dal lavoro a sostegno dello sciopero. A West Bank, la polizia e le forze di sicurezza della Autorità Palestinese hanno consentito ai giovani palestinesi di rinnovare la lotta contro l’occupazione israeliana sfidandola sul campo, ma senza offrire loro alcun servizio d’ordine a protezione dai colpi sparati dalle truppe israeliane. Qui vi sono stati infatti gli scontri con le forze militare di occupazione più duri ed almeno un paio di morti tra i palestinesi.

In alcune città d’Israele ci sono state manifestazioni “pacifiche” di massa, in altre duri scontri con la polizia israeliana. Le immagini dei mercati arabi rionali completamente chiusi, la continuità di serrande abbassate e le vedute aeree della città di Hebron e delle sue arterie principale prive completamente di qualsiasi tipo di traffico cittadino, danno l’evidenza della grande partecipazione alla giornata di sciopero, ma anche il tentativo di ricomporre il proletariato senza riserve all’interno di un indistinto popolo palestinese.

I frutti importanti di questa iniziale ripresa della autoattività delle masse proletarie si sono viste anche all’interno della scomposizione dell’estrema sinistra israeliana. Così come ha fatto emergere la totale inconsistenza di tutte le cosiddette tendenze comuniste internazionaliste del vecchio ciclo del ’900, incapaci di uscire dalla comfort zone capitalistica.

Il Maki (partito comunista israeliano), e la coalizione di estrema sinistra Hardash (cui il Maki aderisce) in questi anni non si sono mai tirati indietro nel difendere esplicitamente il diritto all’autodifesa dei palestinesi (incluse la azioni di Hamas) di fronte alle aggressioni dello Stato di Israele. Anche davanti all’attuale conflitto sul piano militare, questi partiti hanno ribadito che “ad oltrepassare la linea rossa è stato Israele”. Di fronte ai linciaggi di arabi da parte dei sionisti a Bat Yam, hanno opportunisticamente contrapposto le “mobilitazioni pacifiche” (è un tratto comune di tutte le formazioni politiche opportuniste e che stanno alla coda del capitalismo fare l’elogio del proletario inerme e disarmato di fronte alla violenza dello Stato). Ma riguardo ai riots dei giovani proletari arabo-israeliani hanno applicato un complice atteggiamento di condanna e di equidistanza tra lo squadrismo sionista borghese e le rivolte proletarie ad al-Lud, Ramla, Hebron, Gerusalemme, ecc. condannando senza alcun indugio gli attacchi alle proprietà private degli ebrei ed alle sinagoghe, invitando le leadership palestinesi a prenderne le distanze e ad isolarle, perché esse sono solo una espressione reazionaria di uno “scontro etnico su base religiosa” al pari dello squadrismo sionista.

L’attaccamento alla mammella capitalista ed alle necessità del mercato capitalista mondiale di opprimere i palestinesi e gli sfruttati e proletari arabi è – si fa per dire – duro a morire anche nella estrema sinistra israeliana, ma la cosa non sorprende questo blog.

E non sorprende che lo stesso tipo di attaccamento sotto forma indifferentista o sotto forma sotto riformista agita buona parte della sinistra cosiddetta rivoluzionaria, in quanto sono tutte espressioni dell’accodamento nazionalista al proprio capitale, cui il movimento operaio storico del ’900 è stato sprofondato da decadi di vacche grasse capitaliste ed imperialiste. Per queste “soggettività comuniste” ed “internazionaliste”, abituate alla comfort zone del mercato capitalistico ed alla conflittualità relativa, vedere il nuovo mostro proletario che avanza è davvero impossibile e fa tremare.

Ora questi signori dell’ultra sinistra, che inorridiscono alle immagini delle sinagoghe vandalizzate dovrebbero spiegarci se questi luoghi sono o non sono parte dello stato ebraizzato dal sionismo, se sono essi stessi elementi della sovrastruttura capitalistica che opprime il proletariato arabo e palestinese (nonché quello ebraico), per cui il cosiddetto “nazionalismo” delle masse sfruttate proletarie ed oppresse ha tutta la legittimità di assaltarli?

Il blog Noi non abbiamo patria ritiene gli attacchi dei proleteri arabo-israeliani alle sinagoghe ed alle proprietà dei commercianti ebrei parte integrante e legittima della autoattività del proletariato arabo israeliano che si ribella all’oppressione di Israele ed in quanto tale va sostenuta.

Per chi a sinistra si attarda su posizioni di principio circa l’unità del proletariato internazionale ma senza guardare ai fatti reali dello scontro, per cui attaccare i cosiddetti luoghi santi degli ebrei sarebbe quanto meno “sbagliato”, o tra questi compagni vi è una “inconscia” sottomissione al fronte dell’imperialismo democratico che sconfisse la Germania durante la seconda guerra mondiale, un rigurgito di un secondo internazionalismo di fine 1800 buono solo per i tempi di pace o una totale imbecillità politica.

Dietro certe ideologie, infatti, c’è sempre il riflesso della forza materiale delle ferree leggi impersonali del modo di produzione capitalistico – ma su questo prego il lettore di avere pazienza rimandando l’approfondimento più avanti in questo articolo circa la reale oppressione storica del popolo ebraico, la questione ebraica irrisolta nel quadro del capitalismo.

Altre formazioni, alla coda delle necessità del mercato mondiale di rapinare l’oro nero, esprimono posizioni che sono alla coda delle compatibilità capitalistiche che hanno solcato ed imposto come unica soluzione possibile l’infamia, la prigione degli sfruttati palestinesi, che il “due popoli e due stati” rappresenta. Come scrisse Michele Castaldo alcuni anni fa, e che in questi giorni ripropone sul suo blog, le cause all’origine dello Stato di Israele sono di carattere finanziario e militare, chi insiste nel ciurlare nel manico su questa prospettiva, quando l’attuale crisi generale neanche più i bantustan statuali può concedere ai palestinesi, di fatto propaganda l’orizzonte di un libero bantustan in libero mercato capitalistico.

Di fronte alla inedita rivolta in terra di Israele c’è poi chi, per carità, nel nome dell’unità internazionale del proletariato, rivendica un unico stato democratico e laico che unisca ebrei e palestinesi, soprattutto lavoratori ebrei ed arabi, dimenticando e chiudendo gli occhi, causa la lunga forza che sua maestà il capitale esercita sull’opportunismo in buona fede, che se la società israeliana è divisa secondo le linee della razza al suo interno, nel mentre applica la pulizia etnica su arabi e palestinesi, la prospettiva del libero e laico stato democratico è pari alla borghesissima indicazione che Bruno Bauer nel 1843 diede per la soluzione della questione e della oppressione del popolo ebraico: libero ebreo in libero stato capitalista tedesco, di cui poi sappiamo come drammaticamente quale fu la fine riservata al popolo ebraico nello stato nazional popolare capitalista del nazismo hitleriano. Contro queste posizioni e varianti “sinistre” suggerisco di leggere la condivisibile presa di posizione del circolo internazionalista “coalizione operaia”.

Al di là delle chiacchiere da internazionalismo da salotto, un altro tipo di inedito internazionalismo si sta agitando nelle piazze di mezzo mondo, e cosa inedita e sensazionale, nelle piazze delle città degli Stati Uniti d’America. Se lo sciopero di pochi giorni fa ripropone più avanti la nascita e la prima vera ondata di rivolta anti imperialista sotto la dominazione britannica e sionista del 1936-1938, le manifestazioni di oggi ripropongono su braccia e gambe di giovani proletari senza riserve qualcosa di più profondo ed avanzato rispetto alle lotte degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso contro l’aggressione imperialista al popolo del Vietnam.

Le piazze per la Palestina di mezzo mondo

A centinaia di migliaia in tutto il mondo abbiamo assistito a grandissime manifestazioni di condanna di Israele e a sostegno della Palestina. A Chicago, Los Angeles, San Francisco, New York City, Denver, Washington D.C, Boston. un fiume di giovani arabi, asiatici, neri, latini e bianchi hanno caratterizzato queste manifestazioni. Si sono ripetute a Glasgow, Montreal, Toronto, Londra, Manchester, in Australia e Nuova Zelanda. A Parigi la protesta per la Palestina ha violato i divieti dalle polizia. In molte città d’Italia abbia assistito a manifestazioni, in particolare a Bologna, animata da giovanissimi ragazze e ragazzi figli di lavoratori immigrati della logistica.

La mobilitazione ha riguardato l’America Latina, a Santiago in Cile e Buenos Aires in Argentina. In Medio Oriente a Beirut, ad Amman e non all’insegna della “pressione diplomatica” e a Rabat. Nel subcontinente indiano a Karachi e Dhakka, fino a Jakarta. Poi ancora in Europa a Berlino, Brussels, L’Aia e Madrid. A Theran, Bagdad, Sanaa in Yemen e ad Instabul. In Nord Africa da Tunisi, a Casablanca fino al cuore dell’Africa nera a Nairobi ed in Sud Africa (a Pretoria, Durban e Cape Town). Sulle sponde del mar Egeo ad Atene. Tutte in risposta alla chiamata oggettiva da al-Lud, Ramla, Nabuls, Haifa, Hebron e Betlemme.

Ed all’interno di queste mobilitazioni internazionali a sostegno della Palestina si è inserita una nuova solidarietà operaia dei lavoratori dei porti, che da Genova, Livorno, Napoli e Durban lanciano il segnale del boicottaggio del lavoro di carico e scarico delle merci verso o da Israele.

Sono stati gridati nelle piazze slogan e parole d’ordine impensabili fino a pochi anni fa, quello contro la “pulizia etnica della Palestina”, fatto storico che la storiografia imperialista e sionista ha sepolto sotto la coltre del negazionista talmente profondo, che solo affermandolo 5 anni avrebbe suscitato la condanna per antisemitismo nei confronti di chi sostiene che lo Stato di Israele è sorto attraverso la pulizia etnica delle popolazioni arabe locali.

Sempre nelle piazze di queste ultime settimane – soprattutto negli Stati Uniti d’America – e di mezzo mondo è riemerso un antico slogan della lotta di liberazione del popolo palestinese: “from the river to the see, the Palestine will be free” (dal fiume al mare la Palestina sarà liberata), anche esso tacciato per il suo presunto carattere antisemita perché richiama l’anacronistica rivendicazione della “distruzione dello Stato di Israele”.

Seppure anacronistica, perché un reset dello Stato di Israele è ormai impossibile mantenendo intatto il quadro capitalistico, perché esso non è più il “bubbone” violento del colonialismo occidentale in Palestine ma ha sviluppato le moderne relazioni capitalistiche che ne legittima l’esistenza storica in quanto Stato capitalista, questo slogan, che riafferma la necessità di una unica terra di Palestina ai palestinesi e di chi vi risiede, esprime nel sottofondo che l’ordine imperialista basato sul solco dei “due popoli e due Stati” può vacillare e non viene al momento considerato dalle nuove generazioni di proletari che si mobilitano a fianco della lotta dei proletari e degli sfruttati palestinesi. Quella che fino a poco tempo fa era considerata da tutti – da sinistra a destra – l’unica soluzione possibile della “questione nazionale palestinese”, al momento viene rigettata dalle nuove generazioni solidali con la lotta dei palestinesi sfruttati ed espropriati.

L’uso di queste parole d’ordine spontaneo nelle piazze, da parte di giovani a digiuno di ideologie (parole d’ordine e prospettive che il vecchio movimento di liberazione palestinese dell’OLP aveva ormai abbandonato da decenni – proprio perché impossibile nell’ambito del quadro del capitalismo internazionale), è il riflesso di un movimento di lotta che appare già ora internazionale, che a tentoni prova ad uscire al di fuori del quadro delle compatibilità dell’ordine imperialista e del mercato mondiale.

Sappiamo che è un balbettio, un vagito di un nuovo internazionalismo proletario, ma finalmente non più basato sull’autoriconoscimento sulla base dei comuni principi, dei comuni programmi e delle comune prospettive di lotta e di “orizzonti socialisti” del XX secolo. Non è un sostegno “internazionalista” annacquato dalla ideologia, (perché eravamo con il Vietnam perché aspirava ad un socialismo popolare dei contadini delle campagne, come noi negli anni ’60 e ’70 aspiravano come movimento operaio ad un orizzonte di “socialismo nazionale”).

I giovani anche essi proletari, occupati, sotto occupati e precari multi razziali che hanno sfilato a centinaia di migliaia negli Stati Uniti d’America e nelle piazze di mezzo mondo, si autoriconoscono con i palestinesi di al-Lud e Gerusalemme non per una comune visione del mondo, ma per la materialità delle proprie condizioni di vita simili, per gli atteggiamenti simili assunti contro lo Stato oppressore: il giovane proletario nero che assalta e brucia il terzo distretto di Minneapolis si riconosce nel giovane palestinese e nel giovane sfruttato arabo che brucia il commissariato di polizia di al-Lud, e viceversa.

Questo proscenio della lotta e della autoattività proletaria in Palestina e questa ondata di nuovo internazionalismo proletario, già oggi si deve confrontare con le difficoltà ed un suo temporaneo ripiegamento è possibile.

Le rivolte nelle città israeliane e la chiamata allo sciopero generale riuscito, stanno producendo tentativi di ricomposizione all’interno della scia compatibile con il quadro capitalistico internazionale e confortevole per le borghesie palestinesi e arabe tutte. Il temporaneo cessate il fuoco proposto dalla comunità internazionale degli Stati imperialisti e soprattutto dagli USA, sarà utilizzato per riassorbire e riorientare queste prime fiammate proletarie. Sarà anche utile a favorire a recuperare credito agli occhi dei proletari scesi in piazza nel resto del mondo che cominciano a guardare dalla Colombia alla Palestina, dagli Stati Uniti all’Indonesia una unica catena capitalistica di oppressione.

Ma quanto potrà durare la fragile pace capitalista che si vuole ripristinare attraverso il “cessate il fuoco”? Essa si basa già oggi su fondamenta fragilissi ed il tentativo di allineare il proletariato di tutta l’area dietro al carro del proprio capitale in una contesa generale sull’osso mediorientale (un fronte del tutto imperialista Russo-Turco-Cinese e forse Tedesco con il suo codazzo di forze regionali in contrapposizione al gangster numero uno dell’imperialismo occidentale USA ed atlantico) è una variabile cui il corso della crisi generale del capitale prepara, ma nel farlo prepara al tempo stesso e continuamente la contraddizione generale che gli si ritorce contro.

La vicenda ThyssenKrupp e lo scandalo delle tangenti di Israele ha infatti un significato ben preciso. Vogliamo pensare che a Israele servano navi da guerra e sottomarini nucleari per spezzare la resistenza di Hamas a Gaza? Oppure questi servono per controllare il mar Mediterraneo, che la globalizzazione del mercato delle merci e del modello di produzione just in time e del trasporto veloce dei semilavorati dall’asia cinese all’Europa ha rimesso al centro del mercato mondiale al pari delle rotte atlantiche e del pacifico? L’incidente economico della evengreen bloccata nel canale di Suez non ha dimostrato forse che chi controlla il suo sbocco sulle coste dell’Egitto controlla un anello fondamentale della catena della produzione mondiale del valore? O forse i sottomarini servono per fronteggiare l’ex Stato collaboratore Turco, anche esso cane da guardia degli interessi USA nella regione, che si sta allargando pericolosamente nella regione medio orientale e nord africana? Eppure, nel solco di questa preparazione bellica, l’unità sciovinista all’insegna delle necessità del capitalismo israeliano ha cominciato a scricchiolare e le manifestazioni contro la corruzione del governo Netanyahu assumono in piccolo gli stessi connotati di quelle contro la corruzione del governo egiziano e della Tunisia all’epoca delle primavere arabe del 2011 e 2012.

Ma ancora più importante è che la caratteristica razziale al suo interno del capitalismo israeliano emerge come fattore determinato dalla crisi più generale.

Sono diversi anni che le comunità ebraiche in Israele etiopi scendono in piazza, si scontrano con le forze dell’ordine per denunciare l’impalcatura razzista società israeliana (vedi qui, qui, e qui).

Così come ha dato vita alle proteste contro il governo Netanyahu e la rottura del silenzio assenso delle comunità arabo israeliane e del suo proletariato. Sarà la crisi del capitalismo nel tentativo di trovare soluzioni impossibili che toglierà la terra sotto i piedi alla solidità sciovinista, nazionalista e borghese, ed incrinerà nei proletari ebrei russi, meglio trattati degli arabi e dei palestinesi, ma peggio di tutti gli altri, il loro suprematismo bianco ebraico che opprime loro stessi.

La questione dell’oppressione ebraica o la questione nazionale ebraica?

Questa è una domanda cui non si può sfuggire: c’è da chiarirsi se trattasi di definizioni complementari, di due sinonimi, oppure se la seconda è il prodotto della conquista imperialista del Medio Oriente, in cui la questione reale e storica dell’oppressione degli ebrei non abbia alcuna causa diretta.

Il processo di formazione storica del capitalismo in Europa, del suo mercato, la formazione dei moderni Stati borghesi nazionali e poi la conquista del mercato mondiale (delle colonie) da parte delle potenze imperialiste delineano che non si tratta di due sinonimi. Essa nega che la causa dell’origine dello Stato di Israele sia determinata dalla reale questione storica dell’oppressione degli ebrei all’interno degli Stati nazionali in formazione, fin da tempi antichi e soprattutto con l’avvento dei rapporti mercantili capitalistici nelle moderne nazioni borghesi europee, perché essa mai suscitò nel popolo ebreo un sentimento risorgimentale di fronte all’oppressione subita.

C’è da confermare che l’oppressione storica del popolo ebraico in Europa e nella Terra del Tempio ad opera della violenza della cristianizzazione data da lunghissimi secoli, mentre nella penisola iberica, conquistata dal mondo arabo e musulmano, gli ebrei sefarditi (Sephard è il nome ebraico per la Spagna) godettero di relativa tolleranza. È dal periodo che va da dopo la conquista islamica della penisola iberica del 711-718 e poi il periodo del regno di Abd al-Rahman III a partire dal 902, fino alla fine del califfato di Cordova del 1033, che anche gli storici ebraici definiscono come l’epoca d’oro “della cultura ebraica in Spagna”. In quel tempo la penisola iberica governata dal mondo islamico godeva della più moderna agricoltura d’Europa, una fiorente attività mercantile imprenditoriale e commerciale e che batteva “moneta locale” indice anche di una primordiale attività finanziaria. All’interno di questo contesto, seppure era “riconosciuto” agli ebrei il diritto di mantenere il proprio culto e la propria rete di cultura ed economia specifica, non gli era formalmente concesso ascendere alle cariche pubbliche all’interno della struttura statale del Califfato. Il Califfato di Cordova crollò sulla spinta di una guerra civile e sociale interna, che sfociò anche in una improvvisa persecuzione ed eccidio degli ebrei, la cui datazione storica la indica con il massacro di Granada del 1066, quando una folla di musulmani assaltò il palazzo reale di Granada, catturò un notabile visir ebreo Joseph ibn Naghrela, al servizio del sultanato musulmano regnante al-Andalus, e lo crocefisse sulla pubblica piazza. Da lì ne seguì un eccidio di famiglie ebree ad opera della popolazione musulmana in rivolta. Lo storico inglese Bernard Lewis di origine ebraica scrisse che il massacro fu probabilmente attribuibile “…ad una reazione della popolazione musulmana contro un potente visir, che ostentava la sua appartenenza ebraica”. Con la cristianizzazione della Spagna gli ebrei di Sephard vennero trattati duramente e repressi alla stessa stregua che le nazioni cristiane del resto dell’Europa riservavano alle minoranze aschenazite ebraiche fino agli anni dello sviluppo allargato dell’accumulazione capitalistica in Europa e la nascita dei moderni Stati borghesi e dello sviluppo delle trame mercantili nazionali capitalistiche del XVIII e e XIX secolo e su tutto il finire del 1800 ed inizio 1900 durante l’ascesa della fase imperialista del capitalismo.

Dunque lunghi secoli di oppressione del popolo sefardita e di quello aschenazita di religione ebraica, che tutt’ora non ha trovato una sua sistemazione all’interno del capitalismo, come del resto il razzismo sistemico del capitalismo, benché abbia formalmente abolito la schiavitù, continua ad opprimere i “neri” di ogni religione.

Ma questo fatto reale ha determinato un moto risorgimentale borghese del popolo ebraico per uscire fuori dall’oppressione secolare attraverso la formazione di un proprio Stato nazionale e di un mercato nazionale capitalistico?

Qui, se siamo marxisti, dovremmo confermare che gli Stati nazionali, sia quelli delle monarchie della fase precapitalistica, che contribuirono alla accumulazione originaria del capitalismo attraverso il saccheggio delle “colonie” dal 1500 in poi, sia quelli moderni “borghesi”, si determinarono e si determinano non per virtù “etiche”, ma sulla base della spinta della centralizzazione di rapporti mercantili e dello sviluppo delle forze produttive. Ancor più, con l’emergente capitalismo, consolidare una trama di mercato nazionale era il presupposto per lo sviluppo dell’accumulazione capitalistica allargata, e dunque fattore determinante per la formazione o sistemazione dei diversi Stati nazionali da cui scaturivano i moti rivoluzionari e/o risorgimentali che dalla fine del 1600 fino a tutta la prima metà del 1800 caratterizzarono la storia della vecchia Europa e la formazione delle moderne nazioni borghesi.

Lo Stato nazionale affascia un “indistinto popolo” con le sue differenti classi sociali determinate dal modo di produzione capitalistico, e vengono accomunati dalle relazioni che lo sviluppo del mercato capitalistico produce nella comune necessità dello sviluppo delle forze produttive. Popolazioni di lingua comune o dal retroterra storico e religioso comune trovarono la loro sintesi nella moderna nazione borghese che il capitalismo spingeva a realizzare come sua necessità storica dell’accumulazione del valore e della produzione di merci.

Poteva il popolo ebraico oppresso yiddish e aschenazita immaginare una sua emancipazione dall’oppressione attraverso la formazione di un suo Stato nazionale, essendo sparpagliato nell’Europa centrale e orientale, il cui iniziale insediamento risale al X secolo d.c. nel Renano e nel Palatinato del Sacro Romano Impero? Come poteva nascere un moderno risorgimento democratico borghese per una “patria ebraica” per la necessità di un mercato e capitalismo nazionale ebraico, tra aschenaziti sparpagliati nel vortice della formazione del mercato capitalistico in Germania, Lituania, Polonia, Russia, Ucraina, Paesi Bassi, Ungheria, Francia ed Italia?

E come questo moto poteva accomunare aschenaziti del centro o est Europa con i sefarditi di Spagna accomunati solamente da una religione dai tratti comuni al 95%, ma dai caratteri linguistici ed economici molto diversi (gli aschenaziti parlavano yiddish affine al germanico, mentre i sefarditi prevalentemente parlavano l’ebraico ladino, un misto tra arabo, turco e spagnolo)? La lingua, infatti, non è solo un sovrastruttura, ma è essa stessa una forza economica materiale.

Quello che ha accomunato i due popoli di discendenza giudaica ed ebraica, era ed è stata certamente la comune oppressione razziale, ma i caratteri fondamentali economici per la determinazione di un moto nazionale borghese contro l’oppressione subita erano storicamente assenti. Semmai il moto per l’emancipazione dalle discriminazioni del popolo ebraico veniva risucchiato nel vortice dei rapporti capitalistici emergenti nei paesi dove esso risiedeva.

I popoli Aschenaziti e Sefarditi, la cui oppressione si rafforza con lo sviluppo capitalistico, rimangono intrappolati nello sviluppo prorompente delle forze produttive del capitalismo, che li sottomise e li coinvolse – come popolo discriminato – nella formazione delle moderne nazioni borghesi e di rispettivi mercati nazionali.

Bruno Bauer coglie l’essenza e l’aspirazione del popolo ebraico di combattere l’oppressione razziale e di lottare per la sua emancipazione, ma che questa non può non essere che inserita appunto nella necessaria trama di mercato nazionale unitaria e dunque dello Stato tedesco. Indica all’ebreo oppresso di spogliarsi delle sue specificità e di sposare la causa dell’emancipazione politica del cittadino tedesco attraverso il rafforzamento e la formazione di un moderno Stato tedesco. In sostanza Bruno Bauer assomiglia molto ai democratici antirazzisti – del tutto razzisti – del nostro tempo. Rispetto al cittadino ebreo che soffre realmente per le discriminazioni ed i progrom negli Stati europei in formazione, egli domanda perché mai il percorso dei cittadini ebrei non debba aspirare alla emancipazione politica di tutti i cittadini tedeschi e dunque lasciarsi assimilare dal processo determinato del capitalismo tedesco? Bruno Bauer è un Hegeliano ed ovviamente non pone così schiettamente i termini della questione, ma la sostanza è proprio questa. Il giovane Marx, nel 1843, ancora un Hegeliano egli stesso e non ancora un marxista, prova a dare un risposta che una emancipazione politica è impossibile senza una completa e vera “emancipazione sociale”. Ma di fatto questo accadde, determinando tra gli ebrei diversi atteggiamenti a seconda delle condizioni materiali di esistenza della loro vita.

Gli aschenaziti della Germania furono quelli che più che altrove furono risucchiati nel processo di consolidamento del capitalismo tedesco, cercando all’interno di questo di emanciparsi dalla oppressione razziale. Ne venne fuori un processo di “assimilazione” all’interno della società tedesca divisa in classi e non di emancipazione. Tanto più questo processo andò a fondo e tanto più il capitalismo tedesco li sacrificò sull’altare della competizione imperialistica internazionale, attuando l’atroce genocidio degli ebrei della Germania e delle altre nazioni occupate durante la guerra, a riprova che nel capitalismo non vi è soluzione per l’emancipazione dei popoli e delle nazionalità oppresse.

Secondo le distinzioni di classe al suo interno, mentre le classi borghesi ritennero erroneamente l’assimilazione sinonimo di emancipazione, i proletari provarono ad associarsi con il movimento operaio europeo. Molti dirigenti ed illustri nomi rivoluzionari del movimento operaio di fine ’800 sono di origine ebraica (e qui non c’è bisogno di citarne i nomi). Essi divennero militanti all’interno di un movimento storico, che attraverso i propri partiti socialisti, aspirava alla emancipazione sociale di tutti i lavoratori. Altri, all’interno del più generale flusso migratorio provocato dal mercato capitalistico, emigrarono per sfuggire ai progrom. Tra il 1880 ed il 1929 quattro milioni di ebrei aschenaziti oppressi dal centro Europa e dall’Europa orientale emigrarono per sfuggire all’oppressione razziale, ma solo 120 mila ebrei si diressero in Palestina. La maggior parte cercò rifugio e possibilità di emancipazione ed integrazione economica nelle giovani nazioni capitalistiche del Nord America, della Australia, dell’Argentina e perfino in Kenya.

A prima del 1880 gli ebrei di Palestina erano non più del 5% della popolazione totale, ed erano i discendenti di quelle comunità giudaiche che fin dalla fine del XIII secolo (ossia dalla fine delle crociate cristiane) si erano reinsediate nelle piccole comunità ebraiche ad Hebron, Gerusalemme, Nablus, Haifa, Shafer Am e Tiberiade. Ancora alla fine degli anni venti la popolazione ebraica, a fronte dell’emigrazione ebraica “impulsata” dal moto sionista per la patria di Eretz Israel non raggiungeva l’11% della popolazione totale della Palestina.

Dunque, che cosa determinò un movimento storico nazionale per la formazione dello Stato di Israele, patria del popolo ebraico? La scarsità dei numeri ed i fattori endogeni di ceti borghesi ebraici, cresciuti durante lo sviluppo capitalistico nell’Europa centrale ed orientale sembrano inesistenti. Storici ebraici fedeli alla ideologia nazionalista sionista spiegano questo dato storico inconfutabile con l’oppressione dell’impero Ottomano che ostacolava il ritorno degli ebrei nella loro patria storica, limitando o vietando la nuova immigrazione degli aschenaziti europei. Questa spiegazione è decisamente priva di prove storiche ed è anche insufficiente. Perché se davvero fosse esistita un diffuso ed esteso moto risorgimentale ebraico come risposta alla loro necessità di emancipazione, a fronte dei 4 milioni di ebrei che tra il 1880 ed il 1929 emigrarono di sicura una parte molto più considerevole del 3% dell’emigrazione ebraica di fini ’800 ed inizio ’900 si sarebbe diretta in Palestina, così come oggi non vi è barriera che può impedire in assoluto che gli sfruttati del mondo arrivino qui nei confini della ricca ed opprimente Europa. A convincere gli ebrei ad emigrare in Palestina e ad assimilarsi alle necessità del capitalismo finanziario mondiale ci volle il finanziamento dell’imperialismo britannico e poi infine un olocausto.

Sappiamo bene che gli Stati moderni, capitalisti nazionali, non si formano per motivi e sulla base di spinte “etiche”, ma per ragioni dannatamente terrene che sono quelle delle forze della accumulazione capitalistica, dello sviluppo del mercato nazionale e la sua contesa sul mercato internazionale per la rapina imperialista ai danni dei paesi oppressi e colonizzati. Allora che cosa spinse un moto storico verso la definizione dello Stato di Israele se per tutta la seconda metà del 1800 ed i primi 30 anni del ’900 esso non volgeva di sua spontaneità verso la terra promessa?

Il movimento ebraico nazionalizzato dal sionismo trova le sue radici materiali ed economiche nelle necessità di conquista dei mercati da parte delle grandi potenze capitalistiche europee, che miravano a sgretolare l’impero Ottomano. L’impero Ottomano, già in difficoltà per via dello spostamento del commercio mercantile verso l’oriente dal Mediterraneo alle rotte atlantiche dominate dalle nuove potenze coloniali del XVII secolo, subì una graduale perdita del suo potere commerciale e finanziario, cominciando ad essere oggetto di ripetute guerre mosse da Austria, Francia, Polonia, Russia, Italia e Gran Bretagna e ad accumulare ritardi nello sviluppo capitalistico dell’impero. Le riforme amministrative, fiscali, l’abolizione delle tasse di capitolazione (tassa che ognuno non appartenente alla umma musulmana doveva pagare alle autorità dello Stato), della proprietà fondiaria della terra, l’avvio dell’ammodernamento delle infrastrutture dei trasporti avviata nel periodo del 1808-1839 (le riforme del Tanzimat), non furono in grado affinché l’impero della Sublime Porta non dovesse subire la espansione vorticosa e l’urto da parte del mercato capitalistico europeo. Le guerre ripetute, a partire dalla guerra Russo-Turca del 1877-1878, diedero un duro colpo alla presenza e alla influenza Turca in Europa ed un conto salatissimo per le casse finanziare dello Stato, e con esso il processo di riforma capitalistico ne risultò penalizzato.

Il ripiegamento dell’impero Ottomano dall’Europa centro orientale, dai Balcani e dalla Bulgaria (vedasi il trattato di Santo Stefano ed il successivo Congresso di Berlino del 1878) provocò il rimescolamento delle questioni di “nazionalità” all’interno di tutta l’Europa centrale ed orientale, a partire dalle regioni prima controllate o sotto l’influenza dell’impero Ottomano: dalla Bulgaria alla Erzegovina, dalla Tessaglia a Cipro, dalla Serbia al Montenegro, in Tracia ed in Albania. All’interno di questo sommovimento anche le minoranze “tedesche” si agitarono e queste spinte “nazionali” oggettivamente erano anche esse il frutto della penetrazione del capitale finanziario e delle potenze europei nel ridefinire sfere di influenza e dominio sui mercati sottratti all’impero Ottomano. È il periodo della pace “bismarckiana”, che mentre si impegna a mantenere un certo status quo nei rapporti di forza tra Francia, Austria, Russia, Italia e Gran Bretagna da un lato e Turchia dall’altro, la ritirata ottomana dall’Europa centrale ed orientale produce il fiorire di nuove “questioni nazionali”, tra cui anche quella dei popoli tedescofoni (uno su tutti i Sudeti di Polonia, Boemia e Moravia), come appunto aspetto determinato della lunga marcia di penetrazione europea nel mercato capitalistico del mondo arabo e ottomano. Fu il periodo dell’affermazione del “diritto di autodecisione delle nazioni” in senso al movimento socialdemocratico europeo e tedesco, tutto dal sapore imperialista e socialsciovinista.

Immediatamente dopo la sconfitta con la Russia ed il conto salato presentato a Santo Stefano ed a Berlino, l’impero Ottomano fece una inversione della riforma del Tanzimat verso la cosiddetta riforma Hamidiana che dismetteva dal centro della riforma dell’impero il precedente carattere “ecumenico”, in favore di un ritorno all’Islam (periodo che va dal 1882 al 1908). Il carattere generale della riforma fu il tentativo di modernizzazione capitalistica dell’impero nelle regioni musulmane dell’Asia Minore e del Nord Africa, mettendo al centro degli investimenti i musulmani non turchi (albanesi, curdi ed arabi). In quegli anni grazie agli investimenti pubblici dello Stato vennero costruite grandi ferrovie nell’Anatolia e che collegavano la città di Damasco con la città sante dell’Arabia. Damasco fu elettrificata e dotata di tram elettrici prima ancora di Costantinopoli. Fu un tentativo capitalistico di concentrare nelle mani dello Stato i capitali singoli della imprenditorialità araba, affinché questi non finissero facilmente nell’attrazione del capitale finanziario e neoimperialista delle potenze europee, che come nell’Europa centrale provocava altrettante “questioni di nazionalità” nell’Asia Minore contro la Turchia.

Questo tentativo non consentì all’impero Ottomano di subire ancora pesanti perdite all’inizio del XX secolo: non dimentichiamoci la guerre dell’imperialismo italiano contro la Turchia del 1911-1912 per la conquista della Cirenaica, della Tripolitania e del Dodecaneso nel mar Egeo al tricolore italico, e la successiva guerra balcanica del biennio 1912-1913 che definitivamente impose all’impero della Sublime Porta un ruolo di secondo piano all’interno del mercato capitalistico dominato dalla finanza imperialista e la sua definitiva dissoluzione con gli esiti del primo conflitto imperialista mondiale. Senza dimenticare che le riforme non poterono essere portate fino in fondo proprio a causa dei continui e salatissimi debiti di guerra che la Turchia doveva pagare.

Gli anni di fine ’800 e del declino dell’impero ottomano, sotto la forza della penetrazione delle merci e dei capitali finanziari dei paesi imperialisti meglio attrezzati, caratterizzò anche gli anni in cui il movimento operaio ufficiale si ubriacò anche esso del “diritto di autodecisione delle nazioni”, in tutte le situazioni aggrovigliate dell’Europa centro orientale. Sono gli anni in cui la rivoluzionaria Rosa Luxemburg si scaglia contro la definizione di questo principio imperante nella socialdemocrazia europea, difendendo un punto di vista marxista ed autenticamente rivoluzionario: “..un diritto delle nazioni che si riferisca imparzialmente a tutti i paesi e a tutte le epoche non è altro che retorica metafisica sul tipo dei diritti dell’uomo o dei diritti del cittadino…. Il materialismo storico ci ha insegnato che il contenuto reale di queste verità, leggi, formule eterne dipende sempre e soltanto dal rapporto sociale materiale di un dato ambiente o di una data epoca storica”.

In sostanza Rosa Luxemburg rileva che il riconoscimento del diritto alla autodeterminazione delle nazionalità europee minori (serbi, bulgari, romeni, greci, polacchi) era riconosciuto all’interno di questo impianto espansivo di sostegno dello sviluppo progressivo del capitalismo in Europa delle grandi potenze neoimperialiste, cui il socialismo sarebbe arrivato dopo per effetto progressivo. Quando svolge lo sguardo in direzione dello sviluppo dell’imperialismo e la dominazione coloniale delle nazionalità oppresse in Asia, Africa, America Latina, ecc., la nostra compagna rivoluzionaria non può che constatare che in seno al movimento operaio tedesco il concetto del diritto “delle nazioni” veniva praticamente applicato alle sole questioni europee, ma non veniva applicato per le colonie, concludendo che così “il diritto delle nazioni all’autodeterminazioneè la rappresentazione in seno al proletariato dell’ideologia borghese dellerazze dominanti”, il diritto di autodeterminazione diventava il “diritto del lavoratore tedesco” a favorire l’auto determinazione ed il rafforzamento del proprio Stato e del proprio capitalismo tedesco.

Questi sono gli anni ed il contesto storico dello sviluppo della accumulazione capitalistica e del mercato mondiale sempre vieppiù dominato dal capitale finanziario imperialista; all’interno di questo crogiuolo di “insorgente” spinta “democratica borghese” delle nazionalità europee “minori” viene determinato anche il cosiddetto movimento europeo di emancipazione del popolo ebraico all’insegna del sionismo e della “patria ebraica”.

Fu appunto la necessità impersonale degli Stati Imperialisti meglio attrezzati di colonizzare pezzi dell’impero Ottomano in disfacimento per via della pressione del mercato capitalistico mondiale e della sua concorrenza capitalistica.

L’intellighenzia ebraica sionista, rappresentante dei ceti borghesi ebraici determinati nel contesto dello sviluppo capitalistico in Europa, non fu strumentalizzata dagli interessi imperialisti in Medio Oriente e nel mondo arabo per il proprio vantaggio imperialista. Al contrario, il sionismo, ossia le “nazionalizzazione dell’ebraismo” (ottima definizione dello storico israeliano Ilan Pappè) fu esclusivamente una forma del tutto particolare del colonialismo imperialista europeo in Palestina ed in Medio Oriente.

La fase della colonizzazione imperialista europea finanziaria e militare della Palestina attraverso il sionismo delle classi borghesi europee

Le cause ad origine dello Stato di Israele come prodotto storico dell’emancipazione del popolo ebraico oppresso in Europa non nascono a seguito del martirio, del genocidio della Shoà e dell’olocausto subito dagli ebrei. La dominazione imperialista della Palestina sotto la bandiera di Re David comincia molti anni prima dell’avvento del nazismo in Germania, quando pochi nuovi colonizzatori europei dal portafogli gonfio, di fede ebraica, con il credito delle banche inglesi e di aspirazione sionista, cominciano già nei primi anni del XX secolo ad insediarsi in Palestina. Mentre il sionismo, come ideologia borghese europea, nasce qualche decennio prima, insieme a tutta una serie di nazionalismi borghesi reazionari che scomposero l’ordine in Europa centrale ed orientale a seguito del decadimento dell’impero Ottomano.

Nei primi anni del XX secolo la popolazione ebraica (includendo l’arrivo dei nuovi colonizzatori europei sionisti) non arrivava al 5% del totale della popolazione totale in terra di Palestina.

La storiografia ufficiale imperialista occidentale ed israeliana ci racconta che la piccola emigrazione del popolo laborioso discendente dai Re David e Salomone contribuì già ad inizio XX secolo alla fioritura ed al progresso economico della Palestina araba e arretrata. Ci spiegano che gli arabi arretrati ed i proprietari fondiari palestinesi, abituati al solo incasso della rendita fondiaria, lasciarono degradare le campagne e l’agricoltura tra il mare e la valle del Giordano. Viceversa, i nuovi borghesi imprenditori ebraici riscattarono le terre incolte con i loro “capitali risparmiati in Europa” e depositati nelle banche di Gran Bretagna, Francia e Germania, e le fecero rifiorire rigogliose applicando una moderna intrapresa agricola capitalistica. Questa è la mitologia storica che ci raccontano, la fioritura di un moderno capitalismo è la volontà dell’uomo laborioso ed etico e non un processo impersonale determinato.

La realtà economica della struttura capitalistica nel Medio Oriente ed in Palestina era davvero differente da quanto il sionismo storiografico racconta. Fu proprio lo sforzo dell’impero Ottomano a colmare il gap con le potenze capitaliste d’Europa, atto a favorire il finanziamento in infrastrutture funzionali alla produzione manifatturiera ed industriale locale a sottrarre quelle risorse necessarie per la produzione agricola, che necessitava periodicamente di finanziamenti dello Stato centrale in opere pubbliche. Furono i debiti di guerra imposti dalle guerre di fine ’800, la diminuzione delle entrate fiscali per la perdita dei territori europei, che causarono l’arretramento dello sviluppo economico nelle campagne, ampliando la forbice tra sviluppo delle città e della campagna. Fu facile per i nuovi colonizzatori europei strappare le terre a buon mercato ai proprietari fondiari palestinesi, che vedevano diminuire il loro patrimonio in rendite della terra. La graduale e progressiva conseguenza di questo processo fu l’aumento dell’urbanizzazione nelle città costiere, di una crescita della disoccupazione dei braccianti palestinesi e dell’abbassamento dei salari operai nelle città.

In quegli anni, lo Stato centrale Ottomano sottovalutò l’insediamento “mite” del popolo ebraico nazionalizzato all’insegna del sionismo. Lo ritenne pari alle tante operazioni missionarie cristiane francesi, inglesi e spagnole. Le élite borghesi palestinesi, nonostante la mitezza dei nuovi arrivati, iniziarono tra il 1905 ed il 1911 a ritenere che l’obiettivo della colonizzazione ebraica della Palestina avesse obiettivi più ambiziosi. Nel maggio del 1911, Said al-Husayni, deputato palestinese al parlamento di Istanbul, dichiarò che la nuova impresa di colonizzazione europea mirava alla realizzazione di uno Stato nell’area che avrebbe incluso la Palestina, la Siria e l’Iraq. Ma la stessa corrente di notabili palestinesi che allarmavano le classi dominanti dell’impero Ottomano, tuttavia erano gli stessi proprietari terrieri che poi vendevano le terre ai sionisti.

Con la vittoria di Francia ed Inghilterra nel primo conflitto mondiale bellico e la completa spartizione tra le potenze imperialiste vittoriose di tutti i territori del vecchio impero e la assegnazione della Palestina sotto il mandato dell’imperialismo Britannico (che il lettore si vada a riguardare gli accordi segreti del 1916 anglo-francesi di spartizione dell’Asia Minore che vanno sotto il nome Sykes-Picot che stabilirono la creazioni di Stati e nazioni realizzati su confini inesistenti atti ad alimentare il divide et impera delle popolazioni e degli sfruttati arabi), che il progetto mite dei coloni sionisti prende maggiore slancio a partire dagli anni venti del XX secolo. Fu la forza dell’espansione del capitalismo imperialista, della finanza e della violenza della guerra che spinse la navicella dei nuovi colonizzatori europei discendenti dal popolo ebraico oppresso a pianificare in maniera esplicita la pulizia etnica della Palestina nel nome della missione di costruzione della patria di Eretz Israel. Il governo del mandato coloniale Britannico ed il governo della Corona optò decisamente per il controllo della Palestina avvantaggiando la colonizzazione sionista. La Palestina che era non proprio un possedimento coloniale britannico, ma un territorio dove l’imperialismo della Gran Bretagna esercitava le decisioni relative al futuro assetto di rapporti di forza economici e politici, applicò nel 1929 in un paese dove circa il 90% della popolazione era non ebraica rapporti di parità tra sionisti e palestinesi per la suddivisione della Palestina: il che significava assegnare potere politico e favore economico alla minoritaria classe borghese e capitalista dei nuovi colonizzatori europei ebraici. La Gran Bretagna a quel punto istituisce e finanzia profumatamente l’Agenzia Ebraica, che ha lo scopo di favorire, finanziarie e sostenere con prestiti bancari l’emigrazione ebraica dall’Europa in Palestina. Sono fiumi di sterline che servono per convincere gli ebrei dell’Europa centrale ed orientale ad emigrare nella “terra promessa”, dove il mandato Britannico garantirà loro ottime opportunità.

Sono gli anni in cui la percentuale della popolazione in Palestina vede crescere la presenza dei colonizzatori europei ebraici che arriverà ad essere pari al 30% della popolazione totale della Palestina. Solo che i nuovi ebrei europei possedevano le migliori terre oramai e sono anche strutturati con proprie forze armate irregolari, ben equipaggiate e di ufficiali ben addestrati sui campi di guerra tra opposti imperialismi del conflitto del 1914-1918.

Nel frattempo la borghesia palestinese vede risucchiate le proprie posizioni di rendita derivante dallo sviluppo capitalistico autoctono, e la disoccupazione dei proletari palestinesi aumenta come conseguenza della crisi capitalistica generale del dopo guerra e di fine anni venti.

Ci fu un elemento spesso sottaciuto che contribuì al successo della colonizzazione imperialista della Palestina, sotto l’insegna sionista e attraverso la forza della conquista del mercato mondiale da parte del vorticoso sviluppo dell’accumulazione capitalistica e della finanza imperialista.

Un elemento da considerare nel quadro complesso delle relazioni economiche e di dominazione della Palestina, anche esso determinato dalla capacità della accumulazione capitalistica di riavviarsi anche attraverso la crisi del 1929 e grazie al surplus di finanza del nuovo imperialismo americano, fu la sconfitta storica del movimento proletario internazionale su due livelli fondamentali.

La sconfitta dei tentativi degli assalti rivoluzionari in Europa ed il ripiegamento del 1917 sotto la spinta dello sviluppo delle impersonali forze produttive capitalistiche nella Russia operaia e contadina.

Il secondo aspetto riguardò la sconfitta dell’insorgente moto dei popoli oppressi d’oriente contro l’imperialismo, la cui spinta rivoluzionaria venne raccolta dell’internazionale di Bakù bolscevica e comunista. Anche quella potente spinta rivoluzionaria di un minoritario movimento operaio in Persia, India e nelle regioni contigue e di una massa sterminata di lavoratori diretti delle campagne poverissimi in rivolta a causa della miseria, il degrado a l’arretratezza causati dal vecchio colonialismo e dall’imperialismo, rifluì nel giro di pochissimi anni. È un fatto storico non provato ma su cui riflettere quanto la pandemia della Spagnola del 1918-1920, dove proprio la seconda ondata fece decine di milioni di morti (si parla dai 20 ai 50 milioni di morti, dove la disgregazione del tessuto unitario dei paesi dominati provocata dall’imperialismo fu la causa della diffusione pandemica incontrollata), proprio in quella area e al sud delle regioni della Russia sul mar Caspio, possa aver contributo a far rifluire quella spinta rivoluzionaria, che avrebbe potuto alimentare e rafforzare una rivolta di massa anticoloniale in Palestina.

Il movimento operaio internazionale, nuovamente ripiegato sotto l’ala del capitale, di cui lo stalinismo internazionale e l’antifascismo democratico alla coda della borghesia furono entrambi il prodotto riflesso di esso, vagheggiava sogni di ripresa di una via “socialista sionista”, parteggiava per il “kibbutzismo” operaio e contadino, durante gli anni venti, trenta e fino ai primi anni cinquanta. Tanto è vero che la leadership borghese che condusse il sionismo alla vittoria sugli arabi e sui Palestinesi era quella classe dirigente del Partito Laburista Israeliano che si richiamava agli ideali del socialismo europeo. La sede storica della organizzazione terroristica sionista Haganà, che preparò per prima i piani operativi della pulizia etnica del popolo palestinese, era nella famosa Casa Rossa di Tel Aviv, originale orgoglio degli artigiani ed operai ebrei che la costruirono di fronte al mare, e che fu all’inizio la sede del locale consiglio dei Lavoratori. Il vecchio movimento dei lavoratori israeliani, compiuto il suo compito fino in fondo al servizio delle necessità impersonali dello sviluppo della accumulazione capitalistica Israeliana, la Casa Rossa oggi non esiste più, è stata abbattuta per dare spazio al parcheggio dell’Hotel Sheraton di Tel Aviv, come regola del contrappasso del fallimento del vecchio movimento operaio del ’900.

L’insorgenza del movimento storico di liberazione anticoloniale della Palestina

Sebbene il sionismo capitalistico in espansione in Israele fosse propulsato dalle necessità economiche del capitale finanziario britannico, la storiografia dei nuovi colonizzatori europei sionisti ci dice che la patria di Eretz Israel fu vinta combattendo su due fronti: contro gli arabi ed i palestinesi e contro la dominazione britannica, dandosi così un vanto, oltre che di movimento risorgimentale della nazione ebraica, anche quello di un movimento di liberazione anticoloniale e di liberazione dall’occupante straniero.

A dire il vero la contraddizione tra le forze capitalistiche emergenti locali sioniste e la Gran Bretagna fu semplicemente relativa, non assoluta e sostanzialmente si manifestò a giochi già fatti.

Nel 1919 il primo Congresso nazionale palestinese a Gerusalemme rifiuta la risoluzione di Balfour e rivendica l’indipendenza della Palestina. Winston Churchill in quegli anni scrisse: “Vi sono ebrei che noi siamo impegnati a far rientrare in Palestina e che considerano scontato che la popolazione locale debba andarsene per adattarsi ai propri interessi”. Tra il 1919 ed il 1933 la popolazione ebraica raggiunge il 12% dell’intera popolazione e possiede il 3% della terra.

In questo contesto, la leadership borghese inizialmente ritenne l’emigrazione degli ebri dall’Europa come una politica delle potenze occidentali per far fronte alla crisi economica del dopoguerra favorendo l’emigrazione dei poveri e alleviare la crisi sociale nel vecchio continente. In realtà sono le condizioni dei braccianti poveri palestinesi che peggiorano, per effetto della concorrenza che le poche ma meglio attrezzate intraprese agricole dei coloni ebrei contribuisce a fare aumentare il numero dei palestinesi senza terra. Nel 1929 vi furono sommosse tra palestinesi ed ebrei per la rivendicazione dei diritti sul Muro del Pianto: centinaia di ebrei e palestinesi rimasero uccisi, soprattutto per mano delle truppe inglesi.

Nel 1936, a fronte del proseguo della politica di Balfour di assicurare “un focolare ebraico in Palestina” scoppia la prima rivolta popolare palestinese di massa contro la colonizzazione e la presenza coloniale britannica, in congiunzione con i primi fuochi anticoloniali contro Francia e Gran Bretagna nel Medio Oriente spartito ed occupato dalle potenze imperialiste.

A fronte delle diseguaglianze, la continua espropriazione delle terre operate attraverso le forze dell’Haganà, la disoccupazione, scoppia il primo sciopero generale della Palestina che durò 170 giorni. La rivolta palestinese rivendicava il blocco della colonizzazione sionista, la disobbedienza civile ed il rifiuto a pagare le imposte al governo del Mandato britannico. Lo sciopero ripiegò anche per la complicità delle borghesie dell’Arabia, dell’Iraq e della Transgiordania. Ma l’anno dopo, lo sciopero e la disobbedienza civile scoppia nuovamente ed è una vera rivolta popolare diffusa. Sono i contadini palestinesi (che razzisticamente gli inglesi chiamano “arabi” rifiutandosi di riconoscerli come entità storica, culturale e nazionale) a condurre in prima persona la rivolta contro l’occupazione britannica e le forze militari irregolari sioniste. È la frustrazione della miseria cui sono costretti per la svendita delle loro terre, delle loro case ai sionisti e al pagamento delle forti imposte a soffiare sul fuoco della rivolta armata. Sono gli anni in cui l’Irgun sionista nel 1938 fa esplodere bombe nei quartieri palestinesi delle grandi città, in particolare due volte ad Haifa.

Una vera e propria guerra popolare di contadini senza terra che perdurò fino al 1938, che costrinse la Gran Bretagna ad inviare rinforzi militari in Palestina per un numero di truppe superiore di quante ce ne fossero nell’India coloniale britannica. Mentre il mandato Britannico tenta di applicare una mediazione con le élite borghesi delle città palestinesi, che passò alla storia come il terzo “Libro Bianco”. All’interno di esso vi si definirono due punti chiave: che l’immigrazione coloniale in Palestina sarebbe continuata fino al raggiungimento della popolazione sionista pari al 30% del totale; che successivamente la nuova immigrazione sarebbe stata concordata con le rappresentanze “arabe” di Palestina.  Proposta di mediazione estrema per tentare di risolvere politicamente l’insorgenza dei contadini poveri palestinesi, che sebbene non fu accettata dai palestinesi divaricò al suo interno le élite capitalistiche borghesi locali delle principali città.

La contraddizione – solo relativa – tra la presenza imperialista britannica ed il movimento sionista sta tutta qui. Se per i palestinesi la proposta inglese era la sicura continuazione dell’oppressione palestinese, per le frange più estremiste delle élite borghesi sioniste non era sufficiente: la Palestina doveva essere de-arabizzata completamente, come dai piani originali del sionismo borghese europeo e secondo i piani operativi dell’Haganà. È in questo frangente che gli estremisti sionisti attaccano anche alcune postazioni delle caserme delle truppe sotto il comando britannico. Mentre nei fatti la repressione militare e politica operata dagli Inglesi provvede a sciogliere tutti i partiti politici palestinesi, a deportare i suoli leader e come conseguenza finale almeno 15000 morti palestinesi, altrettanti feriti, 9000 prigionieri palestinesi e almeno 2000 case palestinesi sono rase al suolo per lasciare spazio ai nuovi insediamenti del colonialismo europeo sionista. L’intero movimento di liberazione nazionale democratico borghese della Palestina fu decapitato in conseguenza della forte repressione.

Altro che doppio fronte di guerra del moto risorgimentale sionista per la “patria di Eretz Israele”, bensì piena strada spianata da parte dell’imperialismo inglese alla nuova colonizzazione europea sotto l’insegna della presunta “patria ebraica sionista”. Tanto è vero che quando il governo del mandato Britannico abbandonò la Palestina dopo la seconda guerra mondiale, non esitò a lasciare i mezzi e gli armamenti militari alle forze sioniste, e non mosse un dito per ostacolare l’eccidio dei palestinesi e la pulizia etnica di Haifa che le forze militari dell’Irgun condussero tra il dicembre 1947 e l’aprile 1948. Le ricche borghesie delle città palestinesi già precedentemente in fuga e che lasciarono il proletariato e la piccola borghesia palestinese indifese di fronte alla campagna di pulizia etnica, solo in parte riuscirono a salvare i propri capitali. Molti dei conti correnti delle intraprese capitalistiche palestinesi erano versati sulle filiali bancarie britanniche in Palestina e nei conti dell’Arab Bank fondata nel 1930 sotto mandato Britannico a Gerusalemme (oggi ha sede ad Amman). Tutti i conti vennero bloccati e poi requisiti dal neonato Stato di Israele che oltre alle terre espropriò i palestinesi anche dei capitali.

La questione nazionale palestinese e quella dell’oppressione del popolo ebraico, due elementi irrisolvibili nel quadro del modo di produzione capitalistico

Il popolo ebraico aschenazita oppresso, che in tutta questa vicenda di quasi 70 anni della colonizzazione imperialista completa della Palestina, che mai si affacciò per le terre di Palestina fuggendo via dalla Europa capitalista e cristiana, e tutti gli altri e più dei 4 milioni di ebrei che sfuggirono ai progrom emigrando in altri paesi capitalistici “più accoglienti” e di nuova formazione (ossia la stragrande maggioranza del popolo ebraico) non cercarono una “patria etica” e religiosa (così come diverse comunità ortodosse ebraiche sostengono sia appunto una eresia religiosa del vero giudaismo che la nazionalizzazione del giudaismo per mezzo del sionismo rappresenta). Soprattutto la grossa comunità Jewish Aschenazita della Germania (che lì si insediò intorno al X secolo), viceversa cercò la via della propria emancipazione dalla discriminazione razziale all’interno del suo contributo allo sviluppo delle necessità delle forze economiche del capitalismo tedesco, realizzando appunto i “desideri idealisti” di Bruno Bauer del 1843. Nel processo della costruzione di una grande Germania laica, e dunque nella loro forzata accondiscendenza per la loro assimilazione all’interno delle forze mercato, il popolo ebraico aschenazita della Germania pagò lo scotto maggiore nel vortice della crisi mondiale che sconvolse l’evoluto mondo capitalista a cavallo delle due guerre imperialiste, fu sacrificato nei campi di sterminio nazisti e successivamente utilizzata a rafforzare e legittimare i carnefici sionisti nel percorso storico determinato dalle stesse forze del genocidio degli arabi, dei palestinesi che ancora prosegue.

L’intero popolo ebraico è stato così soggiogato alle necessità impersonali della concorrenza agguerrita sul mercato capitalistico mondiale tra potenze le imperialiste, Israele compresa, come cane da guardia contro tutte le masse sfruttate proletarie del Medio Oriente. Costretto a doversi confrontare con la sacrosanti rivolta degli sfruttati dell’area del Medio Oriente e con il ritorno di vecchi e nuovi concorrenti nella più generale crisi sistemica del capitalismo mai sperimentata prima. Con questo possiamo dire che la questione storica della discriminazione degli ebri rimane irrisolta per la gran maggioranza del proletariato “razzializzato” ebreo di Israele, ad eccezione delle classi ricche e borghesi.

Insieme all’impossibilità di risolvere la questione dell’oppressione degli ebrei nel quadro del mercato e dei rapporti di produzione capitalistici, anche la questione nazionale della Palestina liberata dagli oppressori e colonizzatori è anche essa irrisolvibile, una volta battuto e sconfitto il moto di liberazione nazionale del 1936-1938, e soprattutto oggi venendo meno la fase di relativa espansione dell’accumulazione capitalistica del dopoguerra, che consentì a concedere al nazionalismo arabo una relativa autonomia e sviluppo nel quadro del capitalismo imperialista mondiale.

L’espansione del mercato e dei rapporti capitalistici, lo sfruttamento imperialista dell’oro nero, delle risorse preziose e della masse proletarie del mondo arabo ed islamiche hanno realizzato una complessa rete in cui non vi è moto nazionale democratico borghese per lo sviluppo delle forze produttive possibile – giusta l’affermazione di Rosa Luxemburg di più di cento anni fa – che possa liberare i popoli dominati dallo sfruttamento, dalla fame e dall’oppressione. Tutte le nazioni arabe e le economie capitalistiche del Medio Oriente, inclusa quella palestinese, sono intrecciate a filo doppio con i destini delle necessità impersonali della accumulazione capitalistica mondiale, la cui crisi costringe vecchi alleati dell’area ed i fedeli cani da guardia del dominio USA a dover giocare in proprio, a competere.

In questo senso gli scenari dell’escalation della pulizia etnica della Palestina da parte di Israele sono gli scenari del mondo e dello scontro sociale che la crisi irrisolvibile sta dipanando fin dentro il cuore delle metropoli imperialiste, rendendo davvero arduo l’allineamento di un nuovo mostro proletario meticcio sotto i rispettivi carri nazionali. Il crollo ed il declino della potenza imperialista USA nell’area e le difficoltà di Israele oggi predispongono scenari simili a quelli del disfacimento del vecchio impero Ottomano che aprì ad una lunga catena di nazionalismi borghesi e reazionari in Europa e condusse al primo macello imperialista mondiale e poi al secondo. Oggi molte forze impersonali del capitalismo soffiano sul fuoco di una simile soluzione, sia da occidente che dalla prorompente Cina capitalista.

A loro svantaggio c’è l’evidenza di segnali inconfutabili che ci arrivano da quanto smosso intorno alla Palestina. La Palestina è il mondo, ed il mondo è un ribollire di un nuovo mostro proletario meticcio che già ora non può più vivere come prima e che, fortunatamente, comincia ad autoriconoscersi non per motivi di principio ideologici ma per situazioni materiali sempre più simili della riproduzione delle proprie condizioni di vita.

Il manifesto prodotto dalla insorgenza dei popoli indigeni dell’America Latina afferma che quanto stiamo assistendo “dalla Palestina alla Colombia i popoli indigeni stanno fieramente resistendo al capitalismo ed al colonialismo, nel mezzo della continuazione della pandemia del covid-19. Questo non è giusto un momento insurrezionale, ma un processo in movimento continuo di resistenza… come la catastrofe pandemica e climatica rivela i fallimenti del capitalismo, c’è un continuo di una autonoma globale contro offensiva. La solidarietà anticolonialista ed anticapitalista è lottare dove tu ti trovi…”. Segnali di un nuovo mostro proletario internazionale in componimento.